Attualità di Rosa Luxemburg 2023

Naturalmente femminista? Attualità di Rosa Luxemburg
In AAVV (a cura di Claudio Olivieri), Rosa Luxemburg oggi, Prospettiva Edizioni, 2023

Nel percorso etimologico della parola attualità c’è l’azione, l’agire.
Una parola che s’addice a Rosa, sempre in azione dentro il suo tempo, presente alla sofferenza del mondo come alla bellezza, alla ricerca incessante delle spiegazioni di quei dispositivi feroci che inchiodano vite a un destino avverso e attenta alla possibilità incessante degli esseri umani di spostare l’atteso all’inatteso, di agire, appunto, quel frammento di libertà che nella sintonia coltivata e inaspettata di moltitudini, muta l’orizzonte.
Forse dovremmo chiederci quanto lei, Rosa, ci consideri attuali, noi di “sinistra” ovviamente. Capovolgere la domanda e attraversare l’esegesi dei suoi testi come se lei ci chiedesse conto del nostro agire.
Ci sono vite concluse che ci interrogano ancora.
Per me era attuale al mio tempo quando l’ho incontrata nel 1975, con il volume degli Scritti scelti a cura di Luciano Amodio. Finivo il terzo anno di filosofia all’università statale di Milano mentre la contestazione si divideva in mille rivoli, gli anni si facevano di piombo e le donne diventavano protagoniste del cambiamento. Noi donne che smettevamo di sentirci ragazze e invece poi ragazze lo saremmo state per tutta la vita. Avrei scoperto subito dopo, nell’Unione Donne Italiane, le ragazze partigiane che avevano l’età di mia madre e sapevano guardare al futuro con uno sguardo più lungimirante del mio perché conoscevano il passato. Ma questa è un’altra storia.
Se penso all’emergere della mia coscienza femminista in quegli anni, alla progressiva, e lenta, capacità di dare nome alle scelte che andavo facendo quasi d’istinto, trovo due libri fondamentali e indimenticabili, gli scritti di Rosa Luxemburg e La condizione operaia di Simone Weil.
Mi aiutarono a partire da me, dalla condizione del mio corpo pendolare come studente perennemente dislocata tra due realtà che parlavano lingue diverse. Mi aiutarono a capire dove volevo andare perché non basta dichiarare la partenza, poi si cammina.
Non mi sono mai più allontanata dagli scritti di queste due donne che non mi offrivano solo riflessioni rigorose ma il respiro stesso del loro esistere.
Se il femminismo è stato un modo di esistere nel mondo, di essere presente al mondo, non c’è contraddizione nel fatto che sia stata Rosa la donna che mi ha ispirata al di là di ogni etichetta o spilletta esibita e il ritratto intimo di Ritanna Armeni[1] conferma indirettamente quel mio sentire incolto, senza le paratie delle distinzioni che servono forse a canalizzare il sapere, a dichiarare le posizioni, ma possono anche chiuderne lo scorrere vitale e imprevisto.
Rosa Luxemburg era per me naturalmente femminista perché non pensavo che una donna dovesse occuparsi di donne: rivendicavo il diritto delle donne ad occuparsi di tutto, esattamente come aveva fatto lei. E occuparsi di tutto non può mai prescindere dall’esistenza delle donne che dal ‘tutto’ sono state cancellate con arroganza nei confronti del pensiero e violenza istituzionale, e fisica, sulle vite.
