Un eccesso di morte impedisce il lutto.
Sono morti che inghiottono il tempo e i sentimenti. Sono incommensurabili con il tempo delle nostre giornate.
Come posso mangiare e dormire e ridere e piangere e annoiarmi e correre per le strade delle nostre vite affollate e intasate di lavoro impegni persone?
Le persone morte si possono piangere una a una ma le uccisioni di massa, il genocidio di popoli ci costringe alla smemoratezza per vivere anche se non siamo colpevoli di indifferenza, ignavia, complicità.
Abbiamo bisogno di dimenticare almeno per qualche ora (per qualche giorno?).
Dimenticare è un dono negato a chi sopravvive all’orrore e quindi ricordare, per noi che l’orrore lo vediamo nelle immagini, lo leggiamo nelle notizie, è l’impegno di condividere l’enormità di una conoscenza che può annientare la vita col solo ricordo, se intorno a te non c’è un movimento che ti sostiene, che s’impegna per la vita imparando a stare dentro la morte, a non voltare le spalle alla propria responsabilità.
La responsabilità etica di una cittadinanza che non può esaurirsi nei confini artificiali della mappa politica del mondo.
La bandiera palestinese esposta sul mio cancello si sta strappando, come quella della pace ormai ridotta a brandelli.
Le lenzuola bianche che abbiamo steso per ricordare i sudari di Gaza erano moltissime eppure poche.
Quando ci chiediamo com’è possibile che un ragazzo diventi l’assassino di una bambina che aveva giocato a fare la fidanzatina, com’è possibile che siano uomini giovani a diventare così facilmente assassini della ragazza che hanno baciato, accarezzato, della donna che hanno detto di amare. Com’è possibile questo orrore quasi quotidiano conficcato nella nostra società ancora opulenta. Com’è possibile che una parte di giovani maschi si identifichi con gli assassini.
Chiediamo conto alla scuola e alla famiglia, guardiamo la pagliuzza mentre la trave si abbatte su migliaia di inermi uccidendo anche il nostro futuro.
Del morire
pubblicato in MAREA 2025/1
All’inizio è il nulla e il nulla a poco a poco si fa memoria, cellula dopo cellula, tessuto dopo tessuto, diversificandosi e ampliandosi. E poi la luce. E piano piano emerge una memoria che è sapere, conoscenza, coscienza, mentre si fa crescita, diversificazione, generazione e rigenerazione.
E poi, dalla pienezza avventurosa della crescita tutto si muove e via via è trasformazione, dimenticanza, sottrazione, privazione, cedimento, scomparsa, perdita, lutto, mentre la memoria è frammento, decantazione, distillato, gesto. E infine c’è la morte.
Si cammina verso la fine. Una certezza che non arriviamo a capire, il nulla che mi ha preceduta e mi aspetta.
Anche il nulla è una pienezza, una parola che in italiano si differenzia da culla solo per la consonante iniziale. Il nulla è una densità concentrata nel DNA, filo lunghissimo che ci lega all’emergere della specie e, lungo la catena di mutazione sconosciute, al vivente terrestre.
Una pienezza che è la prossimità estranea da cui vengo e l’insondabile polvere in cui vado.
Dalla nebbia opaca del nulla recuperiamo reperti di memoria materiale e affettiva, culturale e morale, oggetti e parole con cui costruiamo e arrediamo il presente e la durata di ogni vita. Scopriamo e accettiamo il cammino verso la morte dentro i più diversi sentimenti della vita. Siamo simili, mai uguali.
Non voglio parlare del come accade, evito di proposito gli scenari di guerra, genocidi e stermini perché sono luoghi in cui il confronto con la morte costringe a guardare modalità di costrizione della vita che riguardano le forme con cui il potere umano si fa dominio, e il dominio impone la selezione di parti o interezze umane dentro un ordine sociale militare e armato.
Le morti violente e collettive ci sottraggono la possibilità di accompagnare chi muore per l’ultimo tratto, ci privano del tempo condiviso per l’inizio del lutto, ci trasformano in vite sopravvissute che emergono dalle macerie come dal confine dell’Ade. Tornare a vivere dalle macerie non è solo ricostruire.
La morte e la nascita ci portano nell’incommensurabile perché la vita non è una successione misurabile di momenti che cerchiamo di fissare in date certe, nell’ordine scandito dalla precisione dell’orologio, nei calendari, negli annuari, negli anniversari, nella gabbia dei fusi orari, nella precisione degli strumenti.
No, la vita è nel rapporto tra circonferenza e raggio, tra lato e diagonale. Come ricorda la raffinata spiegazione della rubrica quotidiana “Una parola al giorno”, incommensurabile significa propriamente irriducibile. La vita non è solo quantità di giorni ma è il come e così il morire è l’imprevista certezza che impariamo dalla vicinanza affettiva, dalla prossimità umana, dalla presenza dell’altra, dell’altro, nelle nostre vite. Chi muore ci guida anche se non lo sappiamo, non lo vogliamo sapere.
