Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
Il conflitto esiste nel mondo delle relazioni sociali e politiche in cui la democrazia ci colloca, o dovrebbe collocarci, come umanità con pari diritti prescindendo dall’eredità e dai vincoli famigliari.
La democrazia è un sistema di gestione dei conflitti, un possibile percorso, ancora accidentato, dall’iniquità dei sistemi classisti colonizzatori ai processi di convenzioni per comune convenienza nell’equa distribuzione di risorse, opportunità e visioni del bene comune.
L’approvvigionamento delle risorse materiali e immateriali alimenta continui conflitti a vari livelli della nostra vita.

Disegno mondi di appartenenza umana consapevole che abbiano bisogno delle parole per esprimere pensieri, com’è ovvio per la nostra specie, e le parole designano e separano ma, tra questi mondi, dentro il nostro io in continua mutazione, c’è una continua osmosi, un fluire vario come quello dell’acqua sui territori, che sono vari e diversi come variamente e diversamente si muovono i processi.
Utilizzo immagini dell’ambiente per avvicinarmi a quel nostro esistere che per secoli si è pensato per separazioni, gerarchie, identità compatte e uniformanti ed ora diventa consapevole delle infinite connessioni e di come queste connessioni ci definiscono e guidano e costringono e sostengono in modi che precedono spesso il nostro pensiero.
Da qui torno ai conflitti, che sono snodi, ostacoli, chiusure, costrizioni, ma anche suggerimenti, proposte, visioni impreviste, nuove strade per incontri inattesi, tensioni verso un altrove che è sempre futuro.
I conflitti sono parte imprescindibile delle nostre relazioni, che nascono dall’interruzione di quella misteriosa simbiosi per la quale la germinazione delle cellule, dentro una femmina della nostra specie, diventa separazione e nascita di una nuova imprevedibile storia umana.
Così ogni nata e nato al mondo ridefinisce il mondo stesso nella continua transizione tra biologia e storia affermandosi tra conservazione e innovazione, riunione e contrasto, conflitto e mediazione, permanenza e mutazione.
Scrivo utilizzando dicotomie e so che questa è solo l’espressione storica di una lingua che registra  in modo approssimativo quella che Lynn Margulis ha definito “la danza misteriosa” aspirando a raccontare il continuum insieme alla separazione, le connessioni insieme alle distinzioni, il sentimento della cooperazione che precede e alimenta le nostre vite diventando quella varia capacità di stare in solitario legame con ciò che vive intorno, nella singolarità che si sviluppa in vari processi di distanza e vicinanza, passaggi di una continua alchemica osmosi dell’esistere nella variabilità di relazioni che si allargano tra la vita materiale, i pensieri e l’immaginario guidato dai dispositivi che l’umanità stessa produce modificando gli ambienti di vita.

RIPUDIARE LA GUERRA

La guerra è il contrario del conflitto, nasce dal progetto di azzerare il conflitto con la fine dell’avversario, un salto di significato che costringe la vita alla distruzione per l’affermazione, alla cancellazione di una parte, alla distorsione della vita infilata in un progetto di morte.
La guerra chiede sempre una quota di morti: donne e uomini, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, anziane e anziani, e questa è solo una piccola declinazione generica della varia umanità che deve soccombere, apparentemente scelta a caso ma in realtà mai casuale.
La morte inflitta dalla guerra rafforza le gerarchie sociali con l’inevitabile selezione delle possibilità di sopravvivenza.
La guerra chiede una quota di morte in ognuna e ognuno di noi: morte di pensieri, di vissuti, di sentimenti, di esperienze, morte di sensibilità, di attenzione, di empatia, morte morale.
La guerra chiede sempre una quota di mutazione nelle nostre vite: rabbia, diffidenza, aggressione, sopraffazione, protagonismo identitario, disegnano schieramenti di guerra simbolica che generalizza l’arruolamento anche dove non c’è rischio vitale.
La guerra chiede sempre una quota di distruzione per spostare poteri e capitali, per rinnovare servitù, subalternità, sfruttamento, per rinsaldare gerarchie e privilegi sociali accanto a nuove povertà, deprivazioni, asservimenti.
La guerra lascia sempre un lungo strascico di dolore che chiede riparazione, voragini della vita e del cuore che i propagatori di guerra riempiono di armi e odio; eredità pesanti per chi viene dopo perché non è facile ricostruire sopra le macerie e spesso impossibile ritrovare storie quando continuità e contiguità sono state brutalmente spezzate.
Le guerre sono ripetitive: armi come strumenti, uniforme come abito che cancella i corpi e le storie, procedure di addestramento dirette all’obiettivo, armature di stereotipi che cancellano i corpi maschili nella retorica virilista e quelli femminili nella inermità delle vittime, come se i corpi maschili non conoscessero il dolore e fossero destinati per natura ad essere “corpi armati” e quelli femminili fossero solo carne esposta senza pensiero allo scempio guerresco.
Le guerre celebrano sempre lo stupro amplificando il fenomeno connaturato al dominio maschile.
Le guerre arruolano uomini e donne nel modello unico del corpo armato obbediente e acefalo.
Le guerre continuano a vivere nel tempo di pace occupando le celebrazioni della Repubblica, i monumenti nelle piazze, la toponomastica, i riti collettivi in ogni piccolo paese dove la memoria dei morti scivola nella retorica dell’eroismo e le divise occupano posti d’onore.
Le guerre continuano a vivere nella retorica dell’eroe, nell’esaltazione della morte che riduce ogni vita all’ultimo atto, cancellando il quieto lavorio della vita quotidiana.
Le guerre si alimentano della ferocia di pratiche selettive ammantate di merito, di esibizione camuffata di informazione, di familismo arroccato nei miti ereditari della proprietà nascosti dietro la retorica dei sentimenti.

MEDIARE E RIMEDIARE

La strada della mediazione non è più faticosa della guerra, si tratta solo di uscire dalle visioni costrittive, dalle narrazioni vincolate solo alle guerre nella periodizzazione storica.
Non si tratta di cancellare ma di mutare sguardo: approfondire le pacificazioni, le pratiche che consentono la gestione nonviolenta dei conflitti, diffondere la capacità di arbitrato e soprattutto approfondire e far vivere a tutti i livelli le pratiche democratiche.
La pace non è una dichiarazione ma un modo di vivere che si può imparare.
La pace è l’unica strada per uscire dal dominio patriarcale.
Tanti anni fa Lidia Menapace esortandoci a bonificare il linguaggio dalle metafore di guerra proponeva di celebrare il 2 giugno, Festa della Repubblica, con vere feste popolari ovunque, sostituire le sfilate militari con cortei delle categorie lavoratrici, visto che il lavoro è fondamento della nostra costituzione, con la presenza giocosa di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi invitati a portare la creatività delle loro esistenze nuove che saranno il rinnovamento anche delle nostre istituzioni.
Disertare i rituali di guerra, predisporre piani di disarmo e dichiarare la neutralità degli Stati, addestrare la diplomazia alla pace, istituire la “leva di pace” per ragazze e ragazzi come esercizio di gestione dei conflitti nella responsabilità e cura di territori e persone: ci sono compiti per tutti e tutte.

POSSIAMO RIVENDICARE UN INESTINGUIBILE CREDITO DI PACE

La guerra si avvale di un’epica diventata narrazione consueta e imprescindibile, sfondo di ogni trama, fascino dell’azione, adrenalina del rischio immaginario, ritualità e tessuto linguistico.
La guerra emerge come struttura vitale del dominio maschile che rende invisibile il femminile riducendo a mera biologia riproduttiva la nascita.
Il dominio maschile si esercita nel controllo e censura della nascita e quindi della crescita delle piccole esistenze che si fanno umane, che fanno l’umana esistenza ,così come rende osceno il declino mettendo fuori scena l’invecchiamento, la malattia, la perdita, il finire che accade sempre accanto al nascere.
Possiamo trovare nel nascere il fondamento teorico di una pace che nominiamo sempre al singolare perché ne conosciamo da sempre l’intrinseca qualità di salvaguardia del vivente contro le specializzazioni assassine delle forme di guerra.
Conosciamo la pace in ogni gesto di cura, in ogni tavola apparecchiata, in ogni letto pronto, in ogni lavoro di manutenzione, in ogni corpo che s’inclina nell’ascolto.
C’è un credito di pace che ogni guerriero deve riconoscere, di cui ogni pianificatore di guerra ha fruito e fruisce.
C’è un credito di pace che le donne, femmine della specie umana possono rivendicare.
Non tutte le donne sono madri ma tutte le madri sono donne.
Possiamo rivendicare il credito di tempo in cui ogni vita è cresciuta dentro la vita di una donna.
Possiamo rivendicare il credito di tempo elargito nella manutenzione delle case, nella cura delle vite in crescita e in declino, nella costruzione di bellezza deperibile, nella cucitura di relazioni mutevoli, nello spazio di silenzio che ha sostenuto la parola, nella reticenza della rabbia, nel passo indietro che consente all’altro di misurare il passo.
Se il discorso dell’economia è dominante noi vogliamo sia pagato ora il credito di un tempo di pace in cui la cura ha consentito la crescita, la nascita e rinascita, l’andarsene dal mondo per buona morte a conclusione, il venire al mondo per materna scelta libera e sicura.
Rivendichiamo un credito di pace per quei nove mesi in cui la vita di ogni donna e ogni uomo è cresciuta dentro una madre.
Rivendichiamo l’inestinguibile credito di un tempo di pace che ogni singolarità umana deve alle madri e lo rivendichiamo contro ogni tempo di guerra.
Torniamo al corpo?
Sì, perché il corpo vive la gioia e il dolore, patisce la malattia e la morte, la perdita e l’assenza, avverte la pienezza dell’amore, la meraviglia della crescita, la scoperta e l’invenzione del mondo, il mistero dei mutamenti. Il corpo trova gesti e parole per dirsi, inventa linguaggi per l’inesauribile comunicazione della vita.
La misteriosa asimmetria dei corpi nella generazione, che si fa storia di donne e di uomini, mi convince a farci parte in causa e rivendicare il credito dovuto che estingue ogni dovere di morte in obbedienza a logiche distruttive.
Pensando la nostra nascita, la condizione di estrema dipendenza che genera estrema accoglienza, possiamo rivendicare il diritto fondamentale dei corpi a vivere, il valore dei nostri limiti nella molteplicità delle piccole singole esistenze contro l’arrogante onnipotenza dell’ideologia militare che investe sulla morte azzerando ogni unicità umana nell’uniforme.

Cominciamo chiedendo la restituzione del debito di nove mesi di tregua per tutte le guerre, nove mesi di tregua per preparare la pace. Nove mesi per fare piani, predisporre condizioni, immaginare il futuro come accade in ogni gestazione, nove mesi di sospensione e attesa che siano l’inizio di un lavoro per la pace, come sono l’inizio di ogni vita in pace.
Troviamo parole condivise di donne, nate da madre, troviamo la potenza dei nostri corpi insieme capaci di avviare inedite alleanze per affermare la pace, per inventare la pace contro ogni guerra.
Avviamo un piano di lunga durata.
Avviamo una contrattazione ovunque. Il tempo è ora e quindi ogni giorno va bene per cominciare.

Patriarcato

 La parola Patriarcato è diventata di colpo d’attualità. Pronunciata da Elena Cecchettin ha trasformato il dolore per l’uccisione della sorella Giulia in un potente richiamo alla consapevolezza collettiva.
Non è stato e purtroppo non sarà l’ultimo femminicidio, eppure quello della giovane Giulia ha certamente segnato uno spostamento comunicativo, il cui esito futuro non possiamo ancora registrare ma che nel presente ha smosso di nuovo l’attenzione generando, almeno, una reazione diffusa e visibile.
A Bergamo un’associazione centenaria che si occupa delle tradizioni e del dialetto locale, mettendo in scena ogni anno “il rogo della vecchia”, quest’anno ha deciso di bruciare anche il patriarcato insieme alla vecchia, che in realtà è la tarda personificazione femminile del rito antico di bruciare la vecchia stagione (con tutti gli arbusti secchi dell’inverno) preparando i campi ai germogli della primavera, stagione della rinascita.
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Lidia Menapace, nata oggi 100 anni fa

Sono convinta che una nuova strumentazione politica teorica possa muovere non da cattedre, bensì da tavole, non da scranni, bensì da incontri conviviali (il convito, il convivio, il simposio sono nella storia dell’umana civiltà immagini della costruzione e diffusione della cultura). Inoltre bisogna rendersi conto che un mondo alfabetizzato e condotto in molte sue aree a una scolarizzazione generale prolungata, propone altre forme per acquisire e trasmettere la conoscenza, almeno molto più democratiche e che collocano la ricerca dei livelli di eccellenza su una base molto ampia di fruizione: bambine, ragazze, donne sono passate al top nella scuola, nel successo scolastico a motivo dell’allargamento massimo degli accessi, non da un astratto ed escludente “merito”. Per continuare con i simboli del convito, era necessario che non rimanessero ai margini a servire a tavola, bensì che accedessero al self-service in condizioni di parità. E l’integrazione delle donne nella cultura politica sociale e civile non vogliamo che sia una mera annessione e assimilazione: deve trovare forme di espressione molteplice, che assumano anche il simbolico della vita delle donne. Eppure si sente parlare di cantieri di idee, mai di tavole o cucine o sartorie.”[1]
Per ricordare la nascita, il 3 aprile 1924, cento anni fa, trascrivo una tra le tante acute e lungimiranti riflessioni politiche di Lidia Menapace, partigiana sempre perché “sono ex prof, ex tante altre cose ma non ex partigiana: perché essere partigiane e partigiani è una scelta di vita”[2], femminista nelle scelte di vita prima ancora che questo termine tornasse in circolazione negli anni ’70, pacifista nonviolenta, difensora della laicità, comunista non allineata e coerente, nelle riflessioni teoriche come nelle opzioni politiche, basti ricordare che dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 scrisse un articolo dal titolo: Il nuovo nome del comunismo è disarmo.
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Un inestinguibile credito di pace. Appunti per il presente (maggio 2022)

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
Il conflitto esiste nel mondo delle relazioni sociali e politiche in cui la democrazia ci colloca, o dovrebbe collocarci, come umanità con pari diritti prescindendo dall’eredità e dai vincoli famigliari.
La democrazia è un sistema di gestione dei conflitti, un possibile percorso, ancora accidentato, dall’iniquità dei sistemi classisti colonizzatori ai processi di convenzioni per comune convenienza nell’equa distribuzione di risorse, opportunità e visioni del bene comune.
L’approvvigionamento delle risorse materiali e immateriali alimenta continui conflitti a vari livelli della nostra vita.
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Lucy e le cugine

Forse il prossimo passo evolutivo della specie sarà la riduzione della comunicazione verbale, sia scritta che parlata a favore delle immagini che probabilmente il cervello proietterà direttamente con una capacità di controllo dei contenuti oggi inimmaginabile.
Quello che sto facendo perciò potrebbe essere un insieme di gesti in via d’estinzione. Già si sta estinguendo la scrittura manuale, che esprimeva le singole personalità nel divenire storico delle vite.
Intanto non posso fare a meno di scrivere perché un surplus di pensieri mi costringe a trovare un ordine e una lentezza che mi depositi nel tempo giornaliero depurata dalle urgenze.
Scrivo a computer perché voglio essere letta? Partecipo anch’io quindi alla gara per l’esistenza simbolica, per incidere con le mie parole sulla riproduzione culturale della specie? Questa gara l’ho già persa anni fa, come se avessi pensato di presentarmi alla maratona senza scarpe adatte, sbagliando ingresso per il cartellino, dimenticando di iscrivermi, perfino sbagliando percorso fino a ritrovarmi sola in un punto anonimo di una città sconosciuta.
Ma in quella città metaforica posso girare senza meta, senza obiettivi, senza prescrizioni, sapendo che non sono sola.
Mi tiene compagnia il sentimento di tenerezza per Lucy, australopiteca, di cui il correttore automatico (sessista ignorante) non riconosce il femminile, incontrata nell’ologramma tridimensionale proiettato in una mostra a tema preistoria a Venezia. Che anno era? Gita scolastica con una classe di prima superiore, quindi 1985? Al massimo 1987, poi sono passata al triennio e la preistoria non era in programma.
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Le donne della Resistenza, la resistenza delle donne

LE DONNE DELLA RESISTENZA, LA RESISTENZA DELLE DONNE
In Studi e ricerche di storia contemporanea n. 100

LE DONNE DELLA RESISTENZA, LA RESISTENZA DELLE DONNE

  1. Testi e contesti per capire l’8 settembre

Ogni settimana ascolto una trasmissione di Rai Radio 3 che trovo interessante. Ogni volta però mi sembra pazzesco che si intitoli ancora Uomini e profeti.

Vengono invitate a parlare anche donne, ovviamente, e i conduttori cercano di dire “uomini e donne”, ma il titolo di una trasmissione, in cui si esprimono prevalentemente persone colte e non violente, resta lì a segnalare una violenza simbolica che non viene percepita come tale e resta a segnare la persistenza del potere maschile e patriarcale sulla lingua, la storia e, di conseguenza, sull’immaginario. Immaginario degli uomini e anche delle donne, che seguono gli stessi percorsi di studi, approfondiscono gli stessi autori e qualche rara autrice, pensano e si pensano attraverso la stessa sintassi, le stesse metafore, le medesime storie, collocandosi poi necessariamente e perfino involontariamente in un posizionamento sociale più determinato di quanto magari vorrebbero.

Le profete, termine che il correttore automatico mi segnala come errore, sono molte e spesso citate nella trasmissione ma restano invisibili nell’impianto che rafforza il maschile in ben due sostantivi: “uomini” cancella la presenza delle donne, che pure ci sono nella trasmissione (anche se non quanto i maschi) e “profeti”, che rende invisibili o eccezionali (ed occasionali) le profete, appunto. Evito la parola “profetesse”, che non è mai entrata nell’uso, com’è accaduto invece a professoresse diventate familiarmente prof., perché il suffisso conserva il sapore dispregiativo di un allungamento pesante, di un’aggiunta tollerata.

Suggerisco: Donne Uomini e profezie, titolo che toglierebbe ai profeti la monumentalità, rifuggita del resto da molti, e restituirebbe visibilità a un modo di profetare, quello femminile appunto, che ha segnato la storia e le vite e di cui è stata a lungo interdetta la memoria.

Cosa c’entra con le donne della Resistenza? Il meccanismo (o dispositivo direbbe Bourdieu[1]) è lo stesso: le donne esistono, ma vengono rese invisibili come genere (cioè stabilmente più della metà della popolazione del territorio) e cancellate quando esprimono una dimensione collettiva che al massimo viene registrata come imprevista. L’organizzazione politica poi viene di solito ignorata, sottovalutata o annotata in forma ancillare, come nel caso dell’Udi e, proprio nella Resistenza, dei Gdd.[2]

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Attualità di Rosa Luxemburg 2023

Naturalmente femminista? Attualità di Rosa Luxemburg
In AAVV (a cura di Claudio Olivieri), Rosa Luxemburg oggi, Prospettiva Edizioni, 2023

Nel percorso etimologico della parola attualità c’è l’azione, l’agire.
Una parola che s’addice a Rosa, sempre in azione dentro il suo tempo, presente alla sofferenza del mondo come alla bellezza, alla ricerca incessante delle spiegazioni di quei dispositivi feroci che inchiodano vite a un destino avverso e attenta alla possibilità incessante degli esseri umani di spostare l’atteso all’inatteso, di agire, appunto, quel frammento di libertà che nella sintonia coltivata e inaspettata di moltitudini, muta l’orizzonte.
Forse dovremmo chiederci quanto lei, Rosa, ci consideri attuali, noi di “sinistra” ovviamente. Capovolgere la domanda e attraversare l’esegesi dei suoi testi come se lei ci chiedesse conto del nostro agire.
Ci sono vite concluse che ci interrogano ancora.
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La famiglia stucchevole: divagazioni semiserie nell’afa estiva

Sono convinta che se venissero azzerati i diritti ereditari (cioè il passaggio familista dei capitali, delle opportunità, dei privilegi) e si perseguitasse, anche penalmente, la fruizione gratuita o sottopagata dei servizi domestici delle donne (e di chiunque), la famiglia che conosciamo, in tutte le sue forme parentali stratificate per età, si dissolverebbe, con enormi ricadute sull’economia, la definizione del valore dei beni e delle relazioni ecc. ecc. a ricasco.
Non so se accadrà, certo non nel futuro prossimo, ma non si sa mai.
Intanto mi piacerebbe venisse perseguita, almeno dal punto di vista della riprovazione collettiva, la famiglia stucchevole.
Il termine, che deriva dallo stucco, non si riferisce più solo ai buchi nel muro da chiudere, ma prima di tutto a un gusto che diventa immediatamente disgusto, nauseante per eccesso di dolcezza o densità (qualcosa che tappa un buco fino a provocarne il vomito?).
In questo tipo di famiglia tutti i bambini si chiamano “amore” in ogni circostanza, risolvendo forse così la fatica di distinguerli in maschi e femmine e di ricordare il nome proprio. La distinzione viene poi affidata, spesso rigorosamente, anche se non da tutti i genitori, all’abbigliamento, ai comportamenti, ai giochi.
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25 aprile 2023

Il mio 25 aprile quest’anno è cominciato giovedì 20 a Milano, alla biblioteca Valvassori Peroni, dove donne e uomini, nonostante una pioggia torrenziale, sono venuti ad ascoltare la storia di Lidia Menapace ricordata da me e dalla nipote, Marta Brisca, con le lettrici di EquiVoci, attraverso il libro della Fondazione Serughetti La Porta, intitolato con le sue parole: Non manchiamo il nostro tempo”.
Ed essere presenti al nostro tempo è certamente il sentimento che ha portato molte donne e uomini ieri sera, venerdì 21, all’iniziativa organizzata dall’ANPI di Mapello, dove ho raccontato la Resistenza delle donne (che sostiene sollecita e per molti versi genera anche quella degli uomini) a un pubblico generoso di domande intelligenti, profonde, attuali.
Alle donne e uomini incontrati e che incontrerò, perché il mio 25 aprile si concluderà a Badia Polesine venerdì 28 con le amiche e gli amici del Centro di Documentazione Polesano, che frequento da almeno quindici anni, dedico queste parole del 2020.
Scritte nella segregazione dovuta al Covid, quando abbiamo cantato e fatto risuonare le note di Bella ciao dai balconi e dai cortili senza poterci incontrare, possono risuonare oggi per ricordarci che i grandi cambiamenti crescono a lungo come semi nel buio della terra e nel quotidiano silenzioso delle case, per sbocciare in una primavera imprevista con l’energia di generazioni nuove, che non sono solo appartenenza anagrafiche ad un’età giovane ma, soprattutto, l’insopprimibile desiderio di rigenerazione della libertà che continua a muovere ogni vita misteriosamente nella solida solidarietà degli incontri e delle condivisioni.

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Charlotte Salomon, testimone di vita (2013-2023)

“Vita o teatro?”: la creatività del copione nell’opera di Charlotte Salomon

Rosangela Pesenti*

Riassunto

Charlotte Salomon, attraverso la sua opera, ci ha offerto un’originale esperienza di narrazione del copione ritrovando, nella propria storia, le conclusioni di sopravvivenza che sono diventate una forma di resistenza alle ingiunzioni di morte, consentendole di affermare l’amore per la vita anche contro la tragicità di un destino imposto dagli eventi storici.

Abstract

Through her story, Charlotte Salomon has offered us an original narration experience of the script. She has found in her own life story the necessary conclusions in order to survive, which have become a form of resistance to death enjoinments, allowing her to affirm her love for life against the tragical destiny imposed by history.

Scrive Fanita English:

            Precocemente, in generale fra i tre e i sette anni, gli individui elaborano un copione (script) che in qualche modo diventerà la mappa della loro vita, regolando lo strutturarsi del tempo, il tipo di rapporti che allacceranno, i sentimenti nei propri confronti e verso l’ambiente. Il copione è         infatti come un calco, una guida che determina il corso dell’esistenza, le crisi e le decisioni        future (English, 1998).

Parto da questa citazione, nota in ambito analitico transazionale, perché la correzione di Fanita alla straordinaria intuizione di Berne fa del copione uno strumento concettuale di grande utilità, e non solo in ambito terapeutico, perché la narrazione di sé è parte dell’incessante attività della vita e la consapevolezza delle tracce profonde che la guidano diventa apertura alla visione di nuove opzioni per il futuro.

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