Dietro di noi abbiamo generazioni di donne che hanno lottato e lottato e lottato, in casa e fuori casa, in solitudine e in collettività politiche, per salvare la propria vita, per la vita di tutte le donne, per la vita di tutti i nati e nate da donna sul pianeta, per la vita del pianeta.
Veniamo da una lunghissima storia di conquiste e sconfitte e la sconfitta delle donne ha sempre significato sconfitta di una società intera, guerra, morte, distruzione, genocidio, paura.
Abbiamo ricominciato ogni volta da noi, dalle nostre case, dalle nostre, vite, cambiando relazioni, quotidianità, leggi.
Abbiamo conquistato l’emancipazione, cioè la parità giuridica, l’inclusione nel sistema legislativo ed economico pensato da uomini per uomini, abbiamo scritto leggi inventando la democrazia che era parola fragile e imprecisa, continuando a conservare, accudire e procreare la vita dentro quell’economia della riproduzione che non rientra nei criteri di misurazione della ricchezza e viene oscurata dalla cultura che elabora i valori sociali e di cui, proprio con l’emancipazione, ci hanno fatte complici.
In Italia abbiamo conquistato l’emancipazione ora si tratta di uscire dal patriarcato.
Non si tratta solo di includere e promuovere competenze femminili, come riconoscono e prescrivono le leggi a cominciare dalla Costituzione, ma di vedere la realtà, così come ce l’ha mostrata la pandemia, che ha reso visibile la centralità di tutto il lavoro della riproduzione umana, di cui la produzione è derivato storicamente più mutevole, più fragile anche quando riguarda settori “duri” come la siderurgia, e da adeguare continuamente alle istanze e centralità della vita.
Si tratta quindi di guardare alla storia cancellata delle donne e soprattutto alla storia politica, lunga e rimossa ma determinante nei cambiamenti sociali a favore di tutte e tutti, com’è stato nella resistenza al nazifascismo e nella ricostruzione del dopoguerra.
Questo è il nostro punto di partenza, il resto è tutto da inventare nella molteplicità delle situazioni e occasioni, immaginando che non possiamo pensarci come soggetto politico solo in quanto donne ma proprio partendo dalla nostra storia politica sappiamo di dover tener conto delle differenze di condizioni materiali, di accesso alle risorse, di esperienza dell’abitare, di relazione con le generazioni che verranno e già crescono accanto a noi.
Possiamo pensare di avere interessi diversi e persino divergenti ma, al fondo, la storia e la concretezza del presente ci stanno dicendo che proprio la lunghissima esperienza di emarginazione dalle decisioni politiche e dai luoghi del potere culturale, religioso, statuale, ci consentono di avere più esperienza di ciò che conta davvero, più prudenza e sobrietà nell’elaborazione e nelle proposte, e perfino più senso di giustizia perché proprio come donne conosciamo la differenza tra valore del diritto e fatica del privilegio ai fini della nostra libertà.
Si tratta oggi, per chi ha più strumenti, più potere, più possibilità, più agi, di capire come iniziare processi solidali di cambiamento che inventino reali possibilità di giustizia sociale facendo i conti con i propri livelli di complicità con un sistema che richiede alle donne investimenti doppi di fatica intelligenza creatività, e perfino devozione, per ottenere quanto uomini mediocri ottengono con naturalezza.
La generazione di giovani donne con lauree brillanti e carriere dignitose ha dimostrato ciò che le generazioni precedenti sapevano e sognavano: la capacità delle donne di essere ovunque e ovunque eccellenti.
L’eccellenza di molte si è però accompagnata all’asservimento di moltissime, una differenza legato non solo a storie sociali e territoriali ma anche alla possibilità di avere o meno un sostegno famigliare, una rete affettiva dentro un territorio conosciuto.
Dietro ogni donna in carriera, dietro ogni donna che lavora, c’è una rete femminile di sostegno affettivo e/o lavorativo costituita da donne che scompaiono dalla visione generale, relegate nella zuccherosa e faticosa condizione di nonne, a tempo pieno o quasi, e confinate in lavori indispensabili di accudimento, delle persone e delle case, a bassa o nulla contrattualità sociale.
Gli uomini, quando ci sono e se ci sono, per necessità o scelta, come padri o come figli, sono considerati comunque occasionali dalla cultura dominante e familista tanto che non esiste una richiesta maschile collettiva di tempo per l’accudimento personale e famigliare, non esiste una contrattazione del tempo di lavoro perché sia compatibile con il tempo di vita, che è tempo per la cura personale, degli ambienti, delle persone, del mondo intorno.
Alle donne, prevalentemente, è affidata l’organizzazione della quotidianità, compresa la distribuzione dei compiti quando vengono delegati e il cambiamento non può essere affidato alla contrattazione privata dentro le relazioni di coppia o di famiglia perché questo genera una microconflittualità, certamente legittima ma sfiancante, che trova come ostacolo insormontabile la cultura delle relazioni sociali e l’organizzazione del lavoro.