Il morire chiede vicinanza e racconto, l’intimità dei gesti che consentono l’ellissi della sintassi perché la parola è corpo.
Tutto il resto è sociale, sottratto ormai al collettivo, talvolta degradato nei social.
Del nascere diciamo “venire al mondo” e del morire “se n’è andato, se n’è andata”. In questo venire e andare c’è la consapevolezza di un mistero che sentiamo profondamente in ogni nostra cellula che piega e lega nella metafora del cammino i due eventi espressi dall’evidenza della nascita e della morte.
Da sempre cerchiamo parole per dire quella singolarità (o singolitudine) che percepiamo come corpo e l’esistere come parte di un tutto molteplice e diversificato tra materia e sentimenti, aria che respiriamo, la tazza preferita, il sedile del treno, l’abito che abitiamo e tutta la gamma di vibrazioni che muovono il corpo nei pensieri.
L’amore più indicibile è quello che sentiamo nel filo che non si attorciglia più alla nostra vita e manca all’abbraccio come al litigio. Lo tratteniamo nel ricordo, cerchiamo l’odore, il profumo, indicibile e immemorabile.
Sappiamo poco del corpo e ancora meno di quell’impasto di pensieri ed emozioni che definiamo psiche in cui ci riconosciamo come prima persona singolare.
Accade a poche persone di sapere in vita di aver lasciato un proprio segno duraturo nel tracciato del mondo. Quel mondo che è terra e cielo, terrestrità del cammino e sogno, materialità del vivere e visione, tracciato dei passi camminati ed emergere di orizzonti.
La morte delle persone amate incide il tessuto della vita. Un’asportazione che lascia una ferita e poi diventa cicatrice.
Quando accade non sappiamo che cosa e quanto verrà asportato, il tempo di guarigione della ferita, l’entità della cicatrice.
La cosiddetta modernità mette in scena la morte violenta continuamente, tanto che pensiamo alla morte come una violenza alla vita e ne abbiamo espulso la possibilità di pensarla e viverla come estremo compimento.
Genoveffa Cervi non è riuscita a sopravvivere all’asportazione violenta di tutti i suoi figli insieme. Ciò che è rimasto di lei non era sufficiente per la sopravvivenza.
Il padre, Alcide Cervi, si è aggrappato a quella spaventosa cicatrice per farne nuova vita e memoria civile.
Non sono scelte, sono ciò che accade, ciò che ci accade.
Una madre sopravvive alla morte del figlio avvenuta per mano dell’uomo violento con cui l’ha generato e trasforma il dolore in rabbia e la rabbia in lotta per i diritti di bambine e bambini ad essere protetti da chi usa violenza.
Sono milioni le bambine e i bambini da proteggere dalla violenza perché possano crescere serenamente.
Non sappiamo chi saremo di fronte alla morte che incrocia la nostra strada separandoci da una compagnia cara, non sappiamo chi saremo lasciando la vita che continua senza di noi.
Eppure, è necessario al vivere imparare la strada maieutica verso la morte.
Non tanto per il valore della vita ma per il riconoscimento delle relazioni che ci tengono nella vita. Non l’astrattezza di un imperativo ma la concretezza dell’appartenenza alla specie umana, al vivente terrestre che è prima di tutto cooperazione e condivisione. L’appartenenza a quel cerchio sfrangiato di condivisione che chiamiamo vita.
Quello che ho imparato dalla morte delle persone care è che ho imparato. La morte non è un concetto astratto, è intrisa nella vita senza che la pensiamo, ma l’accadere è comunque sorpresa e di questa sorpresa ne facciamo gesto, parola, rito, condivisione, invenzione, socialità.
Mi sono resa conto che quella ferita non è solo recisione, amputazione, dolore, vuoto insopportabile, ma è anche una traccia da decifrare, un’indicazione che ti orienta, una spinta ad andare avanti mentre vorresti solo tornare indietro, al prima.
La vicinanza con chi muore è un dono, terribile e prezioso.
La persona amata che muore ci consegna un’esperienza da decifrare e cambia per sempre la nostra postura nel mondo. Se sappiamo stare lì, in quella vicinanza che possiamo raccontare solo per approssimazione, impariamo che dentro lo strappo doloroso il nostro corpo comincia ad ospitare nuovi pensieri.
Nel vociferare quotidiano sono poche le persone che ascoltiamo e i dispositivi della memoria ci inducono alla smemoratezza. In cerca dell’evento che si cumuli in like e follower perdiamo ciò che accade nella prossimità reale, la dimensione occasionale, la sorpresa perenne del reale nell’incontro personale, in presenza come ormai si usa dire.
Accanto a chi stava morendo ho avvertito la pienezza del silenzio, il dolore dello strappo ma anche il distillato più autentico di ciò che siamo state e stati, insieme.
