Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
Il conflitto esiste nel mondo delle relazioni sociali e politiche in cui la democrazia ci colloca, o dovrebbe collocarci, come umanità con pari diritti prescindendo dall’eredità e dai vincoli famigliari.
La democrazia è un sistema di gestione dei conflitti, un possibile percorso, ancora accidentato, dall’iniquità dei sistemi classisti colonizzatori ai processi di convenzioni per comune convenienza nell’equa distribuzione di risorse, opportunità e visioni del bene comune.
L’approvvigionamento delle risorse materiali e immateriali alimenta continui conflitti a vari livelli della nostra vita.

Disegno mondi di appartenenza umana consapevole che abbiano bisogno delle parole per esprimere pensieri, com’è ovvio per la nostra specie, e le parole designano e separano ma, tra questi mondi, dentro il nostro io in continua mutazione, c’è una continua osmosi, un fluire vario come quello dell’acqua sui territori, che sono vari e diversi come variamente e diversamente si muovono i processi.
Utilizzo immagini dell’ambiente per avvicinarmi a quel nostro esistere che per secoli si è pensato per separazioni, gerarchie, identità compatte e uniformanti ed ora diventa consapevole delle infinite connessioni e di come queste connessioni ci definiscono e guidano e costringono e sostengono in modi che precedono spesso il nostro pensiero.
Da qui torno ai conflitti, che sono snodi, ostacoli, chiusure, costrizioni, ma anche suggerimenti, proposte, visioni impreviste, nuove strade per incontri inattesi, tensioni verso un altrove che è sempre futuro.
I conflitti sono parte imprescindibile delle nostre relazioni, che nascono dall’interruzione di quella misteriosa simbiosi per la quale la germinazione delle cellule, dentro una femmina della nostra specie, diventa separazione e nascita di una nuova imprevedibile storia umana.
Così ogni nata e nato al mondo ridefinisce il mondo stesso nella continua transizione tra biologia e storia affermandosi tra conservazione e innovazione, riunione e contrasto, conflitto e mediazione, permanenza e mutazione.
Scrivo utilizzando dicotomie e so che questa è solo l’espressione storica di una lingua che registra  in modo approssimativo quella che Lynn Margulis ha definito “la danza misteriosa” aspirando a raccontare il continuum insieme alla separazione, le connessioni insieme alle distinzioni, il sentimento della cooperazione che precede e alimenta le nostre vite diventando quella varia capacità di stare in solitario legame con ciò che vive intorno, nella singolarità che si sviluppa in vari processi di distanza e vicinanza, passaggi di una continua alchemica osmosi dell’esistere nella variabilità di relazioni che si allargano tra la vita materiale, i pensieri e l’immaginario guidato dai dispositivi che l’umanità stessa produce modificando gli ambienti di vita.

