Charlotte Salomon, testimone di vita (2013-2023)

“Vita o teatro?”: la creatività del copione nell’opera di Charlotte Salomon

Rosangela Pesenti*

Riassunto

Charlotte Salomon, attraverso la sua opera, ci ha offerto un’originale esperienza di narrazione del copione ritrovando, nella propria storia, le conclusioni di sopravvivenza che sono diventate una forma di resistenza alle ingiunzioni di morte, consentendole di affermare l’amore per la vita anche contro la tragicità di un destino imposto dagli eventi storici.

Abstract

Through her story, Charlotte Salomon has offered us an original narration experience of the script. She has found in her own life story the necessary conclusions in order to survive, which have become a form of resistance to death enjoinments, allowing her to affirm her love for life against the tragical destiny imposed by history.

Scrive Fanita English:

            Precocemente, in generale fra i tre e i sette anni, gli individui elaborano un copione (script) che in qualche modo diventerà la mappa della loro vita, regolando lo strutturarsi del tempo, il tipo di rapporti che allacceranno, i sentimenti nei propri confronti e verso l’ambiente. Il copione è         infatti come un calco, una guida che determina il corso dell’esistenza, le crisi e le decisioni        future (English, 1998).

Parto da questa citazione, nota in ambito analitico transazionale, perché la correzione di Fanita alla straordinaria intuizione di Berne fa del copione uno strumento concettuale di grande utilità, e non solo in ambito terapeutico, perché la narrazione di sé è parte dell’incessante attività della vita e la consapevolezza delle tracce profonde che la guidano diventa apertura alla visione di nuove opzioni per il futuro.

            Nella misura in cui si svolge nel tempo, possiamo intendere la vita come un insieme di storie che attendono di essere raccontate. […] Possiamo bensì essere i ‘protagonisti’ di ciò che viviamo, ma non ne siamo gli autori. La vita, infatti, non ce la siamo inventata. Siamo entrati in un mondo già in corso e, se pure vi agiamo, non vi agiamo da soli, e le vicende in cui siamo coinvolti sono il risultato dell’intreccio delle azioni di molti, di esiti inintenzionali, di eventi casuali. Raccontare è in fondo un modo di venire a patti con tutto ciò, di trasformare cioè le storie in cui siamo coinvolti, pur senza esserne autori, in un’esperienza di cui possiamo dirci in parte consapevoli (Jedlowski, 2000).

Ci muoviamo, infatti, dentro la nostra storia in divenire seguendo le prime tracce che costituiscono il canovaccio di una recita a soggetto, trasformandola via via in un copione teatrale che rinnoviamo con le nostre emozioni investendo le parole di nuovi significati, illuminando così strade prima ignote. Sta nella capacità di raccontarsi la possibilità di scoprire nuove strade da percorrere nella propria vita.

In questo senso il concetto di copione, ampliato da Fanita English nella continua interazione tra consapevolezza di sé e creatività delle scelte, può diventare il crocevia di feconde contaminazioni tra psicologia e storia, entrambe figlie di memoria e rimozione, sulla strada della ricerca di una sempre maggiore comprensione di noi stesse/i e del nostro agire.

Riattivare la memoria componendo una narrazione diventerà per Charlotte Salomon un modo per ritrovare le proprie radici e, dentro la linfa che vi scorre, il sapere che la sostiene nella sua scelta di azione. In un momento cruciale della propria vita la giovane artista decide di fare qualcosa di “assolutamente eccentrico”, come lei stessa scriverà e l’opera che ci ha lasciato, straordinaria per uso del linguaggio pittorico e complessità narrativa, testimonia non solo il suo talento artistico e il suo amore per la vita, ma anche la capacità di ripercorrere la propria storia per ritrovare quelle conclusioni di sopravvivenza che diventano scelta, pur nelle tragiche condizioni storiche che incombono su di lei.

Come raccontare questa storia? Rinuncio a presentare la sua vita per dare parola direttamente a lei, alla sua opera e decido perciò di cominciare questo racconto dal momento in cui lei stessa decide di narrarsi.