Mentre scrivo evoco volti accanto a me, momenti vissuti, accadimenti di morte imprevista, accompagnamenti in cui ho esercitato la pazienza e poi distillato il dolore della fine. Evoco cerchi di donne e uomini con cui ho riso attraversando fantasie intorno alla nostra morte, perché insieme si può ridere e piangere ed è come tenersi per mano mentre sappiamo di inoltrarci nell’ignoto.
Il dolore di un’assenza che invade le giornate diventa parte delle giornate e, come per tutto, si fa posto nello sfaccendare delle tue mani, nell’andirivieni dei tuoi piedi prima ancora che i pensieri sappiano dove lo puoi collocare.
Ti accompagna perché si è inciso da qualche parte sulla tua pelle più di un tatuaggio. Vuoi che ti accompagni perché senza il suo ricordo la solitudine diventerebbe patologia della memoria e non saresti tu. Da quell’incisione puoi generare compassione. E amore. Il dono della morte è il valore della vicinanza, percepire similitudini avvolte insieme in un frammento di pluriverso.
Come diceva Lidia Menapace, occorre pensare laicamente la morte dentro la vita quotidiana per farne un’esperienza autentica perché sia autentico il vivere. Anche la morte è questione politica.
Giù in basso, in lontananza, si vedeva lo stagno. Era così silenzioso laggiù, e così deserto. “Ecco come sarà, quando morirò” si disse. “Lo stagno: tutto solo. Senza di me”.[1]
Frammenti bibliografici da un seminario sul Morire del 2016 a cura di Rosangela Pesenti
Wolf Erlbruch, L’anatra, la morte e il tulipano, Edizioni E/O, Roma, 2007
Alfonso M. Di Nola, La nera signora. Antropologia della morte e del lutto, Newton & Compton Editori, Roma, 1995-2001
L’emergenza della morte determina una innominabile disgregazione del cadavere, ma anche un totale dissesto della nostra posizione di superstiti di fronte alla realtà. Normalmente noi viviamo come se mai dovessimo morire (…) p. 11
Iona Heath, Modi di morire, Bollati Boringhieri, Torino, 2008
Paradossalmente è la morte che ci fa dono del passare del tempo. In sua assenza saremmo smarriti in un’accozzaglia di eternità e non avremmo nessuna ragione di agire o meglio di vivere. (…)
Se conosciamo i molteplici modi in cui si manifesta il cedimento del corpo e se l’umanità è riuscita a fare enormi progressi nella lotta contro la morte è grazie alla scienza, ma quando la morte diventa inevitabile e la lotta sempre più vana, la scienza ha ben poco da offrire e le risorse della poesia diventano più importanti. p. 23-100
Luisa Colli, La morte e gli addii, Moretti & Vitali, Bergamo 1999
Se infatti il “capire” e il “volere” sono strumenti indispensabili alla vita umana, da soli essi si rivelano insufficienti proprio nelle situazioni decisive. E l’Io non può trovare in essi le energie necessarie per acconsentire alla rotta, fino a che accanto a lui, come fedeli alleate non si schierano anche le forze dell’eros. p. 57
Louise J. Kaplan, Voci dal Silenzio, Raffaello Cortina, Milano 1996
Noi siamo l’unica specie animale che possieda una storia personale e culturale e che ne sia posseduta. Non ci liberiamo mai del tutto dal passato. Con la morte fisica dei nostri cari non si esaurisce il nostro affetto nei loro confronti. In qualche forma, la loro presenza non ci abbandona mai. (…) Il processo del lutto non significa soltanto distacco dal defunto e suo progressivo abbandono ma anche riconferma dei nostri affetti. La piena elaborazione del lutto implica la ricostruzione del nostro mondo interiore e la reintegrazione della persona amata sotto forma di presenza interna: se non proprio come spirito o fantasma, come aspetto dell’Io o della coscienza, come ideale o passione. p. 9-12
Joan Didion, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, Milano, 2006
So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi.
So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti.
Che diventino la fotografia sul tavolo.
Che diventino solo un nome sui conti fiduciari.
Che l’acqua se li porti via.
Sapere queste cose non mi rende più facile lasciare la presa.
Anzi, la consapevolezza che la nostra vita insieme sarà sempre meno al centro di tutti i miei giorni mi è sembrata oggi in Lexington Avenue un tradimento così netto che ho perduto completamente la nozione del traffico in arrivo. p. 217
Tonia Cancrini, Un tempo per il dolore, Bollati Boringhieri, Torino, 2002
La memoria, il ricordo sono le strutture portanti della nostra vita; un edificio che costruiamo dentro di noi e che diventa l’ossatura della nostra esistenza. (…)
Se c’è un tempo per il dolore, c’è un tempo per la vita, per la gioia, per andare al galoppo verso il sole. p. 33- 184
Philippe Forest, Tutti i bambini tranne uno, Alet, Padova, 2005
La tomba è nuda. Il marmo e la ghiaia verranno. Le lastre di granito non sono ancora sigillate con il cemento. (…) Che cosa sognano gli atomi che si disperdono nella chiarità azzurra dell’essere? A che pensano gli atomi che si arrampicano lungo una canna fumaria verso la libertà improbabile del cielo? p. 342
P. F. Thomése, Bambina d’ombra, Frassinelli 2005
Il passaggio delle stagioni, il giorno che scivola nella notte. Sei seduto in un campo e guardi, guardi, ma non vedi il confine. A un certo punto ti accorgi che il buio ha preso il sopravvento, delle cose restano solo le ombre, il profilo nero.