La contrattazione del tempo di vita e il limite da porre al lavoro, a qualsiasi lavoro, non può essere più affidata a singoli sindacati di categoria, la cui forza non è mai tale da scardinare i processi di riproduzione dell’ordine patriarcale così ben installato nel modello neoliberista dell’economia.
Si tratta di un tema centrale relativo alla società che vogliamo ed è la continuità storica con quella conquista delle otto ore che fu la vera concreta uscita dalla schiavitù che conservava, e tuttora conserva, in vari settori dell’economia, la disumanità di una gerarchia cancellata dalle legislazioni solo ieri.
Perché faccio riferimento alle donne? Perché le donne continuano ad essere l’energia oscurata che facilita tutti i processi riproduttivi, in tutti i settori e a tutti i livelli.
Le donne sono le cariatidi che sostengono il patriarcato nelle attuali forme apparentemente libere solo perché segnate da quel liberalismo e liberismo nati invece solo per la libertà di alcuni, maschi bianchi adulti sani benestanti proprietari.
Quando parlo di donne non penso che siano salvifiche per natura, conosco molto anche dei lati oscuri, del tradizionale sostegno al patriarcato perché la cosiddetta contrattazione privata, col marito, il capufficio, il docente in cattedra, il manager, è da sempre la strada indicata e per molte la via più semplice e breve per ciò a cui hanno smesso di aspirare per diritto.
La pratica della cooptazione per conoscenza diretta coesiste con e nel sistema democratico, che è stato man mano eroso alla base, nei luoghi di lavoro, nella scuola, nella sanità, nei Comuni, dove l’elezione del capo con ampi poteri ha sostituito le pratiche democratiche, considerate ostacolo alla buona gestione e allo sviluppo. La verifica del fallimento è nei fatti ma la deriva gerarchica e vetrinista non accenna a cambiare.
In questo sistema le donne, minoranza nella dirigenza, (ma non in relazione all’occupazione femminile) e maggioranza lavorativa in alcuni settori, sembrano avere la funzione di lubrificante per la facilitazione dei processi, ai quali spesso aderiscono con convinzione se garantiscono quella posizione apicale agognata he porta con sé privilegi, piccoli o grandi e perfino più immaginari che reali.
Sono però molote anche le donne che contrattano con dignità, che non si asservono, che mediano senza perdere di vista il risultato, che s’interrogano e si confrontano senza compiacere, che vivono il proprio valore umano senza arroganza e senza piaggeria.
Sono le donne che costruiscono, nelle case, nelle relazioni e ovunque, reti di sopravvivenza, sostegno, possibilità di innovazione creativa e non distruttiva, le donne che lavorano in smart working e raccontano fiabe, che dirigono un’istituzione fanno la spesa ai vicini anziani e portano le schede ai compagni di classe dei figli, esclusi dai mezzi per la didattica a distanza, sono le donne che scelgono la propria realizzazione personale e possono andare in paesi stranieri alla ricerca di sé, le donne che sanno costruire famiglie non familiste, prossimità affettive e amicali anche con maschi che imparano dall’autonomia personale a diventare uomini, le donne che imparano a vivere la maternità fuori dall’onnipotenza del materno o sanno prendersi cura di sé e del mondo senza diventare madri, le donne che puliscono i musei, i palazzi del parlamento, le case, le comunità e leggono libri coltivano fiori si separano da uomini violenti, rinunciano a matrimoni convenienti, sono le donne che curano, accolgono, confortano in un ospedale in una casa di riposo in una comunità per minori.
Sono/siamo le donne che diventano e si inventano continuamente, consapevoli del limite, saltando ostacoli o smontandoli, o semplicemente ignorandoli, decidendo di andare per un’altra strada, la propria.
Di tutta questa enorme varietà esistente, e politicamente ignorata e mortificata, abbiamo bisogno di farne proposte percorribili dentro visioni credibili.
A me che scrivo sembra un compito immenso, impossibile, che mi ferma il cuore per la vastità dei programmi necessari, eppure so che tante cose incredibili si sono realizzate e quanto le donne sono state fondamentali per il cambiamento.
So che siamo in moltissime, donne credibili che non millantano credito, donne affidabili perché altre donne hanno fatto affidamento su di noi, fidandosi e imparando a non affidarsi perché la fiducia genera autonomia e intraprendenza, donne autonome nel lavoro, nella vita, nel pensiero, perché l’autonomia è la libertà di fare errori, tornare indietro, rimediare, ripensare, perfino pagare per il danno; siamo donne che conoscono le donne perché cerchiamo di conoscere noi stesse e dare parola a questa conoscenza fuori da stereotipi esaltanti o avvilenti, non pensiamo che le donne debbano salvare il mondo ma sappiamo che le donne per la maggior parte lo accudiscono ne fanno la manutenzione, mettono lubrificante emotivo a ogni ingranaggio consentendo la riproduzione sociale, purtroppo anche nei suoi aspetti poco nobili o perfino nefasti.
