Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
Il conflitto esiste nel mondo delle relazioni sociali e politiche in cui la democrazia ci colloca, o dovrebbe collocarci, come umanità con pari diritti prescindendo dall’eredità e dai vincoli famigliari.
La democrazia è un sistema di gestione dei conflitti, un possibile percorso, ancora accidentato, dall’iniquità dei sistemi classisti colonizzatori ai processi di convenzioni per comune convenienza nell’equa distribuzione di risorse, opportunità e visioni del bene comune.
L’approvvigionamento delle risorse materiali e immateriali alimenta continui conflitti a vari livelli della nostra vita.

Disegno mondi di appartenenza umana consapevole che abbiano bisogno delle parole per esprimere pensieri, com’è ovvio per la nostra specie, e le parole designano e separano ma, tra questi mondi, dentro il nostro io in continua mutazione, c’è una continua osmosi, un fluire vario come quello dell’acqua sui territori, che sono vari e diversi come variamente e diversamente si muovono i processi.
Utilizzo immagini dell’ambiente per avvicinarmi a quel nostro esistere che per secoli si è pensato per separazioni, gerarchie, identità compatte e uniformanti ed ora diventa consapevole delle infinite connessioni e di come queste connessioni ci definiscono e guidano e costringono e sostengono in modi che precedono spesso il nostro pensiero.
Da qui torno ai conflitti, che sono snodi, ostacoli, chiusure, costrizioni, ma anche suggerimenti, proposte, visioni impreviste, nuove strade per incontri inattesi, tensioni verso un altrove che è sempre futuro.
I conflitti sono parte imprescindibile delle nostre relazioni, che nascono dall’interruzione di quella misteriosa simbiosi per la quale la germinazione delle cellule, dentro una femmina della nostra specie, diventa separazione e nascita di una nuova imprevedibile storia umana.
Così ogni nata e nato al mondo ridefinisce il mondo stesso nella continua transizione tra biologia e storia affermandosi tra conservazione e innovazione, riunione e contrasto, conflitto e mediazione, permanenza e mutazione.
Scrivo utilizzando dicotomie e so che questa è solo l’espressione storica di una lingua che registra  in modo approssimativo quella che Lynn Margulis ha definito “la danza misteriosa” aspirando a raccontare il continuum insieme alla separazione, le connessioni insieme alle distinzioni, il sentimento della cooperazione che precede e alimenta le nostre vite diventando quella varia capacità di stare in solitario legame con ciò che vive intorno, nella singolarità che si sviluppa in vari processi di distanza e vicinanza, passaggi di una continua alchemica osmosi dell’esistere nella variabilità di relazioni che si allargano tra la vita materiale, i pensieri e l’immaginario guidato dai dispositivi che l’umanità stessa produce modificando gli ambienti di vita.

