Lucy e le cugine

Forse il prossimo passo evolutivo della specie sarà la riduzione della comunicazione verbale, sia scritta che parlata a favore delle immagini che probabilmente il cervello proietterà direttamente con una capacità di controllo dei contenuti oggi inimmaginabile.
Quello che sto facendo perciò potrebbe essere un insieme di gesti in via d’estinzione. Già si sta estinguendo la scrittura manuale, che esprimeva le singole personalità nel divenire storico delle vite.
Intanto non posso fare a meno di scrivere perché un surplus di pensieri mi costringe a trovare un ordine e una lentezza che mi depositi nel tempo giornaliero depurata dalle urgenze.
Scrivo a computer perché voglio essere letta? Partecipo anch’io quindi alla gara per l’esistenza simbolica, per incidere con le mie parole sulla riproduzione culturale della specie? Questa gara l’ho già persa anni fa, come se avessi pensato di presentarmi alla maratona senza scarpe adatte, sbagliando ingresso per il cartellino, dimenticando di iscrivermi, perfino sbagliando percorso fino a ritrovarmi sola in un punto anonimo di una città sconosciuta.
Ma in quella città metaforica posso girare senza meta, senza obiettivi, senza prescrizioni, sapendo che non sono sola.
Mi tiene compagnia il sentimento di tenerezza per Lucy, australopiteca, di cui il correttore automatico (sessista ignorante) non riconosce il femminile, incontrata nell’ologramma tridimensionale proiettato in una mostra a tema preistoria a Venezia. Che anno era? Gita scolastica con una classe di prima superiore, quindi 1985? Al massimo 1987, poi sono passata al triennio e la preistoria non era in programma.
Lei, Lucy, non era ancora nei libri di storia nonostante fosse rinata per noi da più di dieci anni. Non ricordo la classe che accompagnavo. Eravamo più classi e due insegnanti si persero nelle calli, tornarono con mezzi propri, probabilmente in treno perché il nostro pullman non poteva aspettarle.
Non ricordo la classe ma ricordo lei, una piccola adolescente disegnata dalle linee di luce verde nella nostra preistoria della realtà virtuale. Il sentimento di tenerezza ha fissato nella memoria quella ragazzina che gli esperti dicono già vecchia per il suo tempo, morta in un incidente di percorso come le nostre adolescenti in un’incidente d’auto sulle strade notturne.
Cominciavo allora a insegnare storia misurandomi con i manuali deprivati di donne, nascite, sentimenti, vita quotidiana, relazioni famigliari, istituzioni sociali. Lei mi suggerì di partire dalle immagini, da come la storia era sedimentata nei pensieri di allieve e allievi prima di occultarne le possibilità generative con le memorizzazioni prescritte per gli interrogatori scolastici. Ne venne fuori un metodo che scardinava stereotipi, l’UOMO (sì, quello a caratteri cubitali) declinato nel condottiero che guida masse uniformi di assoldati assassini ridisegnati dalla gloria o dalla sconfitta, lasciava il posto a bambine e bambini, ragazze e ragazzi, donne e uomini, anziane e anziani, con i gesti ripetuti della sopravvivenza e le mille invenzioni che avevano preparato il futuro, con gli amori e i disamori e la ricerca di nomi per le cose e nomi per i sentimenti, con la realtà dei corpi dilaniati dalle guerre e i guerrieri restituiti all’esistenza, al dolore, alle ferite, all’esperienza della solidarietà tra simili.
La storia non era solo dietro di noi, nella retta via del tempo cronologico, ma intorno a noi, nel tempo profondo sotto i nostri piedi, che forse mai avrebbe rivisto la luce, se non per singoli frammenti indecifrabili.
Noi eravamo il futuro, lo sentivo vibrare nelle singolarità che facevano classe diversa ogni anno. Eravamo già stati perché eravamo il loro futuro, nell’immaginazione di antenate e antenati e quell’immensità circolare in cui ci muovevamo ci stordiva e ci affascinava.
Così le fonti, termine che fondava la storia sull’analogia con l’acqua, la sua presenza benefica e vitale, diventavano anche segnatempo, cippi che segnalavano una qualche strada, tracce alla scoperta di liberi fontanili e cannelle a cui dissetarci nel cammino.
Lucy mi accompagnava, ritrovata in Etiopia mi riportava la geografia della storia coloniale italiana in quella secolare dell’Occidente, discorsi dei grandi ascoltati nell’infanzia. Lucy sollecitava l’inestinguibile curiosità per i modelli narrativi del passato, la piegatura patriarcale delle narrazioni, le abrasioni della lingua che cercavo di ricostruire, la vitalità dei corpi che generavano pensieri.
Lei, Lucy, era la mia ragazzina da accudire e proteggere: come accade nella filialità della vita reale ero io, adulta, a dovermi prendere cura di lei, di quell’esistenza materiale riemersa nei pochi reperti ossei e ricostruita da quella che non si chiamava ancora realtà virtuale. Lei apparteneva ormai al mio immaginario del passato, era il fatto che apriva tutte le domande, fissata nella mia memoria dal sentimento di tenerezza che non si è più cancellato.
Lucy è parte della mia famiglia affettiva come la bisnonna Margherita di cui non so quasi nulla ma dove il quasi fa la differenza nel mio ancoraggio alla vita.
Ieri sera a una presentazione del mio libro “Donne e leggi in Italia. Promemoria” sono arrivate a sorpresa quattro cugine del ramo paterno che non vedevo da anni. Le ho lasciate alle soglie dell’adolescenza, loro erano ancora piccole. Poi ci siamo viste sporadicamente e purtroppo per i funerali. Oggi sono nonne.
La loro presenza mi ha portato un affetto profondo, quasi inspiegabile, un’emozione che mi ha sorpresa. La nostra storia emotiva è misteriosa e segue i meandri sotterranei in cui si intrecciano le radici di cui abbiamo solo una vaga intuizione. Le mie cugine più giovani e il loro abbraccio arrivano dai secoli, dai millenni, ed è vita di cui ancora non sappiamo quasi nulla se non ciò che sentiamo. I momenti della vita che non possono essere registrati dalle immagini perché danzano nella luce come Lucy, immateriali e aggrappati alla memoria del corpo. Reali finché abbiamo vita.