Sei seduto sulla sedia dell’ospedale, accanto al lettino d’acciaio, e hai tua figlia in braccio. È viva, è viva, ma a poco a poco muore. p. 101
Lesley McIntyre, Il tempo di una vita, ANFFAS, Milano, 2004
Tra la nascita e la morte si vive e si muore. Più o meno è tutto qui. Potrà sembrare semplicistico, ma noi tutti viviamo nella terribile negazione della morte. (…) È il modo in cui un essere umano si dedica alle parti intermedie – il viaggio che compie attraverso il proprio tempo – a riflettere la sua vera essenza, tutto quanto ha imparato o meno. Si tratta di un viaggio che richiede umiltà e la comprensione della propria insignificanza, ma anche la consapevolezza di ciò che è possibile anche se può essere transitorio. Realismo senza pomposità. P. 7
Eric Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa, Rizzoli, Milano 2004
Ho cercato di spiegare ai miei genitori che la vita è uno strano regalo.
All’inizio lo si sopravvaluta, questo regalo: si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo. Io che ho cent’anni so di cosa parlo. Più si invecchia, più bisogna dar prova di gusto per apprezzare la vita. (…)
Qualunque cretino può godere della vita a dieci o a vent’anni, ma a cento, quando non ci si può più muovere, bisogna avvalersi della propria intelligenza.
Isabel Allende, Paula, Feltrinelli, Milano, 1996
Mi sdraiai sul letto accanto a mia figlia stringendomela contro il petto, come facevo quando era piccola. Celia tolse la gatta e accomodò i due bambini addormentati perché col loro corpo scaldassero i piedi della zia. Nicolás prese sua sorella per mano, Willie e mia madre si sedettero ai lati circondati da esseri eterei, da mormorii e tenere fragranze del passato, da spiriti e apparizioni, da amici e parenti, vivi e morti. Per tutta la notte aspettammo pazienti, ricordando i momenti duri, ma soprattutto quelli felici, raccontando storie, piangendo un poco e sorridendo molto, onorando la luce di Paula che ci illuminava, mentre lei sprofondava sempre più nel sopore finale e il suo petto si sollevava appena in respiri sempre più lenti. P. 324
Roberta Tatafiore, La parola fine, Milano, 2010
Non voglio accomiatarmi con scuse e perdoni coram populo. Piuttosto scriverò lettere private. Lascerò doni alle persone care. Lascerò anche questo diario, naturalmente. Nelle mani giuste e in maniera discreta.
C’è però un’unica creatura alla quale nulla potrò trasmettere se non la mia improvvisa assenza. È la gatta a tre colori Lucky, la pupilla dei miei occhi, la mia bambina pelosa. Da vent’anni. (…) devo mettere il cuore tra i denti per lasciarla. Ma la sua grazia suprema non mi basta per continuare a vivere. p. 33-34
Natalia Ginzburg, Non possiamo saperlo, Einaudi, Torino, 2001
Alla morte si pensa continuamente, per tutta la vita, ma non mai nello stesso modo: difficile ricordare tutte le forme e i paesaggi e i colori che ha preso, nel corso degli anni, dentro di noi. È l’idea più mutevole che si possa avere. p. 141
Dolores Munari Poda, La mamma è partita per un lungo viaggio, Marco Serra Tarantola Editore, Brescia, 2015
Bisogna che le parole della verità sappiano rispettare il bambino e la sua vulnerabilità e utilizzino possibilmente un lessico condiviso. Ecco perché non esiste la comunicazione perfetta. E non hanno senso i manuali informativi per dirlo nel modo giusto ai bambini. (…)
Si può piangere con i bambini.