Siamo donne consapevoli di noi stesse perché sappiamo che la consapevolezza è un processo continuo e non un punto d’arrivo, un modo di ascoltare noi stesse, le altre, gli altri, il mondo intero.
Siamo donne dai mille mestieri e che sanno fare contemporaneamente mille cose: tenere in piedi la quotidianità è un’arte che non può dedicarsi solo all’eccellenza perché non conosce riposo e l’eccellenza per noi è prima di tutto il tipo di sopravvivenza che consente di costruire una possibile felicità per tutte e tutti nel divenire della vita.
Siamo donne che partoriscono bambine e bambini, viviamo con ragazze e ragazzi di cui siamo madri, nonne, zie, insegnanti; siamo accanto a uomini, amici, colleghi, datori di lavoro, capi, padroni, uomini di cui siamo dirigenti, responsabili, guida, siamo donne vicine a padri, fratelli, figli, nipoti, amici, colleghi.
Siamo donne che imparano ad essere vicine alle donne ignorando gli stereotipi che ci separano, ascoltando le differenze, alla ricerca di un dialogo senza unanimismo e di forme della democrazia che siano agevoli per le nostre vite perché si occupano di programmi che ci assomigliano.
Siamo donne che tessono incessantemente reti di relazioni.
Siamo donne responsabili: di un gatto, un’azienda, una scuola, un comune, una comunità, un museo, un teatro, un giornale, una rappresentanza, elette in un’istituzione, in un consiglio, in un condominio.
Siamo donne capaci di parlare o che si spaventano di parlare, siamo sui social perché abbiamo l’ambizione di comunicare ma ne indaghiamo le trappole perché per secoli le parole ci sono state nemiche e ci hanno oscurate aprendo la strada alla cancellazione delle nostre vite, alle civiltà fondate sulla nostra sottomissione, alle leggi che hanno legittimato la nostra morte sociale e reale.
Siamo donne difficili per molti uomini, ma siamo anche donne dalle quali molti uomini si sentono liberati e liberi di separare la loro strada da quelli che sono spaventati da noi e di questo spavento si fanno forza per insultarci e ammazzarci.
Siamo donne sapienti perché abbiamo l’umiltà di imparare e imparare e imparare sempre. Ora per molte è tempo di insegnare, di trasmettere una memoria cancellata e osare pensieri che non temono di rivendicare quella giustizia che è la vita degna per tutti e tutte.
Come fare?
Non esiste la possibilità di insegnare se non c’è chi vuole imparare.
E intanto possiamo uscire dall’angustia degli orizzonti e dalla modestia dei propositi, dalla mortificazione di tutta la storia emancipazionista nel piccolo cabotaggio delle carriere legittimate dagli uomini e dalla ragion di stato identificata con la ragion di mercato, modellata sul connubio di lunga durata tra patriarcato e affari, tra patriarcato e arraffamento, tra patriarcato e delinquenza, tra patriarcato e morte.
Disertare la corsa all’eccellenza che prescinde dal contesto e dai costi: i viaggi spaziali sono pagati in carne umana e e sappiamo che perfino la scienza è governata dal mercato più che guidata dal bene comune. Del resto non è la scienza dei grandi laboratori che ha dato la risposta più importante nella pandemia, ma la condivisione di comportamenti che rientrano in quella scienza della vita quotidiana di cui ha scritto Lidia Menapace trent’anni fa insieme all’attività di ricerca e cura disseminata sul territorio in luoghi che affrontano la malattia sempre e non occasionalmente.
In Italia il sud in alcuni aspetti si è rivelato più virtuoso del nord probabilmente perché anche le eccellenze culturali politiche scientifiche non sono asservite completamente al modello aziendalista che ha determinato la morte in Lombardia.
Come donna lombarda conosco quello che è accaduto qui e che la pandemia ha reso visibile, conosco il lato oscuro della nostra ricchezza, oscurato spesso da quella stessa bellezza e impegno e solidarietà che rende così belle le nostre città a cominciare da Milano.
Siamo alla fine di maggio, si parla di aperture, caute, e di futuro; sono consapevole che tra i pensieri e le proposte concrete vanno inventati e/o ritrovati i modi perché è il modo col quale si fanno le cose che ne determina la qualità e ne indirizza il contenuto impedendone la conversione in risultati pessimi come accade spesso con le buone intenzioni.
Se in quello che penso c’è un po’ di realtà, e non si tratta solo delle mie fantasticherie, sono certa che stanno già crescendo i germogli di una realizzazione che forse non potrò vedere ma sono già contenta per averla sognata.