Per noi, perciò, questa storia comincia nel 1939, in Francia e precisamente a Villefranche vicino a Nizza.

Charlotte è arrivata l’anno precedente da Berlino, pochi mesi prima di compiere i ventun anni, condizione che le ha consentito di chiedere il permesso per un viaggio senza aver bisogno del passaporto, che non viene più rilasciato agli ebrei maggiorenni secondo le leggi razziste in vigore.

Il motivo ufficiale del viaggio è la visita ai nonni materni che vivono dal 1933 a Villefranche, fuggiti dalla tetra Germania di Hitler verso il sud della Francia dolce e democratica.

Orfana di madre da quando aveva nove anni, ha lasciato a Berlino il padre, illustre medico ormai senza lavoro, con la seconda moglie, famosa cantante lirica espulsa dal teatro e da lei amatissima, ha lasciato l’uomo di cui è innamorata, la sua casa, la sua vita.

I genitori ripareranno in seguito in Olanda.

Tutto il suo mondo si è rapidamente disgregato negli anni dell’adolescenza: fuggiti gli amici che frequentavano la sua casa (intellettuali noti come Albert Einstein, Erich Mendelsohn e la moglie), lei stessa è stata espulsa dalla scuola d’arte, che aveva rappresentato il primo ambito traguardo: ora deve ricostruire la sua vita in una terra straniera, accanto ai nonni severi.

Nel 1939 l’esercito tedesco invade la Polonia determinando l’inizio della guerra e gli ebrei espatriati non sono più sicuri in nessun paese europeo. La nonna, caduta nell’angoscia, tenta il suicidio una prima volta e, nonostante le cure amorevoli della nipote, la seconda volta lo porta a compimento.

Mentre Charlotte accudisce teneramente la nonna tra il tentativo e l’evento compiuto, il nonno, già malato, la chiama al suo capezzale e le rivela che tutte le donne della sua famiglia si sono suicidate: la madre, che lei credeva morta d’influenza, prima di lei la zia diciottenne di cui porta il nome, la bisnonna e la prozia.

Quando la nonna riesce a compiere il suicidio il nonno perde la speranza e si aspetta che anche la nipote segua quello che ormai sembra il destino di tutte le donne della famiglia. Cupo e amaro, perseguita la nipote con il presagio, che sembra diventare vera e propria attesa del compiersi di un destino.

Intanto la Francia è stata invasa dalle truppe tedesche e dalle leggi razziali, accolte anche nella Repubblica di Vichy.

Dal 1940 al 1942 Charlotte vive, insieme al nonno, nella casa di un’amica americana che accoglie anche bambini ebrei orfani.

Mentre tutto sembra distruggersi intorno a lei e la stessa sopravvivenza materiale si fa sempre più difficile, intraprende l’opera “Vita o teatro?”, «un’autobiografia per immagini, tra le opere più originali del Novecento, straordinaria mescolanza di linguaggi, visivo, verbale, sonoro, teatrale» (Ricci, 2006), realizzando una serie di dipinti con la tecnica del guazzo: 1325, circa due al giorno, tenendo conto del fatto che alcuni sono andati perduti.

Per opporsi alla morte che la sovrasta Charlotte decide di ripercorrere la sua storia in una forma narrativa assolutamente nuova, mettendola in scena come in un’opera teatrale che definisce «Singspiel: opera tricolorata in musica»; ai dipinti infatti, che realizza usando i colori primari rosso, giallo, azzurro (e bianco solo per schiarire) accompagna parole e musica evocando via via anche il cinema, arte che l’affascina moltissimo, attraverso la reiterazione delle immagini quando si fa più intensa la necessità di mettere in primo piano discorsi e dialoghi.

Il primo guazzo, dopo il titolo e la dedica all’amica americana Ottilie Moore, che la ospita e incoraggia la sua vocazione artistica, è un sipario, che si apre sulla presentazione dei personaggi. Si tratta della sua famiglia e degli amici più intimi ai quali cambia cognome e qualche volta anche nome alla ricerca di suoni o significati che possano evocare tratti della personalità.