La vita (anche i bambini lo imparano presto) è come la tenda del nomade, provvisoria ed esposta ai venti, ma è anche luogo di incantamenti, di favole belle che possiamo raccontarci sapendo che sono favole, luogo di sogni dove le mamme viaggiano e poi torneranno a casa per stare per sempre con i loro piccoli, luogo di colloqui tra i “vivi” e i “morti”. p. 30-31
Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino, 1962
David Grossman, Col corpo capisco, Mondatori 2003
José Saramago, Le intermittenze della morte, Feltrinelli, Milano 2012 (2005)
Francesca Sanvitale, Madre e figlia, Einaudi 1980
Gina Lagorio, Approssimato per difetto, Oscar Mondatori 1988
Gina Lagorio, Càpita, Garzanti, Milano 2005
Lalla Romano, Nei mari estremi, Einaudi, Milano 1987
Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie, Milano, 2016
Rosangela Pesenti, Trasloco, Supernova, Venezia, 1998
Janusz Korczak, Come amare il bambino, Luni, Milano 1996
Norberto Bobbio, De Senectute, Einaudi, Torino 1996
Sandra Petrignani, Care presenze, Neri Pozza, Vicenza 2004
Ruth Vander Zee, Roberto Innocenti, La storia di Erika, La Margherita, Milano, 2003
Al giardino ancora non l’ho detto –
per paura che mi possa soggiogare.
E non ho affatto la forza ora
di rivelarlo all’ape –
Non ne farò parola per strada
Perché le botteghe mi guarderebbero stupite –
Che una tanto timida – tanto ignara
abbia l’audacia di morire.
Non devono saperlo le colline –
dove ho tanto vagabondato –
né va detto alle foreste amanti
Il giorno che me ne andrò –
E non lo si sussurri a tavola –
né si accenni sbadati per la via
che nel cuore dell’Enigma
m’incamminerò oggi –
Emily Dickinson
[1] Wolf Erlbruch, L’anatra, la morte e il tulipano, Edizioni E/O, Roma, 2007
Disarmo, la comune convenienza
Come troppo spesso ci è accaduto guardiamo dai margini, dalla periferia, dall’invisibilità, una piazza che si riempie litigando (begando sarebbe più appropriato) intono alla chiamata confusa di un patriarca gentile (come l’avrebbe definito Lidia Menapace) a cui si accrocchiano altri illustri della confusa e sfrangiata sinistra.
Non ci saremo e non perché non si sentiamo europee ma perché pensiamo ancora che la convocazione di una piazza possa arrivare solo dopo la discussione e l’elaborazione di una piattaforma chiara, di un patto tra soggetti che si mettono insieme per agire, dove la piazza è solo la prima manifestazione, appunto, di un piano d’azione.
Non ci saremo perché ci sentiamo cittadine del mondo e l’appartenenza a una lingua una cultura un territorio è percorso di vita non identità corazzata.
Ballata per l’8 marzo
Vorrei poter dire che ci siamo
e non solo per parata
nella vicinanza che è gesto e parola
occasione autentica e tradizione viva
nella rinnovata visione che vince
ogni ritualità abusata
che vince ogni solitudine e stanchezza
Leggi tutto “Ballata per l’8 marzo”
Ora che troppi bambini e bambine di Gaza sono stati uccisi
BALLATA SENZA MUSICA PER IL BAMBINO DI GAZA (2014)
So che ricordi i bambini di Gaza
nei letti bianchi dell’ospedale
in attesa di morire
Era un pomeriggio d’agosto del 2014
ma non conta l’anno
contano i bambini
che sono bambini in tutto il mondo
bambini e bambine per la verità
– e sappiamo che per le bambine va anche peggio –
ma quello che ricordo è un bambino
e sono certa che anche tu ricordi
quel bambino
e i bambini e le bambine di Gaza
nell’ospedale di Gerusalemme
un pomeriggio d’agosto
in attesa di guarire
in attesa di morire
Leggi tutto “Ora che troppi bambini e bambine di Gaza sono stati uccisi”
Luisa Morgantini da Nablus (Palestina)
Non c’è più tempo, attiviamoci!
Tra 8 marzo e dintorni
Tra polemiche e anatemi cerco uno spazio non armato.
Sono una femminista iscritta all’UDI.
Non so se sono rimasta indietro, essendo vecchia so che avanti e indietro, alto e basso, sono metafore gerarchizzanti e inadeguate a dire la vita umana tra nascita e morte, quanto alle idee ho imparato da Maria Michetti dell’UDI che in politica non conta l’età ma ciò che pensi.
Cercherò di elencare ciò che penso in forma schematica.
1. Mi auguro che dal 9 marzo voltiamo pagina e ci dedichiamo al modo di costringere il nostro paese alla smilitarizzazione. Prima di tutto meno armi. Mi auguro che le fabbriche di armi entrino in crisi, che i lavoratori e le lavoratrici di queste fabbriche boicottino la produzione e che il paese intero li aiuti a transitare verso altri lavori e i proprietari a dismettere la produzione. L’unico modo è che il governo non le acquisti e il parlamento voti un taglio consistente al finanziamento militare.
2. In Italia vivono circa due milioni di lavoratrici domestiche che puliscono case e assistono persone. Se hanno figli e figlie non possono tenerli con sé, non hanno una casa propria e non hanno un reddito adeguato. Finché non vedrò queste donne in testa ai cortei dell’8 marzo continuerò a pensare che abbiamo ancora moltissimo da fare e se non le pensiamo non siamo credibili.
