Parole da casa: vita-morte

VITA
Più di qualsiasi scritto filosofico il virus ci ha insegnato che siamo umani, e umane. Non sappiamo ancora come e perché ma il virus sembra conoscere la differenza femmina/maschio, ignorata dagli esperti come dai politici, donne comprese, tanto che sembrano benemeriti i giornalisti e le giornaliste che tentano di conservare i piccoli passi fatti nella lingua usando il termine “ministra”.
Non voglio scrivere di questo perché l’ho già fatto molte volte, e non so nemmeno quanto utilmente, vista la lentezza e ondeggiamento dei risultati.
Anche la lingua, come il contagio, ha un andamento non del tutto prevedibile.
La vita umana del resto è contagio, contaminazione.
Come abbiamo definito vicinanze e distanze? Da che cosa ci siamo tenute/i a distanza? Da che cosa ci siamo fatte/i contagiare? Di che cosa ci siamo ammalati per essere così vulnerabili al coronavirus?
Le persone a cui volevamo chiudere le frontiere, solo per farle entrare in forma illegale come carne da sfruttamento nell’agricoltura e nell’assistenza, gli anziani e anziane per i quali non abbiamo tempo e risorse perfino quando sono amate e amati, reclusi/e nel RSA in attesa della morte, espulse/i dal consesso sociale; le addette e gli addetti alle pulizie, le e gli assistenti delle RSA, i bambini le bambine, le e gli adolescenti intruppati in una scuola che ha cancellato qualsiasi criterio pedagogico in nome della selezione, le e gli insegnanti mortificate/i nella professionalità, Sono tante le categorie a cui apparteniamo e da cui ci siamo tenute/i a distanza e ora scopriamo che siamo rimaste/i a distanza da noi stesse/i.
Questi sono tra i pensieri che mi girano in testa e di cui scrivo sui miei onnipresenti quaderni.
Scuole organizzate come enormi aziende oggi chiaramente inefficaci; ospedali altrettanto solo per scoprire che ci salva la medicina di territorio; tutta la filiera complessa dell’economia di riproduzione di cui si balbetta a caso perché sostiene la vita in forme estranee al pensiero e quindi ai discorsi e quindi alle scelte della politica e dell’economia.
 
Sono anziana ma non vecchissima, non sono del tutto autonoma ma non ho ancora bisogno di assistenza, ho una casa che era appena sufficiente quando ci vivevamo in quattro perché c’erano i miei due figli, angusta negli anni in cui c’era mio padre (eppure avrei voluto restasse più a lungo).
Oggi la reclusione in questa casa è un privilegio rispetto a chi deve comunque lavorare, e curiosamente chi lavora è costretto a farlo con maggior fatica, maggior dispendio di energie, addirittura abnegazione e rischio.
Chi dorme tanto è una dormigliona, chi scrive tanto è una scrivona: così mi presento a me stessa perché serve misura nel trasferire la scrittura alla pubblicazione.
Rendere pubblico uno scritto significa avere nel proprio immaginario a chi ci si rivolge.
Oggi la parola viaggia indipendentemente dai corpi, è così da quando è stata inventata la scrittura e poi la stampa e ora il web. Un grande processo di democratizzazione della cultura ma anche di confusione perché la scrittura è anche manipolazione, menzogna, copertura. Come tutto ciò che è umano ha sfumature di ogni colore e il colore dipende anche dalla percezione di chi lo vede, non solo da chi lo propone.
Chiunque può leggere ciò che scrivo ma nel renderlo pubblico io penso alle tante donne e qualche uomo che conosco, non scrivo per essere parte di un piccolo consesso intellettuale, che rispetto leggo ascolto studio, ma al quale non mi sento di appartenere.
Le donne e qualche uomo per cui scrivo sono persone con poco tempo libero e tante domande strozzate in gola, scrivo per le donne che seguivano i miei corsi perché non so quando e come potremo riprendere il filo interrotto, scrivo per chi non si sottrae alla necessità di riprendere in mano i fili e intrecciare nuove storie.
Lo farò a puntate, non regolari, perché so che tutto insieme è troppo: qual è la misura tra penuria ed esagerazione? Qual è la relazione tra cura e limite?
Alcune cose le ho già scritte nel 1996: http://rosangelapesenti.it/l_economia_mondiale_con_occhi_e_mani_di_donna/
Proporre letture è il compito dell’insegnante, lasciare tracce, mettere sassolini. Nell’impraticabile selva di libri e parole provare a disegnare una mappa, fornire una bussola per orientarsi.
