Del morire

pubblicato in MAREA 2025/1

All’inizio è il nulla e il nulla a poco a poco si fa memoria, cellula dopo cellula, tessuto dopo tessuto, diversificandosi e ampliandosi. E poi la luce. E piano piano emerge una memoria che è sapere, conoscenza, coscienza, mentre si fa crescita, diversificazione, generazione e rigenerazione.
E poi, dalla pienezza avventurosa della crescita tutto si muove e via via è trasformazione, dimenticanza, sottrazione, privazione, cedimento, scomparsa, perdita, lutto, mentre la memoria è frammento, decantazione, distillato, gesto. E infine c’è la morte.
Si cammina verso la fine. Una certezza che non arriviamo a capire, il nulla che mi ha preceduta e mi aspetta.
Anche il nulla è una pienezza, una parola che in italiano si differenzia da culla solo per la consonante iniziale. Il nulla è una densità concentrata nel DNA, filo lunghissimo che ci lega all’emergere della specie e, lungo la catena di mutazione sconosciute, al vivente terrestre.
Una pienezza che è la prossimità estranea da cui vengo e l’insondabile polvere in cui vado.
Dalla nebbia opaca del nulla recuperiamo reperti di memoria materiale e affettiva, culturale e morale, oggetti e parole con cui costruiamo e arrediamo il presente e la durata di ogni vita. Scopriamo e accettiamo il cammino verso la morte dentro i più diversi sentimenti della vita. Siamo simili, mai uguali.

Non voglio parlare del come accade, evito di proposito gli scenari di guerra, genocidi e stermini perché sono luoghi in cui il confronto con la morte costringe a guardare modalità di costrizione della vita che riguardano le forme con cui il potere umano si fa dominio, e il dominio impone la selezione di parti o interezze umane dentro un ordine sociale militare e armato.
Le morti violente e collettive ci sottraggono la possibilità di accompagnare chi muore per l’ultimo tratto, ci privano del tempo condiviso per l’inizio del lutto, ci trasformano in vite sopravvissute che emergono dalle macerie come dal confine dell’Ade. Tornare a vivere dalle macerie non è solo ricostruire.

La morte e la nascita ci portano nell’incommensurabile perché la vita non è una successione misurabile di momenti che cerchiamo di fissare in date certe, nell’ordine scandito dalla precisione dell’orologio, nei calendari, negli annuari, negli anniversari, nella gabbia dei fusi orari, nella precisione degli strumenti.
No, la vita è nel rapporto tra circonferenza e raggio, tra lato e diagonale. Come ricorda la raffinata spiegazione della rubrica quotidiana “Una parola al giorno”, incommensurabile significa propriamente irriducibile. La vita non è solo quantità di giorni ma è il come e così il morire è l’imprevista certezza che impariamo dalla vicinanza affettiva, dalla prossimità umana, dalla presenza dell’altra, dell’altro, nelle nostre vite. Chi muore ci guida anche se non lo sappiamo, non lo vogliamo sapere.
Il morire chiede vicinanza e racconto, l’intimità dei gesti che consentono l’ellissi della sintassi perché la parola è corpo.
Tutto il resto è sociale, sottratto ormai al collettivo, talvolta degradato nei social.

Del nascere diciamo “venire al mondo” e del morire “se n’è andato, se n’è andata”. In questo venire e andare c’è la consapevolezza di un mistero che sentiamo profondamente in ogni nostra cellula che piega e lega nella metafora del cammino i due eventi espressi dall’evidenza della nascita e della morte.
Da sempre cerchiamo parole per dire quella singolarità (o singolitudine) che percepiamo come corpo e l’esistere come parte di un tutto molteplice e diversificato tra materia e sentimenti, aria che respiriamo, la tazza preferita, il sedile del treno, l’abito che abitiamo e tutta la gamma di vibrazioni che muovono il corpo nei pensieri.
L’amore più indicibile è quello che sentiamo nel filo che non si attorciglia più alla nostra vita e manca all’abbraccio come al litigio. Lo tratteniamo nel ricordo, cerchiamo l’odore, il profumo, indicibile e immemorabile.
Sappiamo poco del corpo e ancora meno di quell’impasto di pensieri ed emozioni che definiamo psiche in cui ci riconosciamo come prima persona singolare.
Accade a poche persone di sapere in vita di aver lasciato un proprio segno duraturo nel tracciato del mondo. Quel mondo che è terra e cielo, terrestrità del cammino e sogno, materialità del vivere e visione, tracciato dei passi camminati ed emergere di orizzonti.
La morte delle persone amate incide il tessuto della vita. Un’asportazione che lascia una ferita e poi diventa cicatrice.
Quando accade non sappiamo che cosa e quanto verrà asportato, il tempo di guarigione della ferita, l’entità della cicatrice.
La cosiddetta modernità mette in scena la morte violenta continuamente, tanto che pensiamo alla morte come una violenza alla vita e ne abbiamo espulso la possibilità di pensarla e viverla come estremo compimento.
Genoveffa Cervi non è riuscita a sopravvivere all’asportazione violenta di tutti i suoi figli insieme. Ciò che è rimasto di lei non era sufficiente per la sopravvivenza.
Il padre, Alcide Cervi, si è aggrappato a quella spaventosa cicatrice per farne nuova vita e memoria civile.
Non sono scelte, sono ciò che accade, ciò che ci accade.
Una madre sopravvive alla morte del figlio avvenuta per mano dell’uomo violento con cui l’ha generato e trasforma il dolore in rabbia e la rabbia in lotta per i diritti di bambine e bambini ad essere protetti da chi usa violenza.
Sono milioni le bambine e i bambini da proteggere dalla violenza perché possano crescere serenamente.
Non sappiamo chi saremo di fronte alla morte che incrocia la nostra strada separandoci da una compagnia cara, non sappiamo chi saremo lasciando la vita che continua senza di noi.
Eppure, è necessario al vivere imparare la strada maieutica verso la morte.
Non tanto per il valore della vita ma per il riconoscimento delle relazioni che ci tengono nella vita. Non l’astrattezza di un imperativo ma la concretezza dell’appartenenza alla specie umana, al vivente terrestre che è prima di tutto cooperazione e condivisione. L’appartenenza a quel cerchio sfrangiato di condivisione che chiamiamo vita.
Quello che ho imparato dalla morte delle persone care è che ho imparato. La morte non è un concetto astratto, è intrisa nella vita senza che la pensiamo, ma l’accadere è comunque sorpresa e di questa sorpresa ne facciamo gesto, parola, rito, condivisione, invenzione, socialità.
Mi sono resa conto che quella ferita non è solo recisione, amputazione, dolore, vuoto insopportabile, ma è anche una traccia da decifrare, un’indicazione che ti orienta, una spinta ad andare avanti mentre vorresti solo tornare indietro, al prima.
La vicinanza con chi muore è un dono, terribile e prezioso.
La persona amata che muore ci consegna un’esperienza da decifrare e cambia per sempre la nostra postura nel mondo. Se sappiamo stare lì, in quella vicinanza che possiamo raccontare solo per approssimazione, impariamo che dentro lo strappo doloroso il nostro corpo comincia ad ospitare nuovi pensieri.
Nel vociferare quotidiano sono poche le persone che ascoltiamo e i dispositivi della memoria ci inducono alla smemoratezza. In cerca dell’evento che si cumuli in like e follower perdiamo ciò che accade nella prossimità reale, la dimensione occasionale, la sorpresa perenne del reale nell’incontro personale, in presenza come ormai si usa dire.
Accanto a chi stava morendo ho avvertito la pienezza del silenzio, il dolore dello strappo ma anche il distillato più autentico di ciò che siamo state e stati, insieme.
Mentre scrivo evoco volti accanto a me, momenti vissuti, accadimenti di morte imprevista, accompagnamenti in cui ho esercitato la pazienza e poi distillato il dolore della fine. Evoco cerchi di donne e uomini con cui ho riso attraversando fantasie intorno alla nostra morte, perché insieme si può ridere e piangere ed è come tenersi per mano mentre sappiamo di inoltrarci nell’ignoto.
Il dolore di un’assenza che invade le giornate diventa parte delle giornate e, come per tutto, si fa posto nello sfaccendare delle tue mani, nell’andirivieni dei tuoi piedi prima ancora che i pensieri sappiano dove lo puoi collocare.
Ti accompagna perché si è inciso da qualche parte sulla tua pelle più di un tatuaggio. Vuoi che ti accompagni perché senza il suo ricordo la solitudine diventerebbe patologia della memoria e non saresti tu. Da quell’incisione puoi generare compassione. E amore. Il dono della morte è il valore della vicinanza, percepire similitudini avvolte insieme in un frammento di pluriverso.
Come diceva Lidia Menapace, occorre pensare laicamente la morte dentro la vita quotidiana per farne un’esperienza autentica perché sia autentico il vivere. Anche la morte è questione politica.