Conserva il proprio nome, ma anche lei è un personaggio come gli altri, di cui parla in terza persona, quasi a sottolineare la distanza tra il sé narrante e la figura che si muove nella sua memoria affidata al misterioso processo di selezione dei ricordi, di cui ora lei si fa coscienza storica e consapevolezza emotiva.

Consapevole della complessità stilistica affrontata, Charlotte scrive nell’introduzione: «La diversa natura dei dipinti dovrebbe essere attribuita non tanto all’autore quanto alla varietà dei caratteri da ritrarre. […] Per raggiungere questo risultato, ha dovuto rinunciare a molti parametri artistici, ma spero se si vuole penetrare l’intima natura dell’opera, che questo sarà perdonato».

La storia comincia per lei dal suicidio della zia appena diciottenne, alla quale deve il suo nome. Se il cognome è il segno che ci inscrive in una genealogia famigliare, spesso solo paterna, che ci assegna eredità materiali e simboliche insieme a una collocazione sociale, il nome conosce attribuzioni più fluide che, anche quando rispecchiano logiche gerarchiche all’interno della famiglia, alludono volentieri a legami affettivi con il mondo dei morti.

Apre il suo racconto seguendo i passi della zia, mai conosciuta, lungo il fiume nel quale troverà la morte e poi l’adagia, occhi chiusi e mani raccolte, in un ovale dolce, delicatamente rosato: una lieve culla di luce, che contrasta con le figure cupe dei parenti affranti.

Forse già qui, da questo primo guazzo, noi vediamo rappresentata la forza vitale che sostiene Charlotte nella realizzazione di un’opera grandiosa per la sua giovane età e per le precarie condizioni in cui vive. La ragazza di cui porta il nome sembra dormire dolcemente così come dolcemente si è abbandonata al fiume.

La morte fa parte della vita e l’artista, pur cogliendo la dimensione tragica del suicidio, non ne sembra spaventata, come se prevalesse comunque la forza vitale che affermerà nel succedersi dei quadri.

«L’arte nasce da qualcosa che tocca la tua anima […]. La mia anima è un gioco di accordi» dice la Charlotte di un guazzo.

L’opera è divisa in tre parti: il preludio, che comincia con la morte della zia e si conclude con la prima adolescenza, l’esperienza della scuola d’arte e la scoperta dell’amicizia; la parte centrale, dedicata alla presenza nella vita di famiglia di Amadeus Daberlohn (nome assegnato a Alfred Wolfsohn), importante non solo perché è l’uomo di cui si innamora, ma soprattutto perché le offre la possibilità di maturare idee proprie riguardo all’arte, l’amore, le relazioni uomo-donna e la posizione femminile nella società. La parte centrale si conclude con la sua partenza da Berlino. Nell’epilogo, terza e ultima parte, concentra, attraverso una pittura sempre più sintetica, i tratti salienti della sua vita in Francia e l’urgenza di affermare la capacità di essere protagonista della propria vita comunicando il suo messaggio di speranza.

Preludio

Dopo la sintetica rappresentazione del suicidio della zia, Charlotte racconta con felice puntualità le tappe della vita della madre: la decisione di andare al fronte come crocerossina, la conoscenza dell’ufficiale medico di cui s’innamora, il matrimonio, la felice attesa e poi la nascita della bambina.

Nell’infanzia si rivela il mistero del mondo: nella memoria luoghi lontani diventano vicini e lei tiene insieme la visione della sua casa con le montagne delle sue prime vacanze.

I luoghi sono rappresentati nella forma del gioco: l’appartamento in cui vive è descritto dall’alto, come una casa delle bambole in cui la visione delle stanze ci è offerta contemporaneamente. Il disegno si sottrae alla linea retta dell’imperativo architettonico per offrirci la dimensione vitale delle stanze che ci appaiono mobili come nello sguardo della bambina che lì ha vissuto i suoi primi anni sereni.

