UNIONE DONNE IN ITALIA  80 anni

Testo scritto per l’80° dell’UDI.

Letto e commentato da Vittoria Tola, Responsabile nazionale, in occasione dell’evento all’archivio del Quirinale il 28 marzo 2025 insieme al CIF

L’Unione Donne Italiane celebra quest’anno i suoi ottant’anni insieme alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Per questo vogliamo ricordare che il nome della nostra associazione appare per la prima volta a Parigi nel 1936, nella scelta di donne profughe esiliate fuggiasche perseguitate condannate dalle leggi ingiuste del nostro paese, donne che in terra straniera si riconobbero più che mai italiane cercando l’unità nella tessitura di una trama di relazioni che aveva come qualità fondamentale l’antifascismo.
Insieme all’UDI quelle donne idearono, l’anno successivo, il giornale Noi donne, che ritroviamo a Napoli dal luglio 1944 e come foglio clandestino della resistenza nell’Italia occupata, fino a diventare il giornale dell’Unione Donne Italiane dal Congresso di unificazione con i GDD nel 1945.
In quel nome, UDI, c’era la forma embrionale e variamente consapevole di quella ricerca di autonomia della soggettività politica femminile e di aspirazione alla libertà di autodeterminazione che sarà poi il filo rosso delle lotte delle donne fino ad oggi.
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Se gli assassini occupano il nostro tempo

Un eccesso di morte impedisce il lutto.
Sono morti che inghiottono il tempo e i sentimenti. Sono incommensurabili con il tempo delle nostre giornate.
Come posso mangiare e dormire e ridere e piangere e annoiarmi e correre per le strade delle nostre vite affollate e intasate di lavoro impegni persone?
Le persone morte si possono piangere una a una ma le uccisioni di massa, il genocidio di popoli ci costringe alla smemoratezza per vivere anche se non siamo colpevoli di indifferenza, ignavia, complicità.
Abbiamo bisogno di dimenticare almeno per qualche ora (per qualche giorno?).
Dimenticare è un dono negato a chi sopravvive all’orrore e quindi ricordare, per noi che l’orrore lo vediamo nelle immagini, lo leggiamo nelle notizie, è l’impegno di condividere l’enormità di una conoscenza che può annientare la vita col solo ricordo, se intorno a te non c’è un movimento che ti sostiene, che s’impegna per la vita imparando a stare dentro la morte, a non voltare le spalle alla propria responsabilità.
La responsabilità etica di una cittadinanza che non può esaurirsi nei confini artificiali della mappa politica del mondo.
La bandiera palestinese esposta sul mio cancello si sta strappando, come quella della pace ormai ridotta a brandelli.
Le lenzuola bianche che abbiamo steso per ricordare i sudari di Gaza erano moltissime eppure poche.
Quando ci chiediamo com’è possibile che un ragazzo diventi l’assassino di una bambina che aveva giocato a fare la fidanzatina, com’è possibile che siano uomini giovani a diventare così facilmente assassini della ragazza che hanno baciato, accarezzato, della donna che hanno detto di amare. Com’è possibile questo orrore quasi quotidiano conficcato nella nostra società ancora opulenta. Com’è possibile che una parte di giovani maschi si identifichi con gli assassini.
Chiediamo conto alla scuola e alla famiglia, guardiamo la pagliuzza mentre la trave si abbatte su migliaia di inermi uccidendo anche il nostro futuro.
 

Del morire

pubblicato in MAREA 2025/1

All’inizio è il nulla e il nulla a poco a poco si fa memoria, cellula dopo cellula, tessuto dopo tessuto, diversificandosi e ampliandosi. E poi la luce. E piano piano emerge una memoria che è sapere, conoscenza, coscienza, mentre si fa crescita, diversificazione, generazione e rigenerazione.
E poi, dalla pienezza avventurosa della crescita tutto si muove e via via è trasformazione, dimenticanza, sottrazione, privazione, cedimento, scomparsa, perdita, lutto, mentre la memoria è frammento, decantazione, distillato, gesto. E infine c’è la morte.
Si cammina verso la fine. Una certezza che non arriviamo a capire, il nulla che mi ha preceduta e mi aspetta.
Anche il nulla è una pienezza, una parola che in italiano si differenzia da culla solo per la consonante iniziale. Il nulla è una densità concentrata nel DNA, filo lunghissimo che ci lega all’emergere della specie e, lungo la catena di mutazione sconosciute, al vivente terrestre.
Una pienezza che è la prossimità estranea da cui vengo e l’insondabile polvere in cui vado.
Dalla nebbia opaca del nulla recuperiamo reperti di memoria materiale e affettiva, culturale e morale, oggetti e parole con cui costruiamo e arrediamo il presente e la durata di ogni vita. Scopriamo e accettiamo il cammino verso la morte dentro i più diversi sentimenti della vita. Siamo simili, mai uguali.