RIPUDIARE LA GUERRA

La guerra è il contrario del conflitto, nasce dal progetto di azzerare il conflitto con la fine dell’avversario, un salto di significato che costringe la vita alla distruzione per l’affermazione, alla cancellazione di una parte, alla distorsione della vita infilata in un progetto di morte.
La guerra chiede sempre una quota di morti: donne e uomini, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, anziane e anziani, e questa è solo una piccola declinazione generica della varia umanità che deve soccombere, apparentemente scelta a caso ma in realtà mai casuale.
La morte inflitta dalla guerra rafforza le gerarchie sociali con l’inevitabile selezione delle possibilità di sopravvivenza.
La guerra chiede una quota di morte in ognuna e ognuno di noi: morte di pensieri, di vissuti, di sentimenti, di esperienze, morte di sensibilità, di attenzione, di empatia, morte morale.
La guerra chiede sempre una quota di mutazione nelle nostre vite: rabbia, diffidenza, aggressione, sopraffazione, protagonismo identitario, disegnano schieramenti di guerra simbolica che generalizza l’arruolamento anche dove non c’è rischio vitale.
La guerra chiede sempre una quota di distruzione per spostare poteri e capitali, per rinnovare servitù, subalternità, sfruttamento, per rinsaldare gerarchie e privilegi sociali accanto a nuove povertà, deprivazioni, asservimenti.
La guerra lascia sempre un lungo strascico di dolore che chiede riparazione, voragini della vita e del cuore che i propagatori di guerra riempiono di armi e odio; eredità pesanti per chi viene dopo perché non è facile ricostruire sopra le macerie e spesso impossibile ritrovare storie quando continuità e contiguità sono state brutalmente spezzate.
Le guerre sono ripetitive: armi come strumenti, uniforme come abito che cancella i corpi e le storie, procedure di addestramento dirette all’obiettivo, armature di stereotipi che cancellano i corpi maschili nella retorica virilista e quelli femminili nella inermità delle vittime, come se i corpi maschili non conoscessero il dolore e fossero destinati per natura ad essere “corpi armati” e quelli femminili fossero solo carne esposta senza pensiero allo scempio guerresco.
Le guerre celebrano sempre lo stupro amplificando il fenomeno connaturato al dominio maschile.
Le guerre arruolano uomini e donne nel modello unico del corpo armato obbediente e acefalo.
Le guerre continuano a vivere nel tempo di pace occupando le celebrazioni della Repubblica, i monumenti nelle piazze, la toponomastica, i riti collettivi in ogni piccolo paese dove la memoria dei morti scivola nella retorica dell’eroismo e le divise occupano posti d’onore.
Le guerre continuano a vivere nella retorica dell’eroe, nell’esaltazione della morte che riduce ogni vita all’ultimo atto, cancellando il quieto lavorio della vita quotidiana.
Le guerre si alimentano della ferocia di pratiche selettive ammantate di merito, di esibizione camuffata di informazione, di familismo arroccato nei miti ereditari della proprietà nascosti dietro la retorica dei sentimenti.

MEDIARE E RIMEDIARE

La strada della mediazione non è più faticosa della guerra, si tratta solo di uscire dalle visioni costrittive, dalle narrazioni vincolate solo alle guerre nella periodizzazione storica.
Non si tratta di cancellare ma di mutare sguardo: approfondire le pacificazioni, le pratiche che consentono la gestione nonviolenta dei conflitti, diffondere la capacità di arbitrato e soprattutto approfondire e far vivere a tutti i livelli le pratiche democratiche.
La pace non è una dichiarazione ma un modo di vivere che si può imparare.
La pace è l’unica strada per uscire dal dominio patriarcale.
Tanti anni fa Lidia Menapace esortandoci a bonificare il linguaggio dalle metafore di guerra proponeva di celebrare il 2 giugno, Festa della Repubblica, con vere feste popolari ovunque, sostituire le sfilate militari con cortei delle categorie lavoratrici, visto che il lavoro è fondamento della nostra costituzione, con la presenza giocosa di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi invitati a portare la creatività delle loro esistenze nuove che saranno il rinnovamento anche delle nostre istituzioni.
Disertare i rituali di guerra, predisporre piani di disarmo e dichiarare la neutralità degli Stati, addestrare la diplomazia alla pace, istituire la “leva di pace” per ragazze e ragazzi come esercizio di gestione dei conflitti nella responsabilità e cura di territori e persone: ci sono compiti per tutti e tutte.