Lo pensavano probabilmente anche le donne di cui Rosa scrive a Clara Zetkin il 9 marzo 1916:
[…] Sicuramente avrai già saputo in quale maniera mi hanno accolta le compagne berlinesi. All’uscita sono venute a prender­mi in più di mille, e poi in massa sono giunte a casa mia, nel­l’appartamento, per stringermi la mano. Il mio appartamento era ed è ancora pieno dei loro regali: vasi di fiori, torte, dolci, barat­toli di conserva, sacchetti di tè, sapone, cacao, sardine, verdure ricercatissime – come in una raffinata drogheria -, tutto ciò que­ste povere donne, donne di cuore, l’hanno preparato loro stesse, l’hanno confezionato loro stesse, l’hanno portato loro stesse. Sai bene come tutto questo mi fa sentire. Mi metterei a piangere per l’imbarazzo, ma l’unica cosa che mi consola è il pensiero che, in questo caso, io non son altro che l’asta alla quale hanno lega­to la bandiera del proprio entusiasmo in generale per la lotta. In seguito a Mariendorf c’è stata l’accoglienza nel corso della sera­ta di lettura; sul tavolo ancora un enorme mazzo di fiori – e quei visi, quegli occhi seri e luminosi! Nel vedere quelle donne ti si sarebbe riempito il cuore di gioia. Il presidente mi ha salutato dichiarando che la manifestazione del 18 era stata del tutto spontanea, organizzata su iniziativa delle donne di Berlino per salutare colei «che ci è mancata perché dice senza mezzi termi­ni il fatto loro agli stessi dirigenti del partito, perché lei è la donna che, nelle alte sfere del partito, si preferisce vedere entra­re in prigione che uscirne […]».
Nel suo occuparsi di tutto a Rosa non viene in mente nemmeno lontanamente di prendere a modello gli uomini: lei è serenamente gioiosamente e consapevolmente sé stessa e questo ci basta.
Anzi è quello che la condanna e resta come ricchezza inesauribile per molte generazioni a venire.
La ferocia con cui si accaniscono su di lei, prima con la calunnia, poi uccidendola, con il disprezzo e la violenta dispersione del corpo e infine con la cancellazione della memoria, riguarda anche il suo essere donna: la fondazione e guida di un partito accanto e alla pari con un uomo in un rapporto di visibile differenza e praticata eguaglianza erano intollerabili dal punto di vista antropologico prima ancora che politico.
Quello straordinario esperimento non si è ancora ripetuto e ancora ci interroga e ci chiama in causa nella costruzione di una soggettività politica che sia ad un tempo molteplice nell’espressione e unita nelle mete. Lei rendeva visibile la differenza, fisicamente storica, noi ci barcameniamo ancora con sperimentazioni imitative e soggettività senza storia, nella politica ovviamente.
Non siamo andate oltre un separatismo femminista scivolato nell’esaltazione di un’eccellenza femminile che coincide con le carriere e luoghi politici a guida maschile in cui le donne risultano ancillari anche quando non sono per niente ancelle.
Il più grande territorio di conquista è l’immaginario, dentro il quale si costruiscono i canoni della nuova alienazione nelle narrazioni compatte e prevalentemente astoriche.
Il blob della comunicazione mediatica, esaltante e mortificante insieme, è bucato solo se un grido collettivo e rivoluzionario come “Donna, vita, libertà” genera morte infrangendosi contro un potere patriarcale irriducibile.
Rosa è attuale con i suoi giudizi sferzanti sulla posizione sociale delle donne borghesi che non teme di mitigare invitando l’amica[2] ad evitare il moralismo nei confronti di altre esistenze femminili.
Rigore e compassione, affermazioni e scelte precise con il senso del limite di fronte al possibile e conoscibile.
Forse per qualcuno Rosa sembra ormai lontana, inattuale, e del resto tra lei e la parola attuale si apre la crepa attraverso la quale è stata violentemente espulsa, ferocemente cancellata, proprio dall’attualità a cui apparteneva. In quella crepa cadranno gli anni a venire che arrivano a noi con un carico di morte e distruzione senza riscatto.
Sottratta al suo tempo dagli assassini che hanno poi cercato di cancellarne la memoria torna protagonista del pensiero più e più volte grazie all’affetto, un tempo di chi la conosceva, e poi di chi incontrandola non poteva restare emotivamente indifferente alla forza rigorosa e argomentata delle sue parole, da Hanna Arendt[3] a Rina Gagliardi[4], per citarne solo due di una moltitudine studiosa purtroppo oggi poco popolare.
Mi riferisco all’emozione perché so come e quanto le sue parole smuovano il pensiero e ancora arrivino a noi con la straordinaria limpidezza che proiettiamo inevitabilmente sulla sua figura.
Avverto la stessa emozione anche nei commenti e nelle spiegazioni degli economisti, come un filo invisibile e potente sotteso alla scrittura rigorosa quando affrontano i nodi che Rosa ha portato alla luce con la straordinaria capacità di studiare Marx leggendolo come pensiero vivo nel suo tempo senza accondiscendere a pratiche devozionali, che non potrebbe tollerare oggi da noi nei suoi confronti.
Ricordo che Rita Levi Montalcini la segnala come economista tra le donne geniali che indica alle e ai giovani nel libro intitolato in modo significativo “Le tue antenate” (2008), da Ipazia a Vandana Shiva.
Indicando nel colonialismo lo sbocco dello sfruttamento da parte del capitale, Rosa apre una pista di ricerca che ancora non è chiusa. Sulle sue orme ci interroghiamo sulle nuove frontiere di conquista del capitale che, assoggettando lo spazio della comunicazione con i nuovi media e quella dei corpi con le pratiche riassunte nella biopolitica, trasforma direttamente lo sfruttamento in distruzione e il paradigma del profitto in pratiche di autodistruzione umana: l’alienazione trasferita dai luoghi di lavoro al centro della vita.
Fondamentale l’acceleratore del militarismo che è sempre produzione di armi e conservazione di guerre e per questo l’antimilitarismo nel pensiero di Rosa è una riflessione cruciale per noi, perché il militare rappresenta sempre la connessione tra gli oggetti (armi e armamenti) della produzione industriale, a cui vengono asservite scienza e tecnologia, grazie alla forma stessa della produzione, e la sua organizzazione, che ha bisogno per esistere di estendere la stessa forma a tutta la società, di cancellare il molteplice a favore dell’uniforme, ridurre la democrazia a favore dell’oligarchia.
Pensando a Rosa e alle sue lettere contro la guerra Lidia Menapace molti anni fa cominciò a proporre la dismissione delle metafore belliche nel linguaggio quotidiano e politico.
Non è stato innocente l’uso delle metafore militari per raccontare la pandemia con tutto il portato della retorica bellicista sull’eroismo per nascondere il fallimento dell’organizzazione aziendale della sanità e della scuola e mantenere intatte tutte le forme di sfruttamento del lavoro e la subalternità di lavoratrici e lavoratori.
Il martellante linguaggio militare ci ha immessi in pochi mesi nella normalità della guerra senza soluzione di continuità, con governi impermeabili al sentire della popolazione e una strisciante assuefazione ai sentimenti che generano inettitudine, anche attraverso i dispositivi di emarginazione delle tante esperienze di movimento in direzione contraria.
Torno a leggere Rosa, che tengo sempre a portata di mano, certe sere in cui sento che potrebbe prevalere lo scoraggiamento e la tentazione di cedere alla corrente: mi riporta al presente, ad esistere in ascolto, a mantenere lo sguardo lucido, a stare dentro la storia, qualunque sia quella che arriva alla porta del mio mondo minuscolo.
Se ripenso alla solitudine affollata di quegli anni Settanta in cui muovevo a tentoni l’energia della giovinezza e alla mia condizione presente, resta inalterata la presenza di Rosa che, oggi come allora, sento maestra e amica.    
Le lettere di Rosa che mostrano, insieme alla pienezza della vita e al caleidoscopio degli interessi, lo straordinario talento letterario, riconosciuto solo tardivamente alle donne autrici di epistolari, sono arrivate con le pubblicazioni successive a nutrire la mia fame di sapere e fanno di lei una compagna di vita.
Le sue parole mi accompagnano sempre: “Per quanto mi ripeta che è ridicolo, che non sono responsabile per tutte le allodole del mondo né tanto meno posso scoppiare in lacrime per ogni bufalo picchiato che entra qui ogni giorno sovraccarico di sacchi, non serve a niente e sto male tutte le volte che sento o vedo cose del genere. […]
Così dalla mia cella sono legata con fili sottili a mille creature grandi e piccole e reagisco a tutto con inquietudine, dolore, sensi di colpa … anche lei fa parte delle creature per le quali vibro intimamente da lontano. Sento che lei soffre per gli anni perduti per sempre senza aver “vissuto”.
Ma pazienza e coraggio! C’è ancora molto da vivere e tanto di grande da affrontare. Stiamo assistendo all’affondare del vecchio mondo, ogni giorno ne scompare un altro pezzo, non smette mai, è un crollo gigantesco … E la cosa più strana è che la maggior parte delle persone non se ne accorge affatto ed è convinta di continuare a camminare sulla terraferma. […]”[5]
Quando ancora la scienza pensa il cosmo come una macchina e i mutamenti come effetti della crescente meccanizzazione, Rosa pensa sé stessa dentro un universo interconnesso, olistico, interdipendente, creativo, vivente. In lei ragione e sentimento sono la continua vibrazione dell’intelligenza, per questo il calabrone o il bufalo trovano posto accanto ai compagni e alle amiche con cui intrattiene dialoghi, discussioni, con cui progetta azioni perché vive intensamente le condizioni del presente consapevole di essere parte del vivente dai confini inesplorati.
Scrive a Mathilde Jacob, alla quale ha affidato l’amata gatta Mimì mentre è in carcere:
“Per distrarmi leggo la storia geologica della Germania. Pensate un po’, nelle placche d’argilla del periodo algonchiano, cioè l’epoca più antica della storia del globo, quando non esisteva ancora la minima traccia di vita organica, quindi milioni e milioni di anni fa, si sono trovati in Svezia, in una di queste placche di argilla i segni delle gocce di un breve acquazzone! Non vi potete immaginare quale effetto magico ha prodotto in me questo buongiorno venuto da epoche lontane. Non leggo nient’altro con altrettanto interesse appassionato come i libri di geologia.”[6]
In questo senso avverte anche l’inesauribile possibilità dell’accadere storico come movimento di coscienze di masse che non sono materia inerte assoggettabile al dominio, ma molteplice multiforme soggettività che può muoversi all’unisono, se le stesse parole risuonano dando significato alle singole vite.
Anche nei rigorosi percorsi delle riflessioni economiche, nelle precise analisi politiche del suo tempo noi avvertiamo la tensione che supera la divisione tra mente e materia: essere interamente dentro la storia dei suoi anni e intimamente nella grande storia dell’universo che intuisce come mistero dell’esistere.
Le sue parole mi accompagnano e non saprei dire meglio il sentimento che provo, in un tempo e in una condizione così lontani, quando mi guardo intorno nel paesaggio di questo angolo di pianura padana desertificata dal succedersi delle fasi capitaliste, dalla monocultura agricola alla fine degli insediamenti industriali, dalla mutazione del paesaggio indotta dal profitto agli insediamenti della logistica, con le nuove popolazioni sfruttate e l’abbandono abitativo da parte dei nuovi ricchi che, come i grandi proprietari terrieri dell’Ottocento, vivono nell’altrove (talvolta più immaginario che reale) centralità che rinnovano marginalità di ogni tipo.
La tristezza del benessere senza coscienza che genera barbarie mi riporta sempre al celebre dilemma e mi auguro che semi di socialismo stiano già vivendo accanto a noi, nelle generazioni sconosciute, magari portate, come i semi, da un vento che arriva da lontano.
Oggi la parola socialismo è desueta e torna la beneficenza a favore dei poveri, tornano le parole della borghesia benevolente (e benestante) ottocentesca che rifugge dal rigore dell’analisi economica come dalla proprietà linguistica delle definizioni.
Anche la parola ‘rivoluzione’ è diventata obsoleta per quanto sia, proprio nel significato originario, un moto impercettibile e inesorabile che ci trascina, in cui possiamo essere agenti solo nella consapevolezza di come e quanto possiamo essere “agiti”.
Torno alle sue opere, che non riesco più a rileggere intere come nel tempo affamato e libero della giovinezza, perché resta una pietra miliare il suo testo sull’accumulazione del capitale, questione che, per quando camuffata, continua ad essere centrale nel posizionamento politico e mi faccio accompagnare dai suoi pensieri quando preparo gli interventi di formazione sulle matrici culturali e le radici storiche della violenza maschile sulle donne, sulla trasmissione dei dispositivi del dominio patriarcale in forme subdole e rinnovate o sui “vuoti di memoria”.
La sua vita è un’ispirazione perché allargando l’orizzonte del passato ci accompagna nel cammino verso un futuro sotto il segno della responsabilità che sa fare i conti con ogni paura.
Mi auguro che siano conosciuti gli autori e le autrici che hanno approfondito i suoi scritti pubblici di politica ed economia e sono certa che ce ne saranno in futuro, ma nella sua opera complessiva le lettere sono la parte che ci ha consentito di conoscere le sfaccettature della sua personalità, il suo modo di esistere pensando all’immensità dell’inesplorato senza sottrarsi alla vita concreta nello spazio angusto di una cella, polemizzando con i compagni, amando amiche e amici.
La civiltà epistolare, a cui appartengono anche le lettere di Rosa, sembra finita, cancellata non solo dalla velocità dei mezzi che inducono alla riduzione dei messaggi, ma anche alla nuova antropologia dell’esibizione in cui l’intimità dei sentimenti sembra poter esistere solo nell’esibizione pubblica e non chiede risposte personali ma l’acritica adesione dei like.
Eppure, proprio le lettere, che sono una forma del tutto inattuale, rendono Rosa del tutto attuale.
Sappiamo che l’aumento della scolarizzazione non ha significato un aumento dell’alfabetizzazione, cioè della capacità di ampliare la conoscenza del reale usando tutte le arti e gli strumenti della comunicazione e il capitalismo, nella forma neoliberista, costringe la comunicazione stessa alla catena di montaggio dell’esibizione: i social, che pure ampliano il mondo per chi è confinata nelle tante marginalità oppressive dei regimi autoritari come delle povertà, induce a vivere anche i sentimenti più privati nello spazio astratto e astorico di narrazioni immaginarie.
Le lettere di Rosa hanno la chiarezza e l’autenticità dei rapporti umani in cui sono state espresse proprio perché non erano destinate al pubblico ma a una persona amata e stimata, erano parte di una vita vera e non recitata, di un interesse autentico e non funzionale ad altro.
Molti studiosi e studiose ricominceranno dal suo pensiero e mi auguro che la sua storia sia conosciuta da nuove generazioni politiche, non come icona pop ma come ispiratrice.
Sarebbe bello se molte ragazze e ragazzi, che denunciano l’inerzia dei potenti nel contrastare il cambiamento climatico, a cominciare da chi si autodefinisce Ultima generazione, incollassero le lettere di Rosa come provocazione, rivendicando, insieme a un pianeta liberato dallo sfruttamento che ci porta alla catastrofe, la possibilità di restare umani in ogni relazione riscoprendo l’intimità del crescere insieme accanto alla solidarietà dell’esporsi insieme per fare storia.
Delle tante raccolte di lettere, per le quali sono grata a curatrici e curatori, amo molto quella in formato Pacchetti dell’editrice L’Orma curata da Eusebio Trabucchi: la porto in borsa, da quando ho ripreso a spostarmi, come un distillato energetico a cui ricorro se i pensieri cupi s’addensano e niente di quello che faccio mi sembra di qualche significato (non parliamo di utilità).
Nel librino, in poche lettere, c’è tutta la potenza del pensiero di Rosa come in un distillato, appunto, in cui proprio la forma minima esprime, concentrata, quasi per misteriosa legge fisica, l’intera esistenza, come in tutta l’ampiezza e complessità della sua opera.
