Lidia Menapace, nata oggi 100 anni fa

Sono convinta che una nuova strumentazione politica teorica possa muovere non da cattedre, bensì da tavole, non da scranni, bensì da incontri conviviali (il convito, il convivio, il simposio sono nella storia dell’umana civiltà immagini della costruzione e diffusione della cultura). Inoltre bisogna rendersi conto che un mondo alfabetizzato e condotto in molte sue aree a una scolarizzazione generale prolungata, propone altre forme per acquisire e trasmettere la conoscenza, almeno molto più democratiche e che collocano la ricerca dei livelli di eccellenza su una base molto ampia di fruizione: bambine, ragazze, donne sono passate al top nella scuola, nel successo scolastico a motivo dell’allargamento massimo degli accessi, non da un astratto ed escludente “merito”. Per continuare con i simboli del convito, era necessario che non rimanessero ai margini a servire a tavola, bensì che accedessero al self-service in condizioni di parità. E l’integrazione delle donne nella cultura politica sociale e civile non vogliamo che sia una mera annessione e assimilazione: deve trovare forme di espressione molteplice, che assumano anche il simbolico della vita delle donne. Eppure si sente parlare di cantieri di idee, mai di tavole o cucine o sartorie.”[1]
Per ricordare la nascita, il 3 aprile 1924, cento anni fa, trascrivo una tra le tante acute e lungimiranti riflessioni politiche di Lidia Menapace, partigiana sempre perché “sono ex prof, ex tante altre cose ma non ex partigiana: perché essere partigiane e partigiani è una scelta di vita”[2], femminista nelle scelte di vita prima ancora che questo termine tornasse in circolazione negli anni ’70, pacifista nonviolenta, difensora della laicità, comunista non allineata e coerente, nelle riflessioni teoriche come nelle opzioni politiche, basti ricordare che dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 scrisse un articolo dal titolo: Il nuovo nome del comunismo è disarmo.
Questo e molto altro è stata Lidia Menapace, di cui ricorre oggi il centesimo anniversario della nascita, un’anticipatrice di tutti i temi politici che affrontiamo nel presente, in continuo movimento con la storia nel dialogo concreto con migliaia e migliaia di persone incontrate andando su e giù per l’Italia durante tutta la vita.
Per me è stata maestra nel senso più ampio di questo termine, compagna di lotte e avventure politiche a Bergamo, nell’UDI nazionale e in molti altri luoghi, molto più di un’amica, con cui ho condiviso momenti quotidiani e un dialogo serrato e continuo dal 1987, quando ci siamo incontrare, fino alla fine.
Avevo progetti per il suo centenario, ne ridevamo insieme.
Ora mi occupo del suo archivio privato, affidatomi dagli eredi che, su mio suggerimento, l’hanno poi consegnato con donazione all’ISREC di Bergamo dove, intorno a questo fondo, nascerà l’archivio delle donne del Novecento appena concluso il trasloco dell’istituto nella nuova sede.
Con Elisabetta Ruffini, direttrice dell’ISREC, siamo state a Bolzano, a casa di Lidia, con la nipote Marta Brisca che ci ha accolte, e abbiamo inscatolato le sue carte e tutti i libri che stavano nel suo studio personale.
In questo momento i libri (quasi sessanta scatoloni) sono nella nuova sede in attesa di essere catalogati e sistemati, mentre le carte sono tutte a casa mia e me ne prendo cura in attesa del loro trasloco.
Per ricordare questo giorno rendo pubblica la prima parte di un’intervista che le ho fatto nel 2000.
Si tratta di una lunghissima conversazione che volevamo diventasse la prima parte di un qualche libro. L’ho sbobinata e l’abbiamo perfino riletta insieme una volta, ma frettolosamente e senza che io avessi il tempo di chiederle precisazioni.
Come sempre la passione politica le lasciava (ci lasciava) pochi momenti di sosta e per entrambe era più importante esserci, presenti al nostro tempo, lasciare tracce di memoria viva e condivisa nella fisicità pregnante degli incontri, in presenza come si usa dire dopo il Covid.
Ora riprendo in mano la sua densa e molteplice eredità per farne un deposito generativo, quell’humus capace di alimentare nuove fioriture nelle quali non ha mai smesso di sperare.

INTERVISTA A LIDIA MENAPACE, 4 gennaio 2000
Dal ‘45 al ‘68: l’orizzonte della politica.