POSSIAMO RIVENDICARE UN INESTINGUIBILE CREDITO DI PACE

La guerra si avvale di un’epica diventata narrazione consueta e imprescindibile, sfondo di ogni trama, fascino dell’azione, adrenalina del rischio immaginario, ritualità e tessuto linguistico.
La guerra emerge come struttura vitale del dominio maschile che rende invisibile il femminile riducendo a mera biologia riproduttiva la nascita.
Il dominio maschile si esercita nel controllo e censura della nascita e quindi della crescita delle piccole esistenze che si fanno umane, che fanno l’umana esistenza ,così come rende osceno il declino mettendo fuori scena l’invecchiamento, la malattia, la perdita, il finire che accade sempre accanto al nascere.
Possiamo trovare nel nascere il fondamento teorico di una pace che nominiamo sempre al singolare perché ne conosciamo da sempre l’intrinseca qualità di salvaguardia del vivente contro le specializzazioni assassine delle forme di guerra.
Conosciamo la pace in ogni gesto di cura, in ogni tavola apparecchiata, in ogni letto pronto, in ogni lavoro di manutenzione, in ogni corpo che s’inclina nell’ascolto.
C’è un credito di pace che ogni guerriero deve riconoscere, di cui ogni pianificatore di guerra ha fruito e fruisce.
C’è un credito di pace che le donne, femmine della specie umana possono rivendicare.
Non tutte le donne sono madri ma tutte le madri sono donne.
Possiamo rivendicare il credito di tempo in cui ogni vita è cresciuta dentro la vita di una donna.
Possiamo rivendicare il credito di tempo elargito nella manutenzione delle case, nella cura delle vite in crescita e in declino, nella costruzione di bellezza deperibile, nella cucitura di relazioni mutevoli, nello spazio di silenzio che ha sostenuto la parola, nella reticenza della rabbia, nel passo indietro che consente all’altro di misurare il passo.
Se il discorso dell’economia è dominante noi vogliamo sia pagato ora il credito di un tempo di pace in cui la cura ha consentito la crescita, la nascita e rinascita, l’andarsene dal mondo per buona morte a conclusione, il venire al mondo per materna scelta libera e sicura.
Rivendichiamo un credito di pace per quei nove mesi in cui la vita di ogni donna e ogni uomo è cresciuta dentro una madre.
Rivendichiamo l’inestinguibile credito di un tempo di pace che ogni singolarità umana deve alle madri e lo rivendichiamo contro ogni tempo di guerra.
Torniamo al corpo?
Sì, perché il corpo vive la gioia e il dolore, patisce la malattia e la morte, la perdita e l’assenza, avverte la pienezza dell’amore, la meraviglia della crescita, la scoperta e l’invenzione del mondo, il mistero dei mutamenti. Il corpo trova gesti e parole per dirsi, inventa linguaggi per l’inesauribile comunicazione della vita.
La misteriosa asimmetria dei corpi nella generazione, che si fa storia di donne e di uomini, mi convince a farci parte in causa e rivendicare il credito dovuto che estingue ogni dovere di morte in obbedienza a logiche distruttive.
Pensando la nostra nascita, la condizione di estrema dipendenza che genera estrema accoglienza, possiamo rivendicare il diritto fondamentale dei corpi a vivere, il valore dei nostri limiti nella molteplicità delle piccole singole esistenze contro l’arrogante onnipotenza dell’ideologia militare che investe sulla morte azzerando ogni unicità umana nell’uniforme.

Cominciamo chiedendo la restituzione del debito di nove mesi di tregua per tutte le guerre, nove mesi di tregua per preparare la pace. Nove mesi per fare piani, predisporre condizioni, immaginare il futuro come accade in ogni gestazione, nove mesi di sospensione e attesa che siano l’inizio di un lavoro per la pace, come sono l’inizio di ogni vita in pace.
Troviamo parole condivise di donne, nate da madre, troviamo la potenza dei nostri corpi insieme capaci di avviare inedite alleanze per affermare la pace, per inventare la pace contro ogni guerra.
Avviamo un piano di lunga durata.
Avviamo una contrattazione ovunque. Il tempo è ora e quindi ogni giorno va bene per cominciare.

2002-2022 Donne, pace, democrazia

Difficile parlare di pace dentro l’urgenza del fare che ognuna di noi sente come impellente necessità di fermare guerre e massacri, unita al sentimento di impotenza per i pochi gesti che abbiamo davvero a disposizione e che ci riconducono di colpo ad una realtà di mancanza di potere sul terreno delle decisioni politiche che avevamo in questi anni accantonato.
Parlo al plurale perché sento ancora il sentimento di condivisione di una soggettività politica collettiva che è stata la scoperta, l’avventura e la costruzione della mia giovinezza, ma che oggi avverto quasi solo come una memoria incisa sulla mia pelle che non posso cancellare, ma che non so più di poter agire.
Non mi sottraggo alle parole brevi e incisive degli slogan e degli appelli, ma sento la responsabilità di restituire alle parole tempi e luoghi adeguati perché avverto che proprio nell’illusione di dover abbreviare i discorsi per raggiungere più in fretta le nostre mete è nascosta una trappola che invalida poi ogni nostra azione.
Parlo di tempi e luoghi perché sono le dimensioni imprescindibili del vivere umano e la loro qualità, definizione, costruzione concreta, consente e condiziona ogni relazione sociale.
Nel loro modo di abitare il tempo e lo spazio gli esseri umani introducono la memoria come capacità di accumulare le esperienze, riducendo il passato a sintesi utili per il futuro.
Proprio la disciplina storica, soprattutto nella sua versione “divulgativa” e scolastica ci insegna che pace e guerra sono temi fondamentali sui quali sperimentiamo la nostra capacità di “fare sintesi” e non possiamo non chiederci quanto utili per il futuro.
Perché questa premessa per parlare di ‘pace, donne, democrazia’ e che cosa lega davvero questi tre termini?
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Pace: partire da sé per camminare in tutto il mondo