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Disarmo, la comune convenienza

Come troppo spesso ci è accaduto guardiamo dai margini, dalla periferia, dall’invisibilità, una piazza che si riempie litigando (begando sarebbe più appropriato) intono alla chiamata confusa di un patriarca gentile (come l’avrebbe definito Lidia Menapace) a cui si accrocchiano altri illustri della confusa e sfrangiata sinistra.

Non ci saremo e non perché non si sentiamo europee ma perché pensiamo ancora che la convocazione di una piazza possa arrivare solo dopo la discussione e l’elaborazione di una piattaforma chiara, di un patto tra soggetti che si mettono insieme per agire, dove la piazza è solo la prima manifestazione, appunto, di un piano d’azione.

Non ci saremo perché ci sentiamo cittadine del mondo e l’appartenenza a una lingua una cultura un territorio è percorso di vita non identità corazzata.

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Ora che troppi bambini e bambine di Gaza sono stati uccisi

BALLATA SENZA MUSICA PER IL BAMBINO DI GAZA (2014)
 
So che ricordi i bambini di Gaza
nei letti bianchi dell’ospedale
in attesa di morire
Era un pomeriggio d’agosto del 2014
ma non conta l’anno
contano i bambini
che sono bambini in tutto il mondo
bambini e bambine per la verità
– e sappiamo che per le bambine va anche peggio –
ma quello che ricordo è un bambino
e sono certa che anche tu ricordi
quel bambino
e i bambini e le bambine di Gaza
nell’ospedale di Gerusalemme
un pomeriggio d’agosto
in attesa di guarire
in attesa di morire
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Luisa Morgantini da Nablus (Palestina)

Non c’è più tempo, attiviamoci!

Diffondo il messaggio di Luisa Morgantini da Nablus, Palestina.
Sono andata in Palestina nel 2008 e nel 2014, c’era la guerra a Gaza e la persecuzione attraverso l’apartheid in Cisgiordania.
Le intenzioni del governo e dell’esercito israeliano erano chiarissime e i nostri governi europei complici.
 

Tra 8 marzo e dintorni

Tra polemiche e anatemi cerco uno spazio non armato.
Sono una femminista iscritta all’UDI.
Non so se sono rimasta indietro, essendo vecchia so che avanti e indietro, alto e basso, sono metafore gerarchizzanti e inadeguate a dire la vita umana tra nascita e morte, quanto alle idee ho imparato da Maria Michetti dell’UDI che in politica non conta l’età ma ciò che pensi.
Cercherò di elencare ciò che penso in forma schematica.
1.     Mi auguro che dal 9 marzo voltiamo pagina e ci dedichiamo al modo di costringere il nostro paese alla smilitarizzazione. Prima di tutto meno armi. Mi auguro che le fabbriche di armi entrino in crisi, che i lavoratori e le lavoratrici di queste fabbriche boicottino la produzione e che il paese intero li aiuti a transitare verso altri lavori e i proprietari a dismettere la produzione. L’unico modo è che il governo non le acquisti e il parlamento voti un taglio consistente al finanziamento militare.
2.     In Italia vivono circa due milioni di lavoratrici domestiche che puliscono case e assistono persone. Se hanno figli e figlie non possono tenerli con sé, non hanno una casa propria e non hanno un reddito adeguato. Finché non vedrò queste donne in testa ai cortei dell’8 marzo continuerò a pensare che abbiamo ancora moltissimo da fare e se non le pensiamo non siamo credibili.
3.     Come donna vorrei muovermi per una cittadinanza non familista, non ereditaria, non proprietaria. Mi vergogno delle leggi razziste di questo paese e del disprezzo collettivo per chi nasce e cresce, del degrado classista dell’istruzione, della sanità discriminatoria, della miopia con cui i governi pensano la popolazione. Il capitalismo non è dato in natura, passerà, ma con stragi e dolore. Perché?
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Pensieri di capodanno con auguri

Le relazioni non sono come giardini condivisi a cui basta la cura di una persona perché ne goda anche l’altra.
Le relazioni non sono contatti, non sono funzioni governate da algoritmi, immaginette da esibire. Non sono elenchi. Le relazioni non si possono accumulare, non danno rendita né profitto e se sono numerabili o classificabili diventano perdita.
Le relazioni sono lo spazio immateriale che si fa luogo da abitare, insieme. Solo insieme. Possiamo abitare molti luoghi ma non migliaia o milioni, i numeri non fanno relazioni.
La relazione è uno spazio che appare misteriosamente tra persone, si fa tangibile, reale quando c’è presenza anche a distanza. Una stanza che esiste solo se si condivide la manutenzione e chiede cure delicate e discrete, indulgenti e sollecite.
Uno spazio di compassione per la comune condizione che sappiamo senza bisogno di nominarla, uno spazio che sa vedere le lacrime non versate e ci soccorre di risate.
In una relazione l’altra ti ricorda chi sei quando ti sembra di perderti, ti chiede perché sa che puoi dare.
Una relazione può fiorire improvvisa ma cresce lentamente e la ricetta per coltivarla non è mai sicura, c’è sempre un ingrediente da trovare, qualcosa di nuovo da gustare. Ci vuole tempo per trovarle il nome ed è tanto più provvisorio quanto più si fa sicura. Il nome è un indicatore d’uso sociale come l’etichetta sul campanello di casa.
Le relazioni quando finiscono perdono il nome, come nei traslochi.
E le parole non bastano, occorrono le voci e le voci chiedono vicinanza. Le relazioni hanno bisogno di silenzi vicini, di sguardi, sorrisi, mani. Di camminare insieme, almeno per qualche tratto, almeno per qualche stanza.
Hanno bisogno di momenti da poter ricordare, di cose conosciute e sorprese. Le attese sono il piacere visionario che ci sostiene.

Auguri

Lidia Menapace nel centenario della nascita: LA POLITICA COME SCIENZA DELLA VITA QUOTIDIANA

  • Testo integrale dell’intervento svolto a Padova il 7 novembre e a Napoli il 29 novembre 2024

Mi perdo. Ogni volta che qualcuno mi chiede di scrivere o parlare di Lidia mi perdo per intere giornate nelle sue carte, nelle mail che ci siamo scambiate, nei suoi libri. E faccio fatica a trovare il filo di parole che stia dentro la misura data. Mi sono resa conto che non posso ancora parlare di lei, sono troppo vicina, e non dico “sono stata” perché, come accade con le persone care, lei è ancora presente nella mia vita, non sono ancora riuscita a collocarla nella distanza necessaria per l’elaborazione, mi parla ancora.
Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, nel lontano 1987, ho sempre utilizzato i suoi testi, le sue proposte, le sue intuizioni teoriche per leggere il mondo e agire, non solo nei luoghi abitati per lavoro o per politica, ma nella mia stessa vita. Per questo mi atterrò ai suoi testi, scritti intorno al nucleo teorico che è stato il fuoco della sua politica. Fuoco nel senso di focolare intorno al quale si costituisce e riproduce la vita.
Non racconterò di lei o di noi ma voglio ricordare con le sue parole il pensiero di fondo su cui si è sviluppato il nostro rapporto umano e politico (umano perché politico), dentro quella sorta di dichiarazione di posizionamento nelle relazioni tra donne che enuncia nel 1991 a proposito di “ordine simbolico della madre”[1]. Un tema molto di moda in quegli anni in cui ci si interrogava molto sui caratteri delle relazioni tra donne, il cui esito politico sul momento fu una grande produzione di veti, steccati, rigidità, litigiosità, interdizioni, separazioni, probabilmente anche per una malintesa opzione di fedeltà che forse non era richiesta in quei termini.
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