Ros: La prima domanda che voglio farti è relativa al periodo subito dopo la Resistenza, cosa accade nella tua vita? Mi interessa questo momento, quando finisce la Resistenza e si va a votare, e tu non avrai votato perché non avevi l’età. Volevo che tu mi raccontassi un po’ questo passaggio dalla clandestinità della Resistenza, questo impegno molto giovanile, fino al periodo in cui sei stata nella Democrazia Cristiana, e all’uscita poi.
Lidia: Subito dopo la Resistenza mi trovo dentro quei luoghi dai quali avevo assunto l’alimento politico, essenzialmente la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) che aveva supportato la Resistenza anche con una preparazione di carattere dottrinale – encicliche sociali dei papi, il tema della persona, lo stato etico – cultura di sfondo facilmente collegabile con la grandi culture della sinistra, più che culture dovremmo chiamarle opzioni di valore, sia per i cattolici che per i comunisti e i socialisti.
Io mi trovavo dentro queste operazioni che prendono il nome di associazioni partigiane oppure Federazione Verde-Azzurra; c’era la divisione fra quelli che erano socialisti e comunisti e quelli che erano di Giustizia e Libertà o delle formazioni cattoliche. Io comincio a essere coinvolta in questi discorsi, se si può o non si può stare con i comunisti, c’è il primo avviarsi dell’esperimento di Rodano che però, in Piemonte, non era con Rodano ma con Felice Balbo.
Io frequento un po’ questo ambiente, però mi sembrano molto aristocratici, intellettualistici, allora sto piuttosto con le attività di carattere sociale: sindacato ecc. Mi trovo quasi spontaneamente sbarcata nella DC perché la contiguità fra le associazioni cattoliche e la DC è totale.
I luoghi dove la Dc ha formato i suoi quadri dirigenti, che poi erano pronti nel ‘45, sono state le associazioni cattoliche, mentre il PCI i suoi li formava in proprio, nell’esilio, nelle carceri, in una maniera molto più dura, devo dire.
La formazione dei dirigenti cattolici avveniva nelle associazioni perché al tempo del contrasto tra fascismo e chiesa, la chiesa per concordato era riuscita a ottenere, unica, di avere proprie associazioni. Tutto l’associazionismo era stato sciolto, tranne quello cattolico che aveva come unico vincolo di non doversi occupare di politica, ma di attività sociale sì, e quindi sotto questo nome passava tutto.
Questa è la ragione per la quale nel ‘45, appena finita la Resistenza, ci sono la FUCI, l’Azione Cattolica, il movimento di liberazione cattolica delle donne e delle ragazze, associazioni che sanno cos’è lo stato democratico, le persone, le elezioni, cioè hanno mediamente un livello di alfabetizzazione, non vorrei dire cultura, politica abbastanza buono, pari a quello dei quadri comunisti e socialisti.
Io vengo subito coinvolta in piccole cose e mi trovo dentro la Dc. Mi mettono in un consiglio di amministrazione di una scuola materna, poiché si dovevano rifare tutte le amministrazioni, che erano fasciste. Io trovo che sia un modo di prosecuzione senza interruzione. Il primo disgusto è che lì, in un consiglio di amministrazione di una scuola materna, invece che esserci la patronessa delle donne fasciste ci siamo noi, o invece che esserci un federale fascista c’è il partigiano, ma tutto continua, c’è una pura sostituzione di nomi e personale.
Questa cosa dura un paio d’anni, non è che ho questa sensazione sin dal primo giorno, maturo un senso di fastidio e di delusione. Questa cosa è generazionale.
Quasi tutta la giovanissima generazione che aveva partecipato alla Resistenza, (dopo qualche storico parlerà di rivoluzione tradita, anche per la Resistenza oltre che per il Risorgimento), ma noi passiamo attraverso questa cosa: avevamo maturato nelle discussioni l’idea si cambiare il mondo, io ricordo questa cosa dei salari uguali per tutti e cose di questo tipo, istruzione gratuita, tutti questi sogni poi confrontati con una realtà, ma questo non ci spaventava perché ne avevamo esperienza, una realtà soprattutto un po’ meschina.
Nel giro di due o tre anni moltissimi di quelli che avevano fatto la Resistenza si distaccano. È la mia prima uscita dalla DC, un’uscita che non ha storia perché non ero nessuno, ma insomma non rinnovo la tessera, mi allontano e penso di dedicarmi ad attività culturali e non politiche.
Ros: Quindi era già il ‘47 circa?
Lidia: Sì. Il ‘48 è l’anno della crisi di questa cosa. Io prima di allora, a parte questa piccola attività di carattere amministrativo, avevo partecipato molto alla scelta istituzionale, quindi avevo fatto la campagna per la Repubblica e per le prime elezioni. Sulla scelta monarchia/repubblica, io mi ero battuta sfrenatamente.
Mi ricordo sempre che gli argomenti erano questi: bisogna votare repubblica perché è una forma più avanzata rispetto alla monarchia, secondo perché i Savoia fanno schifo e specialmente in Piemonte devono prendere una sberla colossale, terzo perché questa è una scelta di pacificazione.
Tutti però dicevano che non era una scelta pacificante, ma io dicevo: “No, perché se vince la monarchia non penserete che noi partigiani che abbiamo cacciato i nazisti e fascisti, non penserete che staremo con le mani in mano, noi ritiriamo fuori tutto quello che abbiamo e cacciamo anche i monarchici”.
Era una cosa di provocazione di tipo resistenziale, ma io mi ricordo queste tattiche nei comizi pubblici, e non ero l’unica. Ricordo Zaccagnini e Dossetti che dicevano la stessa cosa. L’argomento per cui votare Repubblica era una scelta di pacificazione era un cavallo di battaglia di tutta la Resistenza, compresa quella cattolica, e questa è la ragione per cui non erano state riconsegnate le armi. Quando gli alleati avevano detto di riconsegnare le armi, noi si sapeva che gli Inglesi volevano la monarchia, abbiamo detto di no perché può darsi che vengano buone ancora, questo per dire il clima.
Io, comunque, dal ‘48 mi distacco dall’impegno politico di partito, svolgo attività prevalentemente culturale, di dibattito, resto attiva nella FUCI, comincio a fare conferenze, inizio la carriera universitaria come assistente volontaria alla Cattolica e mi occupo marginalmente di attività politica perché ho una gran delusione, un senso di fastidio.
È il mio primo allontanamento da quella che oggi chiamerei “la forma partito”, ma non era allora sul tema della forma partito, era sul restringimento degli orizzonti, un restringimento non pattuito; sembrava che dicessero: “Beh adesso basta, avete saltato la cavallina finché volevate, avete fatto le mattane perché eravate giovani adesso mettiamo la testa a posto, ricominciamo a fare le cose come si devono fare”.
Viene fuori che nel Sindacato fascista c’erano state molte brave persone, che sapevano cos’era la contrattazione, insomma viene riciclato il personale fascista, certo non quello violento, ma insomma senza chiedergli un esame di coscienza, un giudizio. Io questa cosa la sento con molta delusione e amarezza, mi ritiro dall’attività politica e mi dedico a questa attività parapolitica di formazione culturale, dibattito, mi interesso di letteratura, incomincio a studiare la letteratura secondo vari punti di vista, più sociale, meno crociano ecc.
Questa è la mia prima crisi nei confronti della Democrazia Cristiana.
In questo periodo nella DC di Novara sono attivi, oltre ad altri allora più noti, Scalfaro e la signora Musso che si mettono nella parte, diciamo, più conservatrice, più populista della DC. La signora Musso non vuole sentire di correnti, la Dc per lei è un modo per fare del bene e Scalfaro lo trova come punto di riferimento, che pur avendo una corrente piccolissima a Novara, siccome era un notabile di grande rilievo e prestigio, anche per sue vicende personali, era deputato dalla Costituente in qua, diventa importante, e io non mi trovo. Sono molto affezionata alla signora Musso per ragioni affettive. Scalfaro lo conosco bene, ero stata compagna di scuola della futura moglie, ma non mi trovo con questi tipi. Nella DC di Novara la sinistra è molto debole e io mi allontano.
Non saprei portare altri esempi. Mi viene sempre in mente questo della scuola materna, perché lì ho misurato una specie di inaridimento, di riduzione a piccola amministrazione quotidiana. Non lo dico per disprezzo verso le cose amministrative. Quando ci sono gli storici che sostengono che la DC ha rappresentato il massimo di continuismo col fascismo, forse non è soggettivamente vero perché sia Scalfaro che la Musso erano soggettivamente antifascisti, non c’è dubbio che non ne volevano sapere del fascismo, però c’è invece una continuità profonda di questo populismo moderato, modi di fare che sono in continuità.
La DC comincia a diventare, allora non mi era così chiaro, quella che costruisce le possibilità di una continuità dello Stato. Che non ci sia stata un’interruzione violenta dello Stato secondo me è bene, se no finiva come in Grecia, e si deve anche all’abilità e duttilità di Togliatti se è avvenuto il passaggio da monarchia a repubblica e il periodo della Costituente senza scontri violenti e senza bisogno di prendere le armi. Però questo aspetto si è collegato con una progressiva riduzione di tutti gli orizzonti a mio parere.
Nella Carta costituzionale questo non si vede perché lì è risultato il meglio della riflessione politica alta e quindi anche le mediazioni sono alte nella Costituzione, ma nella vita politica di tutti i giorni cominciava questa cosa dell’emarginare i comunisti e i socialisti e invece avere un riguardo favorevole per gli industriali che avevano collaborato con la Repubblica di Salò, che però non avevano fatto niente di male, anzi, come Ciano, avevano magari anche salvato qualche ebreo tenendoli nella villa al lago; quindi c’è questa mescolanza di perbenismo, beneficenza, compassione, gli elementi del moderatismo che erano forti nel Fascismo quotidiano, non quello di Mussolini o delle sue avventure, ma nel fascismo come stile di vita: dare un posto di lavoro, creare fondazioni di beneficenza (mescolanza fra parrocchie e partito fascista); ecco questa roba continua e diventa più organica, una collaborazione stretta fra parrocchie e sezioni della DC, parrocchie e posti di lavoro.
Ros: E dopo, quando rientri nella DC?
Lidia: Mi trasferisco a Bolzano nel ‘51, sposandomi, e lì succedono cose curiose. Sul posto l’unico partito che è favorevole all’autonomia è la DC, per via di De Gasperi, per via dell’influenza trentina, non di suo, è una cosa abbastanza imposta. Invece le sinistre sono per lo stato unitario e hanno molto sospetto delle autonomie. Io invece, che sono molto favorevole alle autonomie, trovo che l’unico spazio politico sia quello. Resto a Bolzano qualche anno, facendo la solita attività culturale poi mi chiedono, visto quello che dico nel cineforum, di fare la consigliera comunale per la DC di Bolzano. Io dico che non sono democristiana e dicono che non importa. Nel consiglio di partito non sono così netti data la particolarità della zona.
Allora io faccio la consigliera comunale e questo segna il mio rientro. Però questo rientro, siccome la DC di Bolzano è ancora più di destra sostanzialmente di quella di Novara, penso di non dover rifare l’errore di mantenermi legata a questi piccoli orizzonti e quindi prendo contatto con le correnti della sinistra democristiana, cioè con la corrente di base che a Milano aveva un insediamento significativo con Marcora, con il senatore di Bergamo. Insomma, con la sinistra democristiana che a Bergamo aveva avuto una serie di episodi particolarmente significativi perché dentro questo piccolo laboratorio c’era Magri, il notaio Leidi. Tutto un gruppo di giovani cattolici che avevano avuto molta simpatia verso il Pci, poi si erano staccati Magri e quest’altro erano andati nel PCI e quelli rimasti erano sempre stati sospettati di queste commistioni o tentazioni, e quindi avevano avuto grande difficoltà a far carriera, sia Marcora che gli altri.
Io diciamo, ero un’ideologa di questa corrente di base, scrivevo molto sul settimanale Stato Democratico, ero vicina anche al gruppo fiorentino con il giornale Politica e poi c’era un gruppo a Venezia e poi c’era il gruppo meridionale di Avellino con De Mita. Questi erano i punti di forza della sinistra democristiana.
Questa sinistra democristiana aveva dei punti forti che erano: Stato democratico, antifascismo militante, programmazione economica – il tema della programmazione era molto sentito – pianificazione urbanistica e quindi forte presenza dello Stato nell’economia e nella realizzazione della vita sociale, ovviamente erano favorevoli alla formazione scolastica e alla media unica. Io vi entro e divento un personaggio un po’ marginale e non oscuro del tutto.
Vengo anche presa dal movimento femminile della Dc in cui critico come altre la marginalità, ma allo stesso tempo uso le possibilità e le risorse e divento una a cui viene richiesta molta partecipazione ai corsi di formazione che si tengono a Roma alla Camilluccia, equivalente delle Frattocchie [del PCI], la scuola di partito democristiana.
C’erano dei corsi molto seri e io ero una di quelle che venivano chiamate a fare questi corsi alle ragazze, per lo più per le donne democristiane.
Qui conosco la Conci e la madre di Rosa Russo Jervolino[3], e vedo il conflitto fra le due. La Jervolino era una che diceva che bisognava parlare di emancipazione, invece la Conci no, la Conci parlava di pari dignità perché siamo figli di Dio, sorelle e fratelli, una posizione schiettamente religiosa, aveva anche fondato una congregazione di cui facevano parte Tina Anselmi e altre, una specie di congregazione di suore laiche in qualche misura. La Jervolino invece si era sposata, aveva grinta, devo dire che era molto antipatica a differenza delle altre che erano più sacrificali, lei era una donna più polemica e si è battuta invano per ottenere che il movimento femminile si collocasse almeno sul terreno dell’emancipazione: la parità non c’è e non dobbiamo avere paura di prendere questa parola che in fondo nel movimento cattolico c’era.
Lei non ha avuto mai grande fortuna, è diventata sì deputata, ma perché era una donna di potere e suo marito un dignitario della DC napoletana, ma non ha mai avuto influenza, mentre il movimento della Dc era stato molto segnato dalla presenza di Conci, Maria Eletta Martini, Tina Anselmi, Franca Falcucci; la Conci aveva queste come figlie spirituali, viene molto segnato da questa funzione un po’ sacrificale, marginale, ancillare, sempre pronte a fare un passo indietro dicendo di non avere correnti, di essere donne e quindi occuparsi prevalentemente di cose materne, asili nido, mezzo tempo, rapporto fra famiglia e lavoro, essenzialmente questo tipo di politica un po’ relegata.
Io ci sto con un certo fastidio però, facendo parte del gruppo che spinge e provoca, ho anche una funzione. Ho anche delle amicizie, con Tina Anselmi, affetti, era un ambiente con le sue cattiverie, ma anche con delle possibilità di incontri nobili, sinceri, che poi scelte molto diverse non hanno interrotto, per esempio con Tina Anselmi siamo restate molto legate anche se non andiamo d’accordo su tante cose. E ancora oggi le vecchie democristiane se mi incontrano non mostrano né fastidio né dispetto. È più facile che io ottenga un riconoscimento almeno di limpidezza di scelta, di non aver approfittato delle cose che ho fatto, da donne che da uomini. Se incontro dei democristiani, il più delle volte non mi riconoscono più, con loro c’è stata un’interruzione più netta.
Io vado avanti così una decina d’anni, dal ‘52 al ‘65, con un crescente fastidio di nuovo.
È vero che noi possiamo dire tutto quello che vogliamo, scrivere articoli infiammati su Stato Democratico, parlare di pianificazione territoriale e di programmazione economica, fare seminari su questo, avere la rivista Cronache sociali su cui scrivono tutti: Togliatti, Moro, La Malfa, Nenni, però alla fine c’è questa specie di libertà sovrastrutturale, culturale, che quando si arriva alle scelte politiche, al dunque, passano altre cose. Io che avevo avuto l’esperienza del consiglio comunale di Bolzano, dove ero stata poi vicecapogruppo, e della regione Trentino-Alto Adige, dove ero stata vicecapogruppo regionale e assessore a Bolzano, comincio a parlare con gli altri del gruppo milanese della base: “noi qui dentro non possiamo più starci”.
Si sente che sta avvenendo qualche cosa, insomma si avvicinava il ‘68 e noi siamo sempre qui che facciamo ‘tri pas su una tavela’, come si dice, su un mercato molto ristretto e poi le scelte sono altre.
Noi avevamo già avuto una crisi molto dura ai tempi del Patto Atlantico, perché come altri democristiani, non volevamo entrare nel Patto Atlantico, poi nel ’48, quando De Gasperi aveva scaricato le sinistre, le scelte centriste, poi ci fu grande speranza sul centro sinistra, ma anche quello viene subito sterilizzato.
(fine prima parte intervista)

[1] Lidia Menapace, Un anno al Senato, Edizioni Tracce, Pescara, 2009, p. 17-18
[2] Lidia Menapace, Chefarepunto, Edizioni Effe e Erre, Trento, 2019
[3] Elisabetta Conci e Maria De Unterrichter Jervolino sono state entrambe elette nell’Assemblea costituente.