ALLE DONNE CHE VIVONO NEL TERRITORIO DI BERGAMO

Alle donne delle istituzioni e delle associazioni, alle donne di partito e senza partito, di fede e senza fedi, alle donne che hanno il cuore multicolore e i piedi per terra, alle donne che hanno pensieri e storie diverse.
Alle donne tutte che si riconoscono nelle parole di pace e sanno praticare la pace.

Il territorio di Bergamo è diventato drammaticamente famoso nei due anni di pandemia e noi donne sappiamo come abbiamo fatto fronte all’emergenza perché di colpo tutti i lavori della CURA sono diventati centrali, indispensabili come sempre ma di colpo visibili per la sopravvivenza.
Bergamo è la provincia del volontariato, che sappiamo a maggioranza femminile e le pratiche di accoglienza dei profughi sono già al lavoro.
Dalle donne di Bergamo può partire una voce credibile per tutte, potente come la forza delle nostre vite.
Non escludiamo gli uomini ma non possiamo affidarci a loro: il disastro delle loro politiche è palese.
Non abbiamo fedeltà da difendere, di nessun tipo, solo proposte da fare, una pace da affermare.

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Intervento al Congresso ANPI Bergamo

Sabato 19 febbraio 2022 ho partecipato al Congresso provinciale dell’ANPI di Bergamo come delegata della sezione di Romano di Lombardia.
Rendo pubblico l’intervento integrale che avevo scritto e che ho, giustamente, ridotto per stare nei minuti prescritti.
In questo momento non mi sembra passata una settimana ma un secolo.
Avverto l’inutilità e insieme la necessità non solo delle parole ma soprattutto di lottare contro il senso d’impotenza mantenendo aperti e curando tutti gli spazi democratici.
Nel Congresso mi sono sentita in sintonia con la relazione letta dal presidente Mauro Magistrati, che è stato confermato nel suo ruolo, e con le conclusioni del Presidente nazionale.
Il mio intervento, pur tagliato, è stato accolto positivamente e sono stati votati all’unanimità gli emendamenti che ho presentato (allegati in fondo).
Il presente ci chiede di allenare la creatività politica, la stessa degli uomini e delle donne di cui conserviamo memoria, per trovare le azioni impreviste ed efficaci capaci di generare la pace.
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2021-2011-2001 GENOVA G8 DONNE


Un altro mondo è possibile e ricomincia ogni giorno dalle nostre vite. Non è importante una voce ma migliaia di voci e un ascolto diffuso, la tenacia di un passaparola che può sorprendere, che non può essere fermato.
Un clic può sfuggire al nostro controllo e infilarci nel mercato social-influencer ma, lo stesso clic, può farci scegliere la voce da ascoltare, il libro da leggere, la testimonianza da capire, l’insegnamento di cui abbiamo bisogno, la traccia quasi invisibile da seguire, la marginalità rilevante, il pertugio da cui passare, il cuneo che farà traballare ciò che sembrava incrollabile.
Le gabbie hanno chiavi che possono aprirle, i pensieri possono essere ripensati, i convincimenti cambiati, le ferite ricucite, il dolore ascoltato, il danno riparato.
Chi vince raramente muta convinzioni e ci sono danni irreparabili, ferite mortali, dolori che annientano.
In questi vent’anni abbiamo assistito impotenti alle morti in mare di donne e uomini, bambini e bambine, all’ingresso di minori con i piedi piagati che entrano dal confine orientale e si perdono nel colabrodo europeo. Donne e uomini che hanno incontrato la morte per lavoro o per aver buttato la vita sull’iniqua bilancia della speranza non ritornano a vivere.
Le vittime in mare sono immagini che scorrono nel sottofondo delle coscienze, come lo sfruttamento del lavoro. Non ne sono colpevole ma certamente responsabile come cittadina di questo paese.
Si è ricostituita una feroce scala sociale e la salvezza, qui dove vivo, è stare aggrappati al proprio gradino perché facilmente si può scendere e guardare la moltitudine che vive negli inferi dà la vertigine.
Le piccole storie rivelano, così come un minuscolo frattale riproduce il tutto.
Perché ricordare e che cosa ricordare? Per chi ricordare? Giovani nate e nati vent’anni fa cominciano a fare la loro parte per il futuro: da che parte stanno?
Non vedrò la loro vecchiaia, quanto renderanno muta la mia? Guardo la vita con lucida compassione.
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2001-20021: Genova dopo vent’anni