Mi porto il librino, e lo diffondo, come un frattale dei tanti volumi che stanno sullo scaffale, vicini a dove scrivo e forse a lei sarebbe piaciuta l’analogia con una geometria ancora sconosciuta al suo tempo e così universalmente presente in natura, nelle coste frastagliate come nei broccoli, scoperta nel cammino di una scienza che non separa l’astrazione delle misure dalla visione e realtà dei corpi e dell’ordinaria varietà del loro formarsi.
Come scriveva lei: “Il tempo in cui viviamo è meraviglioso, e definisco meraviglioso un tempo che pone una gran massa di problemi – di problemi giganteschi -, un tempo che stimola i pensieri, risveglia la critica (…)”[7]a cui aggiungo: “(…) ho imparato che non si devono mai sopravvalutare le azioni e l’influsso del singolo. In ultima istanza sono le invisibili, immense e ctonie forze del profondo ad agire e decidere (…) non mi fraintendere però: non voglio sostenere un comodo ottimismo fatalistico, che nasconde la propria stessa impotenza, atteggiamento che odio proprio nel tuo caro sposo. No, no, sono sempre all’erta e appena se ne presenterà l’occasione voglio buttarmi di nuovo con tutte e dieci le dita sul pianoforte del mondo per farlo risuonare come un tuono (…)”[8]
Mi auguro che molte nonne e nonni, maestre e maestri propongano la biografia romanzata per bambine e bambini scritta da Vanna Cercenà[9] che si legge con piacere a tutte le età (e fa pure rima) e che sia tradotta in italiano la graphic biography di Kate Evans, Red Rosa.[10] (Tra l’altro della stessa autrice troviamo, tradotto nel 2007, Il clima furioso).
A Kate Evans dobbiamo una delle immagini più potenti ed efficaci di Rosa: la testa leggermente china mentre l’esercito di minuscoli soldati si arrampica sulla sua schiena e la guerra esplode i suoi ordigni nella massa vaporosa dei capelli, avvertiamo nel disegno tutta la sofferenza della sua sconfitta, che sarà quella delle generazioni successive e ancora la nostra, ma sentiamo, segnata nell’espressione del suo profilo intenso, che lei non è mai stata vinta ed è questa la sua eredità per noi, che cerchiamo di non essere la massa inconsapevole ignara del mutare del mondo ma con lei sappiamo che “alla fine la Storia bisogna prenderla come lei decide di venire”.[11]

Rosangela Pesenti, 1953, nata in un angolo della pianura Padana, cresciuta nei luoghi dove le donne s’incontrano. Attivista femminista, dell’UDI e molte associazioni, insegnante, formatrice.
www.rosangelapesenti.it 

[1] Ritanna Armeni, Ritratto intimo di Rosa, in Questa volta parliamo di Rosa, Alternative per il socialismo n. 56, Castelvecchi, 2019-2020 p. 61-74
[2] Rosa Luxemburg, Lettere contro la guerra, Prospettiva Edizioni, Roma 2004, p. 70-71
[3] Cfr. Hannah Arendt, Rosa Luxemburg, Mimesis, 2022
[4] Rina Gagliardi, Prefazione a Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Edizioni Alegre, Roma, 2005
[5] Rosa Luxemburg, Lettera a Sophie Liebknecht, Breslavia 12 maggio 1918
[6] Rosa Luxemburg, Lettere d’amore e d’amicizia, Prospettiva Edizioni, Roma 2003, p. 67
[7] Lettera a Emanuel e Mathilde Wurm del 18 luglio 1906 in Luxemburg, Dappertutto è la felicità, a cura di Eusebio Trabucchi, Edizioni L’Orma, Roma, 2019, p. 30
[8] Lettera a Luise Kautsky del 15 aprile 1917 in Luxemburg cit., p. 52
[9] Vanna Cercenà, La Rosa rossa, Edizioni EL, 2004
[10] Kate Evans, Red Rosa, New York Office, 2015
[11] Lettera a Clara Zetkin del 11 gennaio 1919 in Luxemburg cit., p.62