Per questo intanto comincio dalla fine:
 
MORTE
La morte, non il sesso, era il segreto di cui gli adulti bisbigliavano, e di cui noi avremmo voluto sapere di più”. Comincia così il libro di Ruth Klüger, Vivere ancora, in cui racconta gli anni dell’infanzia al tempo del nazismo, in una famiglia perseguitata.
E più avanti “Siccome ero del 1931 comprendevo senz’altro, e senza aver letto Sartre, che le conseguenzedell’antisemitismo erano sì un problema degli ebrei, e un problema grave; ma che l’antisemitismo stesso era un problema degli antisemiti, che, di grazia, avrebbero dovuto risolvere da soli e senza il mio aiuto.
Bisogna però avere l’onestà di ammettere che comunque gli adulti, indipendentemente dal comportamento dei bambini, non finivano più di sproloquiare, nella loro confusione e sventatezza, su ciò che essi o altri ebrei, in passato, avrebbero potuto fare perché il mondo in cui vivevano non gli si rivoltasse contro.
Non uso questo incipit perché voglio proporre paragoni che sarebbero del tutto impropri ma perché quella storia è la nostra e la storia ci serve per capire su quale strada ci siamo messi, quali passi abbiamo fatto e dove ci siamo persi.
La narrazione di una storia può offrirci parole per comprendere la nostra.
Scrivo “nostra” anche se è spesso improprio parlare al plurale come se la collettività fosse un tutt’uno omogeneo che agisce; sappiamo che non è così, ci sono differenze che restano eppure oggi con le nostre differenze siamo comunque in una condizione comune.
La piccola Ruth ha capito qual è la condizione più degli adulti che sproloquiano e penso accada anche oggi.
L’infanzia è la condizione in cui si capisce tutto, poi si trovano le parole per dirlo, si rielabora, si riformula, si racconta più e più volte in modi diversi, si esplorano gli angoli nascosti o si cementifica in forma compiuta e inaccessibile, in ogni caso bambine e bambini capiscono e in qualche modo misterioso sanno, meglio e più di noi adulti, la morte, forse perché sono più vicini alla nascita.
In realtà bambini e bambine sanno il reale, ciò che accade, perché ne hanno una percezione immediata, per questo sanno svelare ipocrisie e comprendere ciò che si vuole nascondere, come la morte e la malattia, appunto.
Mi è capitato spesso di tornare a queste prime pagine del romanzo di Ruth (che ho letto e riletto negli anni) quando mi capitava di conoscere bambini e bambine in balia di genitori ingabbiati nelle aspettative sociali, o di insegnanti asservite alla velocizzazione dei processi di apprendimento, con relativa misurazione; bambini e bambine blanditi in capricci inverosimili al supermercato, che chiedevano solo ascolto, bambini e bambine strattonati, sempre al supermercato, da madri visibilmente sopraffatte dalle richieste della vita.
La nostra vita prima del coronavirus non era granché tutto sommato, e non mi riferisco solo alle condizioni tratteggiate nell’invisibilità dello sfondo, le vite di chi era anche prima senza diritti, senza lavoro, senza casa, senza cittadinanza, affetto dal virus “senza” su cui si sono spese parole attivando piccoli aiuti dietro e perfino contro la politica esclusiva ed escludente, mi riferisco anche alle vite soddisfatte e soddisfacenti, benestanti, benpensanti, molti agi presenti, destini di figli e nipoti protetti.
Le vite in corsa delle donne soprattutto, in corsa anche quando stanno in casa e la vita sembra scorrere lenta perché sono i pensieri a correre, sempre, al futuro da conquistare per i figli, in corsa nei ritmi scolastici che hanno determinato i ritmi di vita delle famiglie con figli e figlie.
Dalle famiglie in corsa la morte era tenuta lontana, non solo dai bambini, lontana dai pensieri, lontana dai discorsi, lontana perfino dai riti, diventati spesso sbrigativi.
Oppure, al contrario, qualcuno godeva di una certa amplificazione del rito, con tanti discorsi e gli applausi all’uscita dalla chiesa, come ai matrimoni, ma poi i e le viventi tornavano velocemente alla propria vita. Nei ritmi del lavoro il lutto è un tempo non previsto, il dolore un cedimento, una debolezza da nascondere perché l’imperativo è mostrarsi forte, ricominciare come se non ci fosse interruzione.
La morte c’era anche prima ma sembrava una cosa da perdenti, cancellato il suicidio, invisibile quella non vita fatta di lavoro asservito con guadagno sicuro e week end nella dipendenza da droghe di vario genere, legali e vietate.
Questo è il paese della dipendenza da gioco e delle unità sanitarie per contrastarla: tutto legale.
Il fatto che qualche volta parlassi di morte veniva considerata una delle mie stravaganze, cosa vai a pensare, mi dicevano, tanto che avevo confezionato una risposta “beh, io sono sicura di morire, non so tu …” che faceva ridere e tutto finiva lì.
In quarant’anni di conferenze e seminari mi è capitato solo due volte di affrontare il tema della morte. A cosa serve parlarne, mi chiedono? Non ho risposte, a me serve a capire qualcosa della vita, della mia vita.
Seminare e far crescere parole è come mettere bulbi in un vaso sul terrazzino accanto al basilico, se lo facciamo vuol dire che ha senso.
 
STORIA
Della morte parlavo anche ai tempi in cui insegnavo, perché storia e letteratura sono un modo per dialogare con le persone morte, per imparare a vedere nelle moltitudini scomparse l’eredità che ci hanno lasciato, compresi gli obblighi testamentari che non possiamo eludere, le scelte che non possiamo evitare, il giudizio che spetta sempre a chi viene dopo, non per assolvere o condannare, ma per decidere la propria collocazione umana e sociale; le grandi domande della filosofia sono sottese a ogni narrazione, ci servono per riportare a noi un passato celato da un’interdizione ben più potente di qualsiasi lastra di marmo che separa da noi i corpi privati di vita.
Per questo noi possiamo solo interrogare le fonti in un confronto continuo e impari tra la penuria e l’eccesso, che ci costringono ad affinare capacità interpretative sempre a rischio di obsolescenza.
Ora la morte si è resa visibile nel tempo svuotato di superfluo, nella solitudine in cui viene affrontata da chi se ne occupa per lavoro, nel bollettino che ascoltiamo al crepuscolo di ogni giorno.
Le presenze familiari diventano assenze di colpo e senza soluzione di continuità, il dolore di chi resta viene accentuato dall’imposizione di una serialità alla quale forse stavamo già arrivando, ma più lentamente, in modo impercettibile, dentro il blob comunicativo che ci distraeva verso un altrove perennemente immateriale.
Ora la morte anonima taglia le nostre vite per necessità, ci viene imposta con un’accelerazione imprevista e ne cogliamo la disumanità. I riti ridotti a zero hanno spazzato via ogni forma di copertura, ogni ridondanza, ipocrisia, dettato sociale e noi siamo costretti ad affrontare la morte in forma inedita e imprevista, siamo costretti a misurare ogni passo della vita col rischio di una malattia ad alto tasso di mortalità.
Eppure forse, finalmente, il disastro collettivo ci dà la legittimità e perfino il tempo di piangere e pensare la morte.
La morte anche oggi non è uguale per tutti, come la vita del resto, ma lo è l’assenza di funerale che ha lasciato noi, vivi, attoniti, davanti all’immagine inedita delle bare trasportate dal cimitero di Bergamo, immagine che ancora resiste nella nostra memoria che era abituata, perfino nell’apprendimento, a trattenere l’informazione solo per un tempo minimo e poi sostituirla immediatamente in quel perenne spettacolo a cui ci hanno piegati i nuovi mezzi di comunicazione, di cui oggi scopriamo comunque l’utilità più profonda .
Il virus sta disvelando il mondo in cui viviamo, le contraddizioni, le assurdità, le ingiustizie, tutto ciò che sembrava ragionevole, tutto ciò che primeggiava, ma sta svelando anche le opportunità, l’utilità delle invenzioni che davamo per scontate insieme a quella di gesti antichi che riscopriamo fondamentali per la sopravvivenza.
Non torniamo a eludere la morte, a espellerla dai discorsi come ormai si tende a fare nei comunicati solo perché i numeri, sempre elevati, stanno scendendo.
Siamo nate e nati alla vita, quindi mortali, ma la morte non ci rende scarti della vita, pezzi obsoleti, meccanismi rotti, ci rende altro.
Pensiamolo, pensiamola.
Dato che le parole non sono tutto, ma certo sono qualcosa, potreste cercare un libro adatto a tutte le età, anche a chi non sa leggere: Wolf Erlbruch , L’anatra la morte il tulipano, Edizioni E/O.
Me l’ha regalato un’amica in un momento di lutto e mi capita di sfogliarlo.