Da vent’anni il mese di luglio mi riporta la memoria di Genova. Un appuntamento con me stessa prima di tutto, la scrittura nell’intimità di parole non esposte.

Ripropongo intanto la trascrizione dal mio diario del 2001:

Domenica 22 luglio

Il giorno dopo. Una stanchezza cupa che intride le ossa e i pensieri, al telefono i concitati resoconti di chi era da un’altra parte e ha vissuto lo stesso panico, i compunti e ipocriti commenti televisivi, un residuo di bruciore agli occhi e difficoltà di respiro, traccia e sogno di una giornata frammentata in attimi lunghissimi ed ore brevi, avvertiamo l’inesorabile sfasatura dell’alfabeto con cui si misurano le parole come se il respiro non riconoscesse il passo consueto.
Partenza presto, la sveglia puntata alle cinque viene preceduta dal rumore in cucina: Giordano sistema i panini nello zaino impaziente di incontrare gli amici come se si trattasse di un appuntamento solenne e collettivo con la storia.
Sorrido con indulgenza mentre mi vesto senza fretta, respingo i pensieri che girano intorno alla tragedia del giorno prima, mi preparo per la manifestazione come per una gita estiva, saremo in tanti, penso, e non può succedere nulla, sarebbe un’enormità. Riempio il tempo laccando le unghie dei piedi e metto le ciabatte estive invece delle scarpe che avevo preparato, rinuncio anche alla camicia per una canottiera che il sole mi lascerà incisa addosso come il segno bruciante della giornata. Leggi tutto “2001-20021: Genova dopo vent’anni”

Va in scena la guerra: miti, riti, uniformi e resistenze di donne dietro al fronte (1915-1918)

Rosangela Pesenti

 
Abstract
 
La guerra unifica in un corpo maschile compatto ciò che il tempo di pace divide e le donne vengono assoggettate ai ruoli di servizio, diventando le tessitrici di un immenso apparato di riparazione dei corpi e dei territori feriti.
Viene rilanciato il mito della complementarietà dei generi e sarà l’immagine della crocerossina a completare il grigioverde del soldato, soprattutto quando l’enorme quantità di feriti richiederà, oltre al potenziamento delle strutture ospedaliere, la produzione di immagini rassicuranti finalizzate al contenimento emotivo di ogni dubbio sul valore della meta finale.
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Paura

9 agosto 2019
Questa mattina mi sono alzata con un sentimento di paura. Non lo spavento per una minaccia reale o temuta ma qualcosa di profondo, che riemerge e non si lascia blandire da nessuna rassicurazione.
Paura per qualcosa che è già accaduto e la sensazione di impotenza che strozza la voce in gola.
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Quale rapporto tra donne e nonviolenza? (2007)

Alle storiche il compito di raccontare quando dove e come le donne, non astratti soggetti filosofici ma concrete e viventi, hanno ricomposto lacerazioni, ricostruito condizioni di sopravvivenza, conservato sistemi, ambienti, persone, culture, utilizzando quei gesti di cura affinati nel corso di una lunga, varia, creativa e sofferta storia di divisione del lavoro tra produzione e riproduzione della vita della specie umana. Leggi tutto “Quale rapporto tra donne e nonviolenza? (2007)”