Giù in basso, in lontananza, si vedeva lo stagno. Era così silenzioso laggiù, e così deserto. “Ecco come sarà, quando morirò” si disse. “Lo stagno: tutto solo. Senza di me”.[1]

Frammenti bibliografici da un seminario sul Morire del 2016 a cura di Rosangela Pesenti

La stanza dei bambini (2005)

Wolf Erlbruch, L’anatra, la morte e il tulipano, Edizioni E/O, Roma, 2007

Alfonso M. Di Nola, La nera signora. Antropologia della morte e del lutto, Newton & Compton Editori, Roma, 1995-2001
L’emergenza della morte determina una innominabile disgregazione del cadavere, ma anche un totale dissesto della nostra posizione di superstiti di fronte alla realtà. Normalmente noi viviamo come se mai dovessimo morire (…) p. 11

Iona Heath, Modi di morire, Bollati Boringhieri, Torino, 2008
Paradossalmente è la morte che ci fa dono del passare del tempo. In sua assenza saremmo smarriti in un’accozzaglia di eternità e non avremmo nessuna ragione di agire o meglio di vivere. (…)
Se conosciamo i molteplici modi in cui si manifesta il cedimento del corpo e se l’umanità è riuscita a fare enormi progressi nella lotta contro la morte è grazie alla scienza, ma quando la morte diventa inevitabile e la lotta sempre più vana, la scienza ha ben poco da offrire e le risorse della poesia diventano più importanti. p. 23-100

Luisa Colli, La morte e gli addii, Moretti & Vitali, Bergamo 1999
Se infatti il “capire” e il “volere” sono strumenti indispensabili alla vita umana, da soli essi si rivelano insufficienti proprio nelle situazioni decisive. E l’Io non può trovare in essi le energie necessarie per acconsentire alla rotta, fino a che accanto a lui, come fedeli alleate non si schierano anche le forze dell’eros. p. 57

Louise J. Kaplan, Voci dal Silenzio, Raffaello Cortina, Milano 1996
Noi siamo l’unica specie animale che possieda una storia personale e culturale e che ne sia posseduta. Non ci liberiamo mai del tutto dal passato. Con la morte fisica dei nostri cari non si esaurisce il nostro affetto nei loro confronti. In qualche forma, la loro presenza non ci abbandona mai. (…) Il processo del lutto non significa soltanto distacco dal defunto e suo progressivo abbandono ma anche riconferma dei nostri affetti. La piena elaborazione del lutto implica la ricostruzione del nostro mondo interiore e la reintegrazione della persona amata sotto forma di presenza interna: se non proprio come spirito o fantasma, come aspetto dell’Io o della coscienza, come ideale o passione. p. 9-12

Joan Didion, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, Milano, 2006
So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi.
So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti.
Che diventino la fotografia sul tavolo.
Che diventino solo un nome sui conti fiduciari.
Che l’acqua se li porti via.
Sapere queste cose non mi rende più facile lasciare la presa.
Anzi, la consapevolezza che la nostra vita insieme sarà sempre meno al centro di tutti i miei giorni mi è sembrata oggi in Lexington Avenue un tradimento così netto che ho perduto completamente la nozione del traffico in arrivo. p. 217

Tonia Cancrini, Un tempo per il dolore, Bollati Boringhieri, Torino, 2002
La memoria, il ricordo sono le strutture portanti della nostra vita; un edificio che costruiamo dentro di noi e che diventa l’ossatura della nostra esistenza. (…)
Se c’è un tempo per il dolore, c’è un tempo per la vita, per la gioia, per andare al galoppo verso il sole. p. 33- 184

Philippe Forest, Tutti i bambini tranne uno, Alet, Padova, 2005
La tomba è nuda. Il marmo e la ghiaia verranno. Le lastre di granito non sono ancora sigillate con il cemento. (…) Che cosa sognano gli atomi che si disperdono nella chiarità azzurra dell’essere? A che pensano gli atomi che si arrampicano lungo una canna fumaria verso la libertà improbabile del cielo? p. 342

P. F. Thomése, Bambina d’ombra, Frassinelli 2005
Il passaggio delle stagioni, il giorno che scivola nella notte. Sei seduto in un campo e guardi, guardi, ma non vedi il confine. A un certo punto ti accorgi che il buio ha preso il sopravvento, delle cose restano solo le ombre, il profilo nero.
Sei seduto sulla sedia dell’ospedale, accanto al lettino d’acciaio, e hai tua figlia in braccio. È viva, è viva, ma a poco a poco muore. p. 101

Lesley McIntyre, Il tempo di una vita, ANFFAS, Milano, 2004
Tra la nascita e la morte si vive e si muore. Più o meno è tutto qui. Potrà sembrare semplicistico, ma noi tutti viviamo nella terribile negazione della morte. (…) È il modo in cui un essere umano si dedica alle parti intermedie – il viaggio che compie attraverso il proprio tempo – a riflettere la sua vera essenza, tutto quanto ha imparato o meno. Si tratta di un viaggio che richiede umiltà e la comprensione della propria insignificanza, ma anche la consapevolezza di ciò che è possibile anche se può essere transitorio. Realismo senza pomposità. P. 7

Eric Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa, Rizzoli, Milano 2004
Ho cercato di spiegare ai miei genitori che la vita è uno strano regalo.
All’inizio lo si sopravvaluta, questo regalo: si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo. Io che ho cent’anni so di cosa parlo. Più si invecchia, più bisogna dar prova di gusto per apprezzare la vita. (…)
Qualunque cretino può godere della vita a dieci o a vent’anni, ma a cento, quando non ci si può più muovere, bisogna avvalersi della propria intelligenza.

Isabel Allende, Paula, Feltrinelli, Milano, 1996
Mi sdraiai sul letto accanto a mia figlia stringendomela contro il petto, come facevo quando era piccola. Celia tolse la gatta e accomodò i due bambini addormentati perché col loro corpo scaldassero i piedi della zia. Nicolás prese sua sorella per mano, Willie e mia madre si sedettero ai lati circondati da esseri eterei, da mormorii e tenere fragranze del passato, da spiriti e apparizioni, da amici e parenti, vivi e morti. Per tutta la notte aspettammo pazienti, ricordando i momenti duri, ma soprattutto quelli felici, raccontando storie, piangendo un poco e sorridendo molto, onorando la luce di Paula che ci illuminava, mentre lei sprofondava sempre più nel sopore finale e il suo petto si sollevava appena in respiri sempre più lenti. P. 324

Roberta Tatafiore, La parola fine, Milano, 2010
Non voglio accomiatarmi con scuse e perdoni coram populo. Piuttosto scriverò lettere private. Lascerò doni alle persone care. Lascerò anche questo diario, naturalmente. Nelle mani giuste e in maniera discreta.
C’è però un’unica creatura alla quale nulla potrò trasmettere se non la mia improvvisa assenza. È la gatta a tre colori Lucky, la pupilla dei miei occhi, la mia bambina pelosa. Da vent’anni. (…) devo mettere il cuore tra i denti per lasciarla. Ma la sua grazia suprema non mi basta per continuare a vivere. p. 33-34

Natalia Ginzburg, Non possiamo saperlo, Einaudi, Torino, 2001
Alla morte si pensa continuamente, per tutta la vita, ma non mai nello stesso modo: difficile ricordare tutte le forme e i paesaggi e i colori che ha preso, nel corso degli anni, dentro di noi. È l’idea più mutevole che si possa avere. p. 141

Dolores Munari Poda, La mamma è partita per un lungo viaggio, Marco Serra Tarantola Editore, Brescia, 2015
Bisogna che le parole della verità sappiano rispettare il bambino e la sua vulnerabilità e utilizzino possibilmente un lessico condiviso. Ecco perché non esiste la comunicazione perfetta. E non hanno senso i manuali informativi per dirlo nel modo giusto ai bambini. (…)
Si può piangere con i bambini.
La vita (anche i bambini lo imparano presto) è come la tenda del nomade, provvisoria ed esposta ai venti, ma è anche luogo di incantamenti, di favole belle che possiamo raccontarci sapendo che sono favole, luogo di sogni dove le mamme viaggiano e poi torneranno a casa per stare per sempre con i loro piccoli, luogo di colloqui tra i “vivi” e i “morti”. p. 30-31

Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino, 1962
David Grossman, Col corpo capisco, Mondatori 2003
José Saramago, Le intermittenze della morte, Feltrinelli, Milano 2012 (2005)
Francesca Sanvitale, Madre e figlia, Einaudi 1980
Gina Lagorio, Approssimato per difetto, Oscar Mondatori 1988
Gina Lagorio, Càpita, Garzanti, Milano 2005
Lalla Romano, Nei mari estremi, Einaudi, Milano 1987
Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie, Milano, 2016
Rosangela Pesenti, Trasloco, Supernova, Venezia, 1998
Janusz Korczak, Come amare il bambino, Luni, Milano 1996
Norberto Bobbio, De Senectute, Einaudi, Torino 1996
Sandra Petrignani, Care presenze, Neri Pozza, Vicenza 2004
Ruth Vander Zee, Roberto Innocenti, La storia di Erika, La Margherita, Milano, 2003

Al giardino ancora non l’ho detto –
per paura che mi possa soggiogare.
E non ho affatto la forza ora
di rivelarlo all’ape –
Non ne farò parola per strada
Perché le botteghe mi guarderebbero stupite –
Che una tanto timida – tanto ignara
abbia l’audacia di morire.

Non devono saperlo le colline –
dove ho tanto vagabondato –
né va detto alle foreste amanti
Il giorno che me ne andrò –

E non lo si sussurri a tavola –
né si accenni sbadati per la via
che nel cuore dell’Enigma
m’incamminerò oggi –

Emily Dickinson

[1] Wolf Erlbruch, L’anatra, la morte e il tulipano, Edizioni E/O, Roma, 2007

 

Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
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Per fermare Apollo dobbiamo vedere Dafne. A proposito della Mostra dell’UDI

Vorrei dare due spunti, che sono l’esito di quello che è stato a lungo il mio lavoro annuale a scuola, spunti che non enunciavo come assiomi ovviamente, ma facevo ricavare ai ragazzi e alle ragazze con il lavoro sulle fonti. Ho sempre insegnato in classi miste e solo negli ultimi anni a classi prevalentemente femminili.
Ecco i due spunti: uno di storia e uno di letteratura.
La prima questione riguarda la storia e le strutture profonde sedimentate nell’immaginario, che diamo per scontate nell’insegnamento.
Raccontiamo la storia come se le donne fossero state irrilevanti, figurine che appaiono qua e là, se e quando la loro eccezionalità non mette in discussione l’impianto narrativo.
Se invece proviamo a guardare le cronologie politiche nella lunga durata, dal codice di Hammurabi fino alle costituzioni contemporanee, possiamo rilevare un dato evidente:
tutte le formazioni politiche di governo del territorio che conosciamo, o che comunque studiamo nella storia che viene insegnata in tutti gli ordini scolastici, comprese le forme degli Stati moderni, si sono strutturate sull’esclusione delle donne dal governo delle risorse e sulla considerazione delle donne come corpi a disposizione:
·      per il soddisfacimento sessuale dei maschi
·      per la cura e manutenzione dell’esistenza di luoghi e persone
·      per il possesso della riproduzione umana, figli e figlie e quindi anche di tutti i dispositivi e le istituzioni di riproduzione culturale dell’umano, al fine di favorire la conservazione delle differenze sociali, gerarchiche e reddituali.
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Va in scena la guerra: miti, riti, uniformi e resistenze di donne dietro al fronte (1915-1918)

Rosangela Pesenti

 
Abstract
 
La guerra unifica in un corpo maschile compatto ciò che il tempo di pace divide e le donne vengono assoggettate ai ruoli di servizio, diventando le tessitrici di un immenso apparato di riparazione dei corpi e dei territori feriti.
Viene rilanciato il mito della complementarietà dei generi e sarà l’immagine della crocerossina a completare il grigioverde del soldato, soprattutto quando l’enorme quantità di feriti richiederà, oltre al potenziamento delle strutture ospedaliere, la produzione di immagini rassicuranti finalizzate al contenimento emotivo di ogni dubbio sul valore della meta finale.
Leggi tutto “Va in scena la guerra: miti, riti, uniformi e resistenze di donne dietro al fronte (1915-1918)”

Parole da casa: Madri in festa?

A tutte le donne che sono madri di se stesse, perché è l’unico modo di diventare adulte.
A tutte le donne che riconoscono le madri perché sono consapevoli di essere figlie.
A tutte le donne che riconoscono le donne accanto a loro, anche senza definizioni famigliari o reverenze genealogiche.
A tutte le madri che servono senza diventare serve.
A tutte le madri che dicono no.
A tutte le madri che non sono onnipresenti
A tutte le madri che non sono onnipotenti
A tutte le madri che sbagliano
A tutte le madri che lasciano sbagliare
A tutte le madri che se la squagliano
A tutte le madri che non fanno la maestra
A tutte le madri che inventano ogni giorno la propria festa
A tutte le madri che ti tengono nel cuore ma praticano la libertà dell’amore
A tutte le madri che non si vantano
A tutte le madri che si stancano
A tutte le madri senza retorica
A tutte le madri a termine
A tutte le madri che sanno cambiare
A tutte le madri che non mettono i figli all’occhiello o sulla targhetta di casa
o nella borsetta
A tutte le madri che disertano, che non esibiscono, che non si compiacciono
A tutte le madri che si fidano
A tutte le madri che non sono compiacenti
A tutte le madri che ti accompagnano mentre impari a camminare
A tutte le madri che non ti tengono al guinzaglio
A tutte le madri che non si sentono indispensabili
A tutte le madri che non ti confrontano, non ti misurano, non ti sfiancano
A tutte le madri che non ti considerano un investimento,
A tutte le madri che non ti spiano, calcolando il tuo rendimento
A tutte le madri che se ne sono andate
A tutte le madri che abbiamo rimpianto
A tutte le madri che hanno fatto il possibile
A tutte le madri che hanno fatto anche l’impossibile
A tutte le madri che hanno avuto un tempo troppo breve
A tutte le madri che hanno la fortuna di un tempo prolungato
A tutte le madri vissute in un tempo difficile, a quelle con un tempo beato
A tutte le madri che s’inventano
A tutte le madri che i figli sanno inventare
A tutte le madri che le figlie possono sognare
 

Parole da casa: Torsione del pensiero

Per spiegare cose nuove, chi insegna, spesso ricorre a metafore, similitudini, invenzione di parole.

Da molti anni, all’inizio del piccolo ciclo di lezioni su matrici culturali, radici storiche e persistenze antropologiche della violenza maschile sulle donne, che tengo per le volontarie dei centri antiviolenza, uso una metafora così stravagante ed estrema che sposta immediatamente l’uditorio dal comodo giaciglio di luoghi comuni, creando quella confusione e disorientamento che possono indurre a pensare di avere qualcosa da imparare e che io, forse e quindi, ho qualcosa da insegnare.

“Per capire questo fenomeno dovete fare una torsione del pensiero”, enuncio. La torsione è un’attività del corpo, una postura inconsueta che costringe la muscolatura a sperimentare la propria flessibilità e potenzialità, che ognuna/o può solo sperimentare su di sé, come ogni esperienza del corpo, con esiti imprevisti e perfino sorprendenti. E sempre liberatori. La torsione del corpo genera energia e rilassamento rigenerando anche lo spazio dei pensieri.

Noi pensiamo e ricordiamo per immagini, perciò ho trovato un’immagine, di cui ho verificato l’efficacia, che illustra la metafora.

La propongo perché in questo momento, se vogliamo capire cosa accade e cosa fare, abbiamo bisogno di una “torsione del pensiero” che significa prima di tutto pensare a partire dalla propria condizione e dalle proprie responsabilità, ma su questo tornerò.

Non penso infatti che siamo cambiate e cambiati solo perché la nostra vita è cambiata per due mesi; il cambiamento è un processo lento e l’esperienza che ci sta accomunando richiede forse una mutazione, cioè un cambiamento irreversibile e simile a quello del virus stesso, nel salto di specie raccontato da chi se ne occupa in modo scientifico.

 

Porto con me una striscia di carta e una graffettatrice o lo scotch, e già questo rappresenta uno spostamento che induce curiosità in un paese in cui il sapere passa ancora prevalentemente dal modello cattedratico della conferenza e viene ignorata la potenzialità didattica del fare, indagata in Italia dalla genialità di Maria Montessori e praticata da generazioni di maestre (e qualche maestro) nella scuola elementare.

Presento la striscia di carta perfettamente stesa e faccio osservare le due facce per cui è possibile percorrerne una senza mai raggiungere l’altra, se non attraversando la linea di demarcazione costituita dal bordo o bucando la superficie, che quindi ha, convenzionalmente, un lato “superiore” e “inferiore”, oppure “interno” ed “esterno” se la piego a forma di cilindro.

Poi prendo la striscia di carta e, imprimendo un mezzo giro di torsione, unisco i lati corti ottenendo una figura geometrica con proprietà completamente diverse.

Infatti non ci sono più due facce del foglio ma esiste un solo lato e un solo bordo; dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta; solo dopo averne percorsi due ci ritroviamo sul lato iniziale. Se si trattasse di una strada si potrebbe passare da una superficie a quella “dietro” senza attraversare il nastro e senza saltare il bordo ma semplicemente camminando a lungo.

Si tratta del nastro di Moebius (o Möbius), matematico e astronomo tedesco, che nel 1858 introdusse per la prima volta questa figura in un trattato sui poliedri.

La storia della scienza è piena di episodi di questo genere e sull’argomento specifico potete trovare interessanti approfondimenti, applicazioni urbanistiche e artistiche, perfino racconti letterari.

Io mi limito ad invitare chiunque lavori con le persone in relazioni di accudimento, aiuto, sostegno, insegnamento, educazione, cura, terapia, trattamento, guida, responsabilità, a tenere sulla propria scrivania un nastro di Moebius per ricordare che l’ovvio può diventare straordinario, ciò che sappiamo è solo un’infima parte di ciò che potremmo sapere, avere una ricetta (una competenza certificata, una preparazione documentata) è importante ma una buona idea può arrivare in modi e da fonti o persone impreviste.

Le nostre certezze sono labili come le nostre immagini mentali ed è fondamentale averne consapevolezza.

Perfino i numeri sono meno certi di quanto pensiamo e dato che di questi tempi consigliare libri sembra diventata un’attività quasi nobile mi adeguo e suggerisco Il meraviglioso mondo dei numeri, di Alex Bellos, Einaudi 2011, che può aiutarci nella torsione, perché comincia proprio raccontando come vivono le popolazioni che non usano i numeri, esperienza inimmaginabile per noi.

Per dare i numeri nel bollettino dei morti siamo scesi a trecento e poi meno, numeri enunciati con sollievo, tranne che per i morti stessi e i parenti ovviamente, che quindi non ci emozionano più. Trecento migranti sono annegati insieme in un passato recentissimo che abbiamo già rimosso insieme allo stillicidio di molti altri numeri atroci. Ci hanno emozionato le sessantacinque bare uscite nella notte sui camion militari dal cimitero di Bergamo ma oggi ne possiamo ignorare trecento.

Questo ci dice che le emozioni sono importanti ma non del tutto affidabili, esattamente con le nostre immagini mentali e le nostre convinzioni.

Quando ero una ragazza mi piaceva l’idea dell’immaginazione al potere, che significava creatività, lungimiranza, apertura verso risorse intellettuali impreviste.

Il virus ci ha costrette e costretti a vedere la straordinaria risorsa intellettuale di quello che abbiamo definito lavoro manuale, dimenticando che le mani sono legate al corpo e mosse dal cervello, che per fare una cucitura diritta, lavare una persona anziana, svuotare i cassonetti della spazzatura, fare un’iniezione, pulire un pavimento, battere scontrini alla cassa, “lavorare” pacchi, come si usa dire nella logistica, scrivere a computer, attivare videochiamate, far giocare bambine e bambini, governare adolescenti, e potrei continuare per pagine e pagine, si usa il corpo intero, cervello compreso.

Abbiamo ascoltato persone comuni, lavoratrici e lavoratori, esprimersi con chiarezza, precisione, proprietà di linguaggio e capacità di governare sentimenti con la consapevolezza del limite, mentre spesso giornalisti e perfino giornaliste si sono addentrate/i in slalom linguistici per coprire quel nulla, umano e comprensibile, che ha cancellato i nostri pensieri diventati ormai inadeguati, senza riuscire, almeno in un primo momento ad esprimere prima di tutto il proprio personale smarrimento, e non mi riferisco a chi, in malafede, persegue losche finalità usando la manipolazione e la menzogna, mi riferisco al giornalismo onesto.

La risposta all’imprevisto non può essere immediata perfetta e riconoscibile, anche i provvedimenti per far fronte all’emergenza non potevano esserlo.

Lo scrivo non per assolvere i fautori del neoliberismo che mettono in conto sacche di miseria e sfruttamento insieme a quote di mortalità, ma perché perfino loro si sono trovati spiazzati e se ci sono state inadempienze perseguibili penalmente, delle quali si occupa la magistratura, non possiamo dimenticare che c’è intorno a quelle inadempienze una vasta correità non perseguibile ma certamente centrale dal punto di vista politico dell’essere cittadine e cittadini di uno Stato democratico.

Come spesso accade ci si riempie la bocca della parola libertà dimenticando la responsabilità, che in democrazia non è mai interamente delegata o devoluta come nello Stato autoritario.

La complessità è refrattaria agli slogan. L’abitudine a semplificare attraverso l’omissione o sottrazione alla fine genera confusione.

Il riassunto è il testo più difficile da confezionare perché si tratta di un’operazione linguistica analoga a quella matematica del minimo comune denominatore ma non altrettanto semplice: si tratta di arrivare al nocciolo duro dell’informazione, spolpandola delle ridondanze, delle digressioni e delle infiocchettature, ma questo significa avere chiaro dove si trova il nocciolo altrimenti il rischio è quello di lasciare la buccia buttando via tutto il resto.

Quand’ero giovane detestavo i centrini all’uncinetto, non ho mai imparato a farli e per anni li ho dimenticati finché non mi sono capitati tra le mani quelli ereditati e riemersi dal fondo di un cassetto. L’intenzione era di buttarli ma di colpo, guardandoli, mi sono resa conto che questa tipologia di centrini è un frattale, oggetto geometrico dotato di omotetia interna, cioè una forma che si ripete allo stesso modo in scala diversa, così che una qualunque parte è simile all’originale, come i broccoli per capirci.

Allora il mio gusto per i centrini non è cambiato ma è cambiato il mio sguardo e mi sono chiesta perché quella forma ha appassionato tante donne, quale rispondenza tra forma e pensieri o quale risposta trovavano in una forma che diventava arredamento.

La torsione del pensiero, come il nastro di Moebius, parte dalla condizione reale, dai dati esistenti, e prova a piegarli in modo diverso.

Condizione reale significa anche partire da dove siamo, perfino dal disagio e dalla confusione per chiederci cosa possiamo fare, evitando la lamentazione rituale, la critica benaltrista (c’è ben altro a cui pensare), il delirio d’onnipotenza per il quale si stendono piani politici e suggerimenti di governo ma non ci si chiede in che modo si può dare una mano al proprio vicino di casa, o si organizza un’associazione non semplicemente a fini riproduttivi della propria esibizione.

La torsione del pensiero è utile per tutte e tutti.

Il governo che abbiamo ha fatto del suo meglio per quello che è nel concreto delle persone che lo costituiscono, in un momento che non ci saremmo proprio augurati di vivere. Cerco di guardarli anche come persone, donne e uomini segnati dalla stanchezza, sottoposti a una pressione certamente non invidiabile.

Si possono criticare certamente, la critica è il sale della democrazia, ma così come finalmente riusciamo a vedere tutto il lavoro umano che sorregge le nostre vite mi auguro che possiamo cominciare a vedere anche il lavoro politico nella sua dimensione di fatica, studio, ricerca, dibattito, ascolto, uso delle parole, in modo che possiamo chiedere, a chi lo svolge, onestà d’intenti, coerenza di pratiche e trasparenza di finalità.

In questo, ricordiamocelo per il futuro, la piena responsabilità è delle cittadine e dei cittadini, ma anche dei meccanismi attraverso i quali il cosiddetto popolo sovrano viene informato o manipolato.

Come anziana chiusa in casa ho visto più TV del solito e mi sono detta che la media delle persone che lavora (e intendo con lavoro anche crescere figli e figlie, accudire parenti anziane e anziani, curare animali domestici ecc.) non ha certo il tempo di seguire una comunicazione così ridondante, prolissa, ripetitiva e spesso noiosa. Lo è stata perfino sul Coronavirus diffondendo confusione.

La me stessa di tre mesi fa, pensionata attivista per almeno dieci mesi all’anno, già privilegiata e con tempo libero a disposizione perfino rispetto alla me stessa di un tempo, lavoratrice madre e figlia, non avrebbe mai seguito tanto sproloquiare su almeno dieci canali televisivi contemporaneamente.

Oltre un certo limite la libertà di parola di informazione di espressione diventa una confusione che ci ingabbia come un nuovo tipo di carcerazione, imponendoci un’autostrada per i pensieri che corrono troppo veloci per vedere il contesto e una postura rigida, esattamente come la guida di un’auto in autostrada.

Per anni ho potuto esprimere la mia passione politica (e perfino qualche modesta competenza) solo in qualche discorso qua e là, nel dibattito famigliare e in poche concrete attività, perciò non mi invento oggi deliri di presenza lontanissima dalle mie possibilità, e non solo dovute al virus.

La mia attività è azzerata e lo sarà ancora per molto molto tempo, per questo ho pensato di rendere pubblico quello che scrivo.

Lo faccio a puntate distanziate perché tengo conto della vita reale delle mie trenta lettrici e cinque lettori (e tutte le altre/altri sono benvenute e benvenuti) e soprattutto perché non voglio ripetere cose che altre e altri stanno già dicendo o, peggio, me stessa.

La prossima puntata sarà sulla DISTANZA mentre rimugino sul rapporto tra etica economia e donne.

Su questo tema faccio solo una battuta come anticipazione.

Sono contenta che finalmente la riproduzione sociale sia entrata nei discorsi e sono contenta che ne scrivano giovani donne.

Lidia Menapace ha introdotto il tema nel dibattito femminista alla fine degli anni ’80, ascoltata e seguita solo da piccoli gruppi e snobbata da molta parte del femminismo mainstream, come si usa dire adesso.

Sono contenta che qualcuna abbia cambiato idea oggi ma mi piacerebbe che le giovani donne imparassero a scoprire cosa e chi c’è sotto la spessa crosta della smemoratezza presente.

Non solo per giustizia della memoria e onestà delle fonti ma soprattutto per quella convenienza del fare e del pensare che molte di noi hanno imparato da Lidia e, me compresa, continuato ad approfondire e praticare.

Alla prossima.

Parole da casa: vita-morte

VITA
Più di qualsiasi scritto filosofico il virus ci ha insegnato che siamo umani, e umane. Non sappiamo ancora come e perché ma il virus sembra conoscere la differenza femmina/maschio, ignorata dagli esperti come dai politici, donne comprese, tanto che sembrano benemeriti i giornalisti e le giornaliste che tentano di conservare i piccoli passi fatti nella lingua usando il termine “ministra”.
Non voglio scrivere di questo perché l’ho già fatto molte volte, e non so nemmeno quanto utilmente, vista la lentezza e ondeggiamento dei risultati.
Anche la lingua, come il contagio, ha un andamento non del tutto prevedibile.
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Parole da casa: parole disarmate

Non è una guerra
È qualcosa di molto diverso e non ci è utile usare le metafore belliche per raccontarlo.
Mi ha colpito che fin dall’inizio si usassero metafore che fanno riferimento alla Prima guerra mondiale: i medici in trincea, gli ospedali in prima linea, gli eroi che combattono il virus, l’unità nazionale per sconfiggere il nemico, mentre già dagli anni trenta del Novecento le guerre sono cambiate e non c’è più fronte, muoiono più civili di militari, le forze armate si proteggono, uccidono da grande distanza e le persone si arruolano prevalentemente perché si tratta di un lavoro ben pagato, non per andare a morire.
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