Lo sguardo dall’alto è quello di una posizione adulta che sa ripercorrere affettivamente gli spazi soffermandosi sui particolari.

La casa è tutt’uno con la madre, raffigurata nella dolcezza della gravidanza, del parto e del successivo accudimento di una figlia che si autorappresenta desiderata e amata.

Anche nel guazzo che raffigura le vacanze in montagna, dentro il paesaggio ripreso da lontano e con la precisione infantile del treno raffigurato nelle due direzioni dell’arrivo e del ritorno, il dialogo con la madre sembra fiorire, nel ripetersi delle due figurine che punteggiano il prato come corolle rosse e azzurre appena sbocciate.

Forse in questa gioia descrittiva Charlotte esprime, perfino inconsapevolmente, ma in modo preciso, l’urgenza di salvare la memoria della madre, di ristabilire un equilibrio nella storia ricordando con la madre tutte le donne della famiglia che si sono inabissate nel silenzio di un gesto suicida incomprensibile anche e proprio perché reiterato.

Un’urgenza che ricorda quella di altre figlie: testimoniare l’esistenza della madre come donna salvandone la memoria dalla cancellazione feroce dei tempi oscuri in cui l’imperativo maschile ha tradotto il simbolismo del dominio in un potere coercitivo razzista e sessista.

Nella Germania di Hitler, e ancora prima nell’Italia di Mussolini, le persone non vengono solo ridotte da cittadini a sudditi di un potere dittatoriale, ma fissate in uno stereotipo identitario che definisce i caratteri di genere e di razza, portando all’estremo la visione tradizionale della donna come mera riproduttrice della specie, contro tutte le istanze femminili avanzate fin dalla Rivoluzione Francese, ed enfatizzando la funzione virile guerrafondaia a cui sono condannati i maschi. Una visione di complementarietà fondata sulla subalternità femminile e dominanza maschile, dentro un disegno di gerarchia razziale che prevede l’eliminazione fisica di intere popolazioni, tipi umani, culture.

Charlotte restituisce corpo e parole a sua madre, la rappresenta al pianoforte, avvolta nella musica che era il suo primo e principale linguaggio espressivo, così come la pittura lo è per lei.

La tenera e puntuale rappresentazione della madre mi ricorda quella di Alja che a soli sei anni scriveva della madre, la poeta Marina Cvetaeva:

            I suoi capelli sono rosso chiari, con dei riccioli dalle parti. Ha gli occhi verdi, il naso con una gobba e     le labbra rosee. Èalta, mi piacciono le sue mani. […] È paziente, sopporta fino all’estremo. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un’anima grande. Una voce tenera. Cammina molto rapida. Marina ha sempre le mani con tanti anelli. Di notte Marina legge […]     (Cvetaeva, 1992, p. 7).

Madri che abbandonano la vita per scelta e figlie che quella vita conservano teneramente per restituire a se stesse la forza vitale che pure le ha messe al mondo.

Così, in anni recenti, la regista Alina Marazzi ripercorre nel cortometraggio “Un’ora sola ti vorrei” la storia materna attraverso lettere private, fotografie, filmati.

Il suicidio della madre, rappresentato da Charlotte nella caduta, non è spiegato, ma nei guazzi precedenti ricorda come la madre abbia cercato di proteggerla dai suoi pensieri suicidi raccontandole la bellezza del paradiso e la sua aspirazione a diventare un angelo.

L’infanzia si conclude con questo dolore inconsolabile, ma anche con la scoperta della propria vocazione artistica: l’appartenenza ad una classe privilegiata consente ai nonni materni di aiutarla ad elaborare il lutto attraverso un viaggio alla scoperta dei tesori artistici disseminati in tutta Europa, che Charlotte ricorda nei guazzi con la stessa felicità espressiva con cui racconterà più avanti il suo ingresso alla scuola d’arte, dove riesce a superare l’esame per uno dei posti riservati ai figli di ebrei che avessero combattuto nella prima guerra mondiale.