3. Come donna vorrei muovermi per una cittadinanza non familista, non ereditaria, non proprietaria. Mi vergogno delle leggi razziste di questo paese e del disprezzo collettivo per chi nasce e cresce, del degrado classista dell’istruzione, della sanità discriminatoria, della miopia con cui i governi pensano la popolazione. Il capitalismo non è dato in natura, passerà, ma con stragi e dolore. Perché?
Da giovane contestavo le donne dell’emancipazione perché affermavo la liberazione. Oggi penso che le donne uscite dall’esperienza politica della Resistenza al nazifascismo, le donne antifasciste, hanno conquistato molti pezzi di cittadinanza sognando una repubblica democratica sociale e magari socialista, molte hanno saputo ascoltare se stesse e noi scoprendosi e dichiarandosi femministe.
La mia generazione, noi del femminismo, noi variamente femministe, abbiamo occupato qualche nicchia e al massimo raggiunto oneste carriere mentre l’emancipazione si deformava in parità imitativa e subalterna. Qualcuna ha dichiarato solennemente che il patriarcato era morto e forse si è sbagliata perché nell’esaltazione della vittoria molte cose si sono perdute. La metafora non è più utilizzabile e le strutture patriarcali appena cancellate dalle leggi (mai riformulate davvero per comprenderci) si riproducono con nuova materia solidificante (e molte donne arruolate in cambio di privilegi o asservite per necessità e inconsapevolezza).
Esiste comunque un dialogo femminista pacifista e globale tra donne, è la nostra forza, non lasciamo che si disperda.
4. Negli anni ’90 se non pronunciavi le parole magiche: autorità, madre simbolica, disparità, genealogia, non eri considerata femminista. L’Udi era considerata un’associazione vecchia anche se in molte eravamo giovani.
Avendo rinunciato alle giaculatorie cattoliche da giovane non ero incline ad acquisirne di nuove ma ho continuato a confrontarmi con tutte le donne che incontravo (libri compresi) perché ho sempre pensato che il cammino di liberazione dai dispositivi del patriarcato consci e inconsci, sociali e istituzionali si fa insieme ed è una lunga strada o non è liberazione.
Lidia Menapace scriveva nel lontano 1991: (…) le forme della libertà non sono meno numerose che quelle del molteplice in cui siamo immerse: non esiste libertà femminile se non vi sono molte moltissime, forse tutte le donne libere. E siamo ancora lontane. Per questo risulta politicamente alienante un messaggio che può far credere che la pronuncia della libertà sia la libertà.
5. Oggi mi dicono che se non mi dichiaro trasfemminista sono omofobica e transfobica. Continuo a pensare che sia il percorso di vita, le scelte che abbiamo fatto, i posizionamenti concreti nei luoghi in cui viviamo a dire chi siamo e la qualità umana dei nostri comportamenti. Sono le vicinanze reali, i percorsi e le parole a dire chi siamo. Il dichiarato o esibito non sempre coincidono con l’agito ed è l’agire ad esprimere davvero posizioni, convinzioni, ricerca.
Perché modificare la parola Femminismo quando le richieste sono di tipo liberale/liberista? Perché non Transliberismo? Comunque, definitevi come volete ma se mi giudicate arretrata significa che non lottate con me, vi esponete contro di me, per cancellarmi, svalutarmi, ridicolizzarmi come vecchia rimbambita. Ci hanno già provato, gli stessi che dichiarate di combattere. So che sarà duro e difficile resistere ma sono certa di non desistere.
6. Non mi faccio ridurre a un asterisco dopo aver lottato per esistere come donna e cerco di esistere come la donna che sono, non un’immagine stereotipata, che sia disegnata dal mercato o perfino dal femminismo, di cui mi sento attivista ormai da sempre.
Il dichiarato non è sempre l’agito e non muta magicamente il vissuto. Non abbiamo un corpo, siamo corpo.
Vengo emarginata e lasciata indietro? Pazienza, ci sono abituata, mi è accaduto in molti luoghi, nelle relazioni femministe, da parte di femministe e perfino nell’UDI. Non insulto, non dichiaro guerre nemmeno simboliche, non sgomito per avere la testa del corteo. Vado avanti, guardo avanti senza finzioni, senza enfasi, senza cedimenti. Non tutti i giorni sono uguali ovviamente ma è la vita, ragazze.
Nella marginalità mi sono trovata spesso in ottima compagnia: è un territorio immenso rispetto alla centralità. Un territorio dove le cose accadono.
7. Non so perché l’UDI abbia passato sui social una comunicazione, la lettera aperta di alcune donne, senza specificare: accogliamo e trasmettiamo che significa semplicemente: non censuriamo un’occasione di dibattito. Quando mi è stato chiesto personalmente, da una delle firmatarie, di diffonderla, mi sono arrabbiata per il metodo perché penso che il metodo sia perfino più importante del merito, cioè del contenuto. Per me conta la lealtà nelle relazioni tra donne e sono le scelte ad esprimere la credibilità.
Il movimento delle donne ha conquistato pezzi di cittadinanza con l’impegno e il coraggio di mettersi insieme prima di tutto a discutere e si discute cercando di convincere l’altra, non lanciando anatemi dall’una e dall’altra parte.
Il metodo usato dalle firmatarie non mi convince e non è il mio, ma la lettera è parte del dibattito. Le argomentazioni sono interessanti e alcune condivisibili ma la credibilità politica è altra cosa e si costruisce diversamente, secondo me.
8. Le mie posizioni sono pubbliche, perciò non le ripeto qui (anche se sono disponibile a discuterle ovunque mi si chieda) perché non sono un soggetto assoggettabile a uno schieramento, operazione propria delle scelte di guerra che dichiarano un nemico e lo vogliono annientare. Si comincia con chiedere l’abiura delle parole e sappiamo come finisce.
Alla fine degli anni ’70 l’autoreferenzialità spesso distruttiva dei collettivi femministi, che si sarebbero sciolti in tempi brevi, mi ha fatto scegliere l’UDI e ci resto ancora, come semplice iscritta perché spero che continui ad essere un luogo in cui ho il piacere di discutere con chi non la pensa come me, che non è mia amica e magari non mi sta nemmeno simpatica. Inventare le pratiche di democrazia a partire dall’esperienza viva delle donne è la visione che ancora mi affascina e su cui lavoro. Una strada da scoprire, una strada da costruire. Ci sono donne più giovani che mi aiutano ad esserci quando i cedimenti dell’età mi chiuderebbero in casa. Insieme discutiamo, ci arrabbiamo, ridiamo. A loro va la mia gratitudine. Io le guardo e le vedo, loro mi guardano e mi vedono. Questo è il femminismo.
Come femminista sono stata in un partito e ne sono uscita, mi sono candidata per ruoli istituzionali, ho partecipato ai Pride come a seminari con associazioni, cercando alleanze contro cancellazioni, censure, discriminazioni per diritti e liberà che smontassero l’ordine familista e capitalista che oggi rilancia il patriarcato mimetizzandolo nella modernità stucchevole dell’esibizione.
Quest’anno le Responsabili nazionali dell’UDI mi hanno chiesto di scrivere il documento per l’8 marzo che coincide con l’ottantesimo dell’associazione, così come mi avevano chiesto di far parte del gruppo che ha preparato il calendario 2025.
Ho accettato e, a quanto mi risulta, è l’espressione ufficiale dell’UDI per l’8 marzo.
Perché nessuna lo prende in considerazione?
La mia non è una domanda ingenua, conosco abbastanza il mondo e le donne, ma non è nemmeno un’interrogazione retorica.
Mi suscita qualche diffidenza chi stabilisce cos’è l’8 marzo senza discuterlo anche con altre. Mi suscita diffidenza anche se si tratta di giovani, anche se sono tante, anche se riempiono le piazze.
Non dimentico che nel 1911 le giovani colte e brillanti, l’avanguardia del movimento femminista, si dichiararono favorevoli alla guerra di Libia, convinte che il pacifismo era una posizione da vecchie, che le vecchie erano rimaste indietro e loro erano il nuovo che avanzava. Il movimento femminista si spaccò e sappiamo com’è andata.
Perché nessuna ricorda mai che l’8 marzo è stato inventato dalle donne dell’UDI uscite da una guerra spaventosa lottando per la libertà di tutte e tutti?
Perché nessuna ricorda che a lungo la mimosa fu considerata un fiore sovversivo con le conseguenze persecutorie che la storia documenta?
Oggi l’8 marzo è una data che tutte le donne conoscono, intorno alla quale si posizionano in modi differenti cercando la propria strada. Nessuna donna dell’UDI ha mai voluto affermare la proprietà della data, del corteo, delle iniziative o di altro.
L’abbiamo affermata e diffusa per la liberazione di tutte.
Magari il riconoscimento sarebbe politicamente significativo ma un riconoscimento non si può chiedere, è il gesto che autonomamente una donna libera testimonia a un’altra donna, tante donne alle tante donne che sono venute prima, alle antenate che occupavano le piazze ancora precluse alle donne. Non erano tutte le donne, erano le donne che hanno lottato per tutte.
So che i toni sono diventati sempre più aspri da alcuni anni ma possiamo abbassarli. Si tratta di scelte. Che cosa vogliamo davvero? Anche nell’UDI che cosa vogliamo? Qualche volta ripassare la storia potrebbe servire, non per immortalarla ma per vedere di più, per vedere quello che non abbiamo visto, per non essere subalterne a un dibattito mentre potremmo definire un’agenda di priorità.
Per ora abbiamo perso tutte. Guardiamoci intorno.
Rosangela Pesenti
Pensieri di capodanno con auguri
Le relazioni non sono come giardini condivisi a cui basta la cura di una persona perché ne goda anche l’altra.
Le relazioni non sono contatti, non sono funzioni governate da algoritmi, immaginette da esibire. Non sono elenchi. Le relazioni non si possono accumulare, non danno rendita né profitto e se sono numerabili o classificabili diventano perdita.
Le relazioni sono lo spazio immateriale che si fa luogo da abitare, insieme. Solo insieme. Possiamo abitare molti luoghi ma non migliaia o milioni, i numeri non fanno relazioni.
La relazione è uno spazio che appare misteriosamente tra persone, si fa tangibile, reale quando c’è presenza anche a distanza. Una stanza che esiste solo se si condivide la manutenzione e chiede cure delicate e discrete, indulgenti e sollecite.
Uno spazio di compassione per la comune condizione che sappiamo senza bisogno di nominarla, uno spazio che sa vedere le lacrime non versate e ci soccorre di risate.
In una relazione l’altra ti ricorda chi sei quando ti sembra di perderti, ti chiede perché sa che puoi dare.
Una relazione può fiorire improvvisa ma cresce lentamente e la ricetta per coltivarla non è mai sicura, c’è sempre un ingrediente da trovare, qualcosa di nuovo da gustare. Ci vuole tempo per trovarle il nome ed è tanto più provvisorio quanto più si fa sicura. Il nome è un indicatore d’uso sociale come l’etichetta sul campanello di casa.
Le relazioni quando finiscono perdono il nome, come nei traslochi.
E le parole non bastano, occorrono le voci e le voci chiedono vicinanza. Le relazioni hanno bisogno di silenzi vicini, di sguardi, sorrisi, mani. Di camminare insieme, almeno per qualche tratto, almeno per qualche stanza.
Hanno bisogno di momenti da poter ricordare, di cose conosciute e sorprese. Le attese sono il piacere visionario che ci sostiene.
Auguri
Lidia Menapace nel centenario della nascita: LA POLITICA COME SCIENZA DELLA VITA QUOTIDIANA
- Testo integrale dell’intervento svolto a Padova il 7 novembre e a Napoli il 29 novembre 2024
Mi perdo. Ogni volta che qualcuno mi chiede di scrivere o parlare di Lidia mi perdo per intere giornate nelle sue carte, nelle mail che ci siamo scambiate, nei suoi libri. E faccio fatica a trovare il filo di parole che stia dentro la misura data. Mi sono resa conto che non posso ancora parlare di lei, sono troppo vicina, e non dico “sono stata” perché, come accade con le persone care, lei è ancora presente nella mia vita, non sono ancora riuscita a collocarla nella distanza necessaria per l’elaborazione, mi parla ancora.
Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, nel lontano 1987, ho sempre utilizzato i suoi testi, le sue proposte, le sue intuizioni teoriche per leggere il mondo e agire, non solo nei luoghi abitati per lavoro o per politica, ma nella mia stessa vita. Per questo mi atterrò ai suoi testi, scritti intorno al nucleo teorico che è stato il fuoco della sua politica. Fuoco nel senso di focolare intorno al quale si costituisce e riproduce la vita.
Non racconterò di lei o di noi ma voglio ricordare con le sue parole il pensiero di fondo su cui si è sviluppato il nostro rapporto umano e politico (umano perché politico), dentro quella sorta di dichiarazione di posizionamento nelle relazioni tra donne che enuncia nel 1991 a proposito di “ordine simbolico della madre”[1]. Un tema molto di moda in quegli anni in cui ci si interrogava molto sui caratteri delle relazioni tra donne, il cui esito politico sul momento fu una grande produzione di veti, steccati, rigidità, litigiosità, interdizioni, separazioni, probabilmente anche per una malintesa opzione di fedeltà che forse non era richiesta in quei termini.
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Materiali di approfondimento per Parole disarmanti. Scrittrici contro la guerra. 26 settembre 2024
Se Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace del 1905, ha potuto essere rimossa dalla memoria, non meraviglia che una sorte analoga sia toccata ad altre donne che prima o contemporaneamente a lei contribuirono alla nascita e alla diffusione del movimento pacifista.
Mirella Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale, BFS Ed., 2008
Ciò che sarebbe più terribile per il futuro del socialismo sarebbe vedere i partiti operai dei diversi paesi decisi adottare la teoria e la pratica borghesi secondo le quali sarebbe del tutto normale ed inevitabile che i proletari delle differenti nazioni si scannino a vicenda durante la guerra, per ordine delle loro classi dominanti, per poi dopo la guerra di nuovo scambiarsi, come se niente fosse, abbracci fraterni. (…)
Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di “patria”, di “civiltà”, “libertà”, “diritto dei popoli” e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli, rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo.
Rosa Luxemburg, Alla Redazione del Labour Leader a Londra, Berlino dicembre 1914, in Lettere contro la guerra, Prospettive Edizioni, Roma, 2004