RIPUDIARE LA GUERRA

La guerra è il contrario del conflitto, nasce dal progetto di azzerare il conflitto con la fine dell’avversario, un salto di significato che costringe la vita alla distruzione per l’affermazione, alla cancellazione di una parte, alla distorsione della vita infilata in un progetto di morte.
La guerra chiede sempre una quota di morti: donne e uomini, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, anziane e anziani, e questa è solo una piccola declinazione generica della varia umanità che deve soccombere, apparentemente scelta a caso ma in realtà mai casuale.
La morte inflitta dalla guerra rafforza le gerarchie sociali con l’inevitabile selezione delle possibilità di sopravvivenza.
La guerra chiede una quota di morte in ognuna e ognuno di noi: morte di pensieri, di vissuti, di sentimenti, di esperienze, morte di sensibilità, di attenzione, di empatia, morte morale.
La guerra chiede sempre una quota di mutazione nelle nostre vite: rabbia, diffidenza, aggressione, sopraffazione, protagonismo identitario, disegnano schieramenti di guerra simbolica che generalizza l’arruolamento anche dove non c’è rischio vitale.
La guerra chiede sempre una quota di distruzione per spostare poteri e capitali, per rinnovare servitù, subalternità, sfruttamento, per rinsaldare gerarchie e privilegi sociali accanto a nuove povertà, deprivazioni, asservimenti.
La guerra lascia sempre un lungo strascico di dolore che chiede riparazione, voragini della vita e del cuore che i propagatori di guerra riempiono di armi e odio; eredità pesanti per chi viene dopo perché non è facile ricostruire sopra le macerie e spesso impossibile ritrovare storie quando continuità e contiguità sono state brutalmente spezzate.
Le guerre sono ripetitive: armi come strumenti, uniforme come abito che cancella i corpi e le storie, procedure di addestramento dirette all’obiettivo, armature di stereotipi che cancellano i corpi maschili nella retorica virilista e quelli femminili nella inermità delle vittime, come se i corpi maschili non conoscessero il dolore e fossero destinati per natura ad essere “corpi armati” e quelli femminili fossero solo carne esposta senza pensiero allo scempio guerresco.
Le guerre celebrano sempre lo stupro amplificando il fenomeno connaturato al dominio maschile.
Le guerre arruolano uomini e donne nel modello unico del corpo armato obbediente e acefalo.
Le guerre continuano a vivere nel tempo di pace occupando le celebrazioni della Repubblica, i monumenti nelle piazze, la toponomastica, i riti collettivi in ogni piccolo paese dove la memoria dei morti scivola nella retorica dell’eroismo e le divise occupano posti d’onore.
Le guerre continuano a vivere nella retorica dell’eroe, nell’esaltazione della morte che riduce ogni vita all’ultimo atto, cancellando il quieto lavorio della vita quotidiana.
Le guerre si alimentano della ferocia di pratiche selettive ammantate di merito, di esibizione camuffata di informazione, di familismo arroccato nei miti ereditari della proprietà nascosti dietro la retorica dei sentimenti.

MEDIARE E RIMEDIARE

La strada della mediazione non è più faticosa della guerra, si tratta solo di uscire dalle visioni costrittive, dalle narrazioni vincolate solo alle guerre nella periodizzazione storica.
Non si tratta di cancellare ma di mutare sguardo: approfondire le pacificazioni, le pratiche che consentono la gestione nonviolenta dei conflitti, diffondere la capacità di arbitrato e soprattutto approfondire e far vivere a tutti i livelli le pratiche democratiche.
La pace non è una dichiarazione ma un modo di vivere che si può imparare.
La pace è l’unica strada per uscire dal dominio patriarcale.
Tanti anni fa Lidia Menapace esortandoci a bonificare il linguaggio dalle metafore di guerra proponeva di celebrare il 2 giugno, Festa della Repubblica, con vere feste popolari ovunque, sostituire le sfilate militari con cortei delle categorie lavoratrici, visto che il lavoro è fondamento della nostra costituzione, con la presenza giocosa di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi invitati a portare la creatività delle loro esistenze nuove che saranno il rinnovamento anche delle nostre istituzioni.
Disertare i rituali di guerra, predisporre piani di disarmo e dichiarare la neutralità degli Stati, addestrare la diplomazia alla pace, istituire la “leva di pace” per ragazze e ragazzi come esercizio di gestione dei conflitti nella responsabilità e cura di territori e persone: ci sono compiti per tutti e tutte.

POSSIAMO RIVENDICARE UN INESTINGUIBILE CREDITO DI PACE

La guerra si avvale di un’epica diventata narrazione consueta e imprescindibile, sfondo di ogni trama, fascino dell’azione, adrenalina del rischio immaginario, ritualità e tessuto linguistico.
La guerra emerge come struttura vitale del dominio maschile che rende invisibile il femminile riducendo a mera biologia riproduttiva la nascita.
Il dominio maschile si esercita nel controllo e censura della nascita e quindi della crescita delle piccole esistenze che si fanno umane, che fanno l’umana esistenza ,così come rende osceno il declino mettendo fuori scena l’invecchiamento, la malattia, la perdita, il finire che accade sempre accanto al nascere.
Possiamo trovare nel nascere il fondamento teorico di una pace che nominiamo sempre al singolare perché ne conosciamo da sempre l’intrinseca qualità di salvaguardia del vivente contro le specializzazioni assassine delle forme di guerra.
Conosciamo la pace in ogni gesto di cura, in ogni tavola apparecchiata, in ogni letto pronto, in ogni lavoro di manutenzione, in ogni corpo che s’inclina nell’ascolto.
C’è un credito di pace che ogni guerriero deve riconoscere, di cui ogni pianificatore di guerra ha fruito e fruisce.
C’è un credito di pace che le donne, femmine della specie umana possono rivendicare.
Non tutte le donne sono madri ma tutte le madri sono donne.
Possiamo rivendicare il credito di tempo in cui ogni vita è cresciuta dentro la vita di una donna.
Possiamo rivendicare il credito di tempo elargito nella manutenzione delle case, nella cura delle vite in crescita e in declino, nella costruzione di bellezza deperibile, nella cucitura di relazioni mutevoli, nello spazio di silenzio che ha sostenuto la parola, nella reticenza della rabbia, nel passo indietro che consente all’altro di misurare il passo.
Se il discorso dell’economia è dominante noi vogliamo sia pagato ora il credito di un tempo di pace in cui la cura ha consentito la crescita, la nascita e rinascita, l’andarsene dal mondo per buona morte a conclusione, il venire al mondo per materna scelta libera e sicura.
Rivendichiamo un credito di pace per quei nove mesi in cui la vita di ogni donna e ogni uomo è cresciuta dentro una madre.
Rivendichiamo l’inestinguibile credito di un tempo di pace che ogni singolarità umana deve alle madri e lo rivendichiamo contro ogni tempo di guerra.
Torniamo al corpo?
Sì, perché il corpo vive la gioia e il dolore, patisce la malattia e la morte, la perdita e l’assenza, avverte la pienezza dell’amore, la meraviglia della crescita, la scoperta e l’invenzione del mondo, il mistero dei mutamenti. Il corpo trova gesti e parole per dirsi, inventa linguaggi per l’inesauribile comunicazione della vita.
La misteriosa asimmetria dei corpi nella generazione, che si fa storia di donne e di uomini, mi convince a farci parte in causa e rivendicare il credito dovuto che estingue ogni dovere di morte in obbedienza a logiche distruttive.
Pensando la nostra nascita, la condizione di estrema dipendenza che genera estrema accoglienza, possiamo rivendicare il diritto fondamentale dei corpi a vivere, il valore dei nostri limiti nella molteplicità delle piccole singole esistenze contro l’arrogante onnipotenza dell’ideologia militare che investe sulla morte azzerando ogni unicità umana nell’uniforme.

Cominciamo chiedendo la restituzione del debito di nove mesi di tregua per tutte le guerre, nove mesi di tregua per preparare la pace. Nove mesi per fare piani, predisporre condizioni, immaginare il futuro come accade in ogni gestazione, nove mesi di sospensione e attesa che siano l’inizio di un lavoro per la pace, come sono l’inizio di ogni vita in pace.
Troviamo parole condivise di donne, nate da madre, troviamo la potenza dei nostri corpi insieme capaci di avviare inedite alleanze per affermare la pace, per inventare la pace contro ogni guerra.
Avviamo un piano di lunga durata.
Avviamo una contrattazione ovunque. Il tempo è ora e quindi ogni giorno va bene per cominciare.

Per fermare Apollo dobbiamo vedere Dafne. A proposito della Mostra dell’UDI

Vorrei dare due spunti, che sono l’esito di quello che è stato a lungo il mio lavoro annuale a scuola, spunti che non enunciavo come assiomi ovviamente, ma facevo ricavare ai ragazzi e alle ragazze con il lavoro sulle fonti. Ho sempre insegnato in classi miste e solo negli ultimi anni a classi prevalentemente femminili.
Ecco i due spunti: uno di storia e uno di letteratura.
La prima questione riguarda la storia e le strutture profonde sedimentate nell’immaginario, che diamo per scontate nell’insegnamento.
Raccontiamo la storia come se le donne fossero state irrilevanti, figurine che appaiono qua e là, se e quando la loro eccezionalità non mette in discussione l’impianto narrativo.
Se invece proviamo a guardare le cronologie politiche nella lunga durata, dal codice di Hammurabi fino alle costituzioni contemporanee, possiamo rilevare un dato evidente:
tutte le formazioni politiche di governo del territorio che conosciamo, o che comunque studiamo nella storia che viene insegnata in tutti gli ordini scolastici, comprese le forme degli Stati moderni, si sono strutturate sull’esclusione delle donne dal governo delle risorse e sulla considerazione delle donne come corpi a disposizione:
·      per il soddisfacimento sessuale dei maschi
·      per la cura e manutenzione dell’esistenza di luoghi e persone
·      per il possesso della riproduzione umana, figli e figlie e quindi anche di tutti i dispositivi e le istituzioni di riproduzione culturale dell’umano, al fine di favorire la conservazione delle differenze sociali, gerarchiche e reddituali.
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Va in scena la guerra: miti, riti, uniformi e resistenze di donne dietro al fronte (1915-1918)

Rosangela Pesenti

 
Abstract
 
La guerra unifica in un corpo maschile compatto ciò che il tempo di pace divide e le donne vengono assoggettate ai ruoli di servizio, diventando le tessitrici di un immenso apparato di riparazione dei corpi e dei territori feriti.
Viene rilanciato il mito della complementarietà dei generi e sarà l’immagine della crocerossina a completare il grigioverde del soldato, soprattutto quando l’enorme quantità di feriti richiederà, oltre al potenziamento delle strutture ospedaliere, la produzione di immagini rassicuranti finalizzate al contenimento emotivo di ogni dubbio sul valore della meta finale.
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Parole da casa: Madri in festa?

A tutte le donne che sono madri di se stesse, perché è l’unico modo di diventare adulte.
A tutte le donne che riconoscono le madri perché sono consapevoli di essere figlie.
A tutte le donne che riconoscono le donne accanto a loro, anche senza definizioni famigliari o reverenze genealogiche.
A tutte le madri che servono senza diventare serve.
A tutte le madri che dicono no.
A tutte le madri che non sono onnipresenti
A tutte le madri che non sono onnipotenti
A tutte le madri che sbagliano
A tutte le madri che lasciano sbagliare
A tutte le madri che se la squagliano
A tutte le madri che non fanno la maestra
A tutte le madri che inventano ogni giorno la propria festa
A tutte le madri che ti tengono nel cuore ma praticano la libertà dell’amore
A tutte le madri che non si vantano
A tutte le madri che si stancano
A tutte le madri senza retorica
A tutte le madri a termine
A tutte le madri che sanno cambiare
A tutte le madri che non mettono i figli all’occhiello o sulla targhetta di casa
o nella borsetta
A tutte le madri che disertano, che non esibiscono, che non si compiacciono
A tutte le madri che si fidano
A tutte le madri che non sono compiacenti
A tutte le madri che ti accompagnano mentre impari a camminare
A tutte le madri che non ti tengono al guinzaglio
A tutte le madri che non si sentono indispensabili
A tutte le madri che non ti confrontano, non ti misurano, non ti sfiancano
A tutte le madri che non ti considerano un investimento,
A tutte le madri che non ti spiano, calcolando il tuo rendimento
A tutte le madri che se ne sono andate
A tutte le madri che abbiamo rimpianto
A tutte le madri che hanno fatto il possibile
A tutte le madri che hanno fatto anche l’impossibile
A tutte le madri che hanno avuto un tempo troppo breve
A tutte le madri che hanno la fortuna di un tempo prolungato
A tutte le madri vissute in un tempo difficile, a quelle con un tempo beato
A tutte le madri che s’inventano
A tutte le madri che i figli sanno inventare
A tutte le madri che le figlie possono sognare
 

Parole da casa: Torsione del pensiero

Per spiegare cose nuove, chi insegna, spesso ricorre a metafore, similitudini, invenzione di parole.

Da molti anni, all’inizio del piccolo ciclo di lezioni su matrici culturali, radici storiche e persistenze antropologiche della violenza maschile sulle donne, che tengo per le volontarie dei centri antiviolenza, uso una metafora così stravagante ed estrema che sposta immediatamente l’uditorio dal comodo giaciglio di luoghi comuni, creando quella confusione e disorientamento che possono indurre a pensare di avere qualcosa da imparare e che io, forse e quindi, ho qualcosa da insegnare.

“Per capire questo fenomeno dovete fare una torsione del pensiero”, enuncio. La torsione è un’attività del corpo, una postura inconsueta che costringe la muscolatura a sperimentare la propria flessibilità e potenzialità, che ognuna/o può solo sperimentare su di sé, come ogni esperienza del corpo, con esiti imprevisti e perfino sorprendenti. E sempre liberatori. La torsione del corpo genera energia e rilassamento rigenerando anche lo spazio dei pensieri.

Noi pensiamo e ricordiamo per immagini, perciò ho trovato un’immagine, di cui ho verificato l’efficacia, che illustra la metafora.

La propongo perché in questo momento, se vogliamo capire cosa accade e cosa fare, abbiamo bisogno di una “torsione del pensiero” che significa prima di tutto pensare a partire dalla propria condizione e dalle proprie responsabilità, ma su questo tornerò.

Non penso infatti che siamo cambiate e cambiati solo perché la nostra vita è cambiata per due mesi; il cambiamento è un processo lento e l’esperienza che ci sta accomunando richiede forse una mutazione, cioè un cambiamento irreversibile e simile a quello del virus stesso, nel salto di specie raccontato da chi se ne occupa in modo scientifico.

 

Porto con me una striscia di carta e una graffettatrice o lo scotch, e già questo rappresenta uno spostamento che induce curiosità in un paese in cui il sapere passa ancora prevalentemente dal modello cattedratico della conferenza e viene ignorata la potenzialità didattica del fare, indagata in Italia dalla genialità di Maria Montessori e praticata da generazioni di maestre (e qualche maestro) nella scuola elementare.

Presento la striscia di carta perfettamente stesa e faccio osservare le due facce per cui è possibile percorrerne una senza mai raggiungere l’altra, se non attraversando la linea di demarcazione costituita dal bordo o bucando la superficie, che quindi ha, convenzionalmente, un lato “superiore” e “inferiore”, oppure “interno” ed “esterno” se la piego a forma di cilindro.

Poi prendo la striscia di carta e, imprimendo un mezzo giro di torsione, unisco i lati corti ottenendo una figura geometrica con proprietà completamente diverse.

Infatti non ci sono più due facce del foglio ma esiste un solo lato e un solo bordo; dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta; solo dopo averne percorsi due ci ritroviamo sul lato iniziale. Se si trattasse di una strada si potrebbe passare da una superficie a quella “dietro” senza attraversare il nastro e senza saltare il bordo ma semplicemente camminando a lungo.

Si tratta del nastro di Moebius (o Möbius), matematico e astronomo tedesco, che nel 1858 introdusse per la prima volta questa figura in un trattato sui poliedri.

La storia della scienza è piena di episodi di questo genere e sull’argomento specifico potete trovare interessanti approfondimenti, applicazioni urbanistiche e artistiche, perfino racconti letterari.

Io mi limito ad invitare chiunque lavori con le persone in relazioni di accudimento, aiuto, sostegno, insegnamento, educazione, cura, terapia, trattamento, guida, responsabilità, a tenere sulla propria scrivania un nastro di Moebius per ricordare che l’ovvio può diventare straordinario, ciò che sappiamo è solo un’infima parte di ciò che potremmo sapere, avere una ricetta (una competenza certificata, una preparazione documentata) è importante ma una buona idea può arrivare in modi e da fonti o persone impreviste.

Le nostre certezze sono labili come le nostre immagini mentali ed è fondamentale averne consapevolezza.

Perfino i numeri sono meno certi di quanto pensiamo e dato che di questi tempi consigliare libri sembra diventata un’attività quasi nobile mi adeguo e suggerisco Il meraviglioso mondo dei numeri, di Alex Bellos, Einaudi 2011, che può aiutarci nella torsione, perché comincia proprio raccontando come vivono le popolazioni che non usano i numeri, esperienza inimmaginabile per noi.

Per dare i numeri nel bollettino dei morti siamo scesi a trecento e poi meno, numeri enunciati con sollievo, tranne che per i morti stessi e i parenti ovviamente, che quindi non ci emozionano più. Trecento migranti sono annegati insieme in un passato recentissimo che abbiamo già rimosso insieme allo stillicidio di molti altri numeri atroci. Ci hanno emozionato le sessantacinque bare uscite nella notte sui camion militari dal cimitero di Bergamo ma oggi ne possiamo ignorare trecento.

Questo ci dice che le emozioni sono importanti ma non del tutto affidabili, esattamente con le nostre immagini mentali e le nostre convinzioni.

Quando ero una ragazza mi piaceva l’idea dell’immaginazione al potere, che significava creatività, lungimiranza, apertura verso risorse intellettuali impreviste.

Il virus ci ha costrette e costretti a vedere la straordinaria risorsa intellettuale di quello che abbiamo definito lavoro manuale, dimenticando che le mani sono legate al corpo e mosse dal cervello, che per fare una cucitura diritta, lavare una persona anziana, svuotare i cassonetti della spazzatura, fare un’iniezione, pulire un pavimento, battere scontrini alla cassa, “lavorare” pacchi, come si usa dire nella logistica, scrivere a computer, attivare videochiamate, far giocare bambine e bambini, governare adolescenti, e potrei continuare per pagine e pagine, si usa il corpo intero, cervello compreso.

Abbiamo ascoltato persone comuni, lavoratrici e lavoratori, esprimersi con chiarezza, precisione, proprietà di linguaggio e capacità di governare sentimenti con la consapevolezza del limite, mentre spesso giornalisti e perfino giornaliste si sono addentrate/i in slalom linguistici per coprire quel nulla, umano e comprensibile, che ha cancellato i nostri pensieri diventati ormai inadeguati, senza riuscire, almeno in un primo momento ad esprimere prima di tutto il proprio personale smarrimento, e non mi riferisco a chi, in malafede, persegue losche finalità usando la manipolazione e la menzogna, mi riferisco al giornalismo onesto.

La risposta all’imprevisto non può essere immediata perfetta e riconoscibile, anche i provvedimenti per far fronte all’emergenza non potevano esserlo.

Lo scrivo non per assolvere i fautori del neoliberismo che mettono in conto sacche di miseria e sfruttamento insieme a quote di mortalità, ma perché perfino loro si sono trovati spiazzati e se ci sono state inadempienze perseguibili penalmente, delle quali si occupa la magistratura, non possiamo dimenticare che c’è intorno a quelle inadempienze una vasta correità non perseguibile ma certamente centrale dal punto di vista politico dell’essere cittadine e cittadini di uno Stato democratico.

Come spesso accade ci si riempie la bocca della parola libertà dimenticando la responsabilità, che in democrazia non è mai interamente delegata o devoluta come nello Stato autoritario.

La complessità è refrattaria agli slogan. L’abitudine a semplificare attraverso l’omissione o sottrazione alla fine genera confusione.

Il riassunto è il testo più difficile da confezionare perché si tratta di un’operazione linguistica analoga a quella matematica del minimo comune denominatore ma non altrettanto semplice: si tratta di arrivare al nocciolo duro dell’informazione, spolpandola delle ridondanze, delle digressioni e delle infiocchettature, ma questo significa avere chiaro dove si trova il nocciolo altrimenti il rischio è quello di lasciare la buccia buttando via tutto il resto.

Quand’ero giovane detestavo i centrini all’uncinetto, non ho mai imparato a farli e per anni li ho dimenticati finché non mi sono capitati tra le mani quelli ereditati e riemersi dal fondo di un cassetto. L’intenzione era di buttarli ma di colpo, guardandoli, mi sono resa conto che questa tipologia di centrini è un frattale, oggetto geometrico dotato di omotetia interna, cioè una forma che si ripete allo stesso modo in scala diversa, così che una qualunque parte è simile all’originale, come i broccoli per capirci.

Allora il mio gusto per i centrini non è cambiato ma è cambiato il mio sguardo e mi sono chiesta perché quella forma ha appassionato tante donne, quale rispondenza tra forma e pensieri o quale risposta trovavano in una forma che diventava arredamento.

La torsione del pensiero, come il nastro di Moebius, parte dalla condizione reale, dai dati esistenti, e prova a piegarli in modo diverso.

Condizione reale significa anche partire da dove siamo, perfino dal disagio e dalla confusione per chiederci cosa possiamo fare, evitando la lamentazione rituale, la critica benaltrista (c’è ben altro a cui pensare), il delirio d’onnipotenza per il quale si stendono piani politici e suggerimenti di governo ma non ci si chiede in che modo si può dare una mano al proprio vicino di casa, o si organizza un’associazione non semplicemente a fini riproduttivi della propria esibizione.

La torsione del pensiero è utile per tutte e tutti.

Il governo che abbiamo ha fatto del suo meglio per quello che è nel concreto delle persone che lo costituiscono, in un momento che non ci saremmo proprio augurati di vivere. Cerco di guardarli anche come persone, donne e uomini segnati dalla stanchezza, sottoposti a una pressione certamente non invidiabile.

Si possono criticare certamente, la critica è il sale della democrazia, ma così come finalmente riusciamo a vedere tutto il lavoro umano che sorregge le nostre vite mi auguro che possiamo cominciare a vedere anche il lavoro politico nella sua dimensione di fatica, studio, ricerca, dibattito, ascolto, uso delle parole, in modo che possiamo chiedere, a chi lo svolge, onestà d’intenti, coerenza di pratiche e trasparenza di finalità.

In questo, ricordiamocelo per il futuro, la piena responsabilità è delle cittadine e dei cittadini, ma anche dei meccanismi attraverso i quali il cosiddetto popolo sovrano viene informato o manipolato.

Come anziana chiusa in casa ho visto più TV del solito e mi sono detta che la media delle persone che lavora (e intendo con lavoro anche crescere figli e figlie, accudire parenti anziane e anziani, curare animali domestici ecc.) non ha certo il tempo di seguire una comunicazione così ridondante, prolissa, ripetitiva e spesso noiosa. Lo è stata perfino sul Coronavirus diffondendo confusione.

La me stessa di tre mesi fa, pensionata attivista per almeno dieci mesi all’anno, già privilegiata e con tempo libero a disposizione perfino rispetto alla me stessa di un tempo, lavoratrice madre e figlia, non avrebbe mai seguito tanto sproloquiare su almeno dieci canali televisivi contemporaneamente.

Oltre un certo limite la libertà di parola di informazione di espressione diventa una confusione che ci ingabbia come un nuovo tipo di carcerazione, imponendoci un’autostrada per i pensieri che corrono troppo veloci per vedere il contesto e una postura rigida, esattamente come la guida di un’auto in autostrada.

Per anni ho potuto esprimere la mia passione politica (e perfino qualche modesta competenza) solo in qualche discorso qua e là, nel dibattito famigliare e in poche concrete attività, perciò non mi invento oggi deliri di presenza lontanissima dalle mie possibilità, e non solo dovute al virus.

La mia attività è azzerata e lo sarà ancora per molto molto tempo, per questo ho pensato di rendere pubblico quello che scrivo.

Lo faccio a puntate distanziate perché tengo conto della vita reale delle mie trenta lettrici e cinque lettori (e tutte le altre/altri sono benvenute e benvenuti) e soprattutto perché non voglio ripetere cose che altre e altri stanno già dicendo o, peggio, me stessa.

La prossima puntata sarà sulla DISTANZA mentre rimugino sul rapporto tra etica economia e donne.

Su questo tema faccio solo una battuta come anticipazione.

Sono contenta che finalmente la riproduzione sociale sia entrata nei discorsi e sono contenta che ne scrivano giovani donne.

Lidia Menapace ha introdotto il tema nel dibattito femminista alla fine degli anni ’80, ascoltata e seguita solo da piccoli gruppi e snobbata da molta parte del femminismo mainstream, come si usa dire adesso.

Sono contenta che qualcuna abbia cambiato idea oggi ma mi piacerebbe che le giovani donne imparassero a scoprire cosa e chi c’è sotto la spessa crosta della smemoratezza presente.

Non solo per giustizia della memoria e onestà delle fonti ma soprattutto per quella convenienza del fare e del pensare che molte di noi hanno imparato da Lidia e, me compresa, continuato ad approfondire e praticare.

Alla prossima.

Parole da casa: vita-morte

VITA
Più di qualsiasi scritto filosofico il virus ci ha insegnato che siamo umani, e umane. Non sappiamo ancora come e perché ma il virus sembra conoscere la differenza femmina/maschio, ignorata dagli esperti come dai politici, donne comprese, tanto che sembrano benemeriti i giornalisti e le giornaliste che tentano di conservare i piccoli passi fatti nella lingua usando il termine “ministra”.
Non voglio scrivere di questo perché l’ho già fatto molte volte, e non so nemmeno quanto utilmente, vista la lentezza e ondeggiamento dei risultati.
Anche la lingua, come il contagio, ha un andamento non del tutto prevedibile.
Leggi tutto “Parole da casa: vita-morte”

Parole da casa: parole disarmate

Non è una guerra
È qualcosa di molto diverso e non ci è utile usare le metafore belliche per raccontarlo.
Mi ha colpito che fin dall’inizio si usassero metafore che fanno riferimento alla Prima guerra mondiale: i medici in trincea, gli ospedali in prima linea, gli eroi che combattono il virus, l’unità nazionale per sconfiggere il nemico, mentre già dagli anni trenta del Novecento le guerre sono cambiate e non c’è più fronte, muoiono più civili di militari, le forze armate si proteggono, uccidono da grande distanza e le persone si arruolano prevalentemente perché si tratta di un lavoro ben pagato, non per andare a morire.
Leggi tutto “Parole da casa: parole disarmate”

Il corpo è l’anima: appunti di una ricerca

Tutto è cominciato con una separazione. Dividere, separare è l’operazione che consente di individuare, definire, conoscere. La lingua e la memoria operano attraverso la suddivisione e la nominazione, pescano nel fluire del pensiero, nell’acqua corrente delle percezioni e costruiscono significati come villaggi abitabili sulle palafitte, fissate nella profondità di un terreno conosciuto e solo mediato dalle mille trasparenze variabili delle correnti che conservano l’oscurità del profondo.

Da queste case significanti ci si può sempre affacciare per esplorare l’orizzonte, terra e cielo, in sintonia con le diverse stagioni della vita, che portano piene o secche variando il paesaggio intorno, nella fisica ambivalenza di un restare che significa contemporaneamente fluire. Leggi tutto “Il corpo è l’anima: appunti di una ricerca”