Sullo sfondo il nazismo, la distruzione della cultura e la persecuzione antiebraica che significheranno per lei anche l’espulsione dalla scuola.

Il copione, afferma Fanita English,

            inizia come una storia complessa a finale aperto con uno o più personaggi centrali in situazioni che rappresentano desideri, paure, speranze, domande e atteggiamenti nei confronti di se stessi e degli  altri […].            Aiuta un ragazzino che cresce a concettualizzare e a catapultare l’immagine del suo Sé emergente in un futuro rispetto ai luoghi, ai legami, alle aspirazioni, alle relazioni, alle attività e a molto altro, compresi sentimenti e valori, costituendo, per così dire, la prima immagine della giovane persona nel  mondo (English, 1998).

La giovane artista ripercorre i luoghi e gli eventi che hanno costituito il suo immaginario facendo emergere le tracce che evidenziano il formarsi delle prime scelte di copione e in questo modo riesce a ricostruire la sua origine riconnettendola ai primi ricordi e via via sviluppandola in un racconto articolato e coerente.

Raccontiamo storie per dare forma al tempo e attraverso i dipinti la vediamo abitare i suoi pensieri, come un tempo ha abitato inconsapevolmente serena la sua casa di cui lascia, attraverso l’arte, una testimonianza per sempre.

Parte centrale

In questa parte Charlotte, attraverso il racconto del suo innamoramento per Amadeus, affronta i grandi interrogativi sull’amore, il senso dell’arte e della vita, attraverso i quali rielabora e recupera anche la storia delle donne della sua famiglia.

L’adolescenza, scriveva Carol Gilligan vent’anni fa (1995), è il momento in cui le bambine sembrano perdere la voce, vivono una sconnessione tra ciò che sentono e ciò che il mondo richiede loro, le donne accanto a loro propongono ruoli, ma sono mute sulla realtà di desideri e sentimenti.

Affamata di sapere, s’innamora del maestro di musica che frequenta la famiglia, per dare lezioni a Paulinka che vorrebbe plasmare secondo la sua ispirazione artistica.

Nelle molte tavole dedicate a questa vicenda, Charlotte non manca di sottolineatura ironicamente questa convinzione di Daberlohn, anche attraverso la distanza di Paulinka, l’amata moglie del padre, che rifiuta di affidarsi completamente al maestro innamorato di lei e vuole decidere da sé il modo migliore per esprimere il suo talento.

Per Amadeus le donne sono muse ispiratrici o talenti da modellare come creta e Charlotte svela come il suo amore per Paulinka sia solo espressione del suo narcisismo.

Non è possibile sintetizzare questa parte centrale, la più corposa dell’opera, perché qui lei affronta il suo stesso innamoramento e la breve relazione con Amadeus come presa di coscienza della propria esistenza di donna che, senza omettere le timidezze e ingenuità proprie della sua giovane età, non accetta alcuna subalternità nel rapporto con l’altro.

Nei dipinti l’amore è gioia, malinconia, tenerezza, passione, ma anche ironia e fermezza nell’affermare le proprie convinzioni artistiche, che la sottraggono alla concezione patriarcale propria di tutta la storia culturale dell’Occidente, perché Charlotte è in grado di interrogare il suo stesso desiderio.

L’arte diventa così anche una sorta di spazio protettivo in cui può vivere l’adolescenza ri-generandosi in quella che Françoise Dolto (1991) definisce «una seconda nascita».

La parte centrale si conclude con la partenza dalla Germania, nel 1938, che coincide per Charlotte con l’ingresso nell’età adulta. Si racconta nella solitudine della sua stanza alle prese con i bagagli che costringono a scelte difficili. Il treno è una traccia scura che la cancella dalla vita del suo paese.

Epilogo

Nella prima scena Charlotte si ritrae più volte mentre dipinge, prima vestita, sotto un albero e poi in costume, inginocchiata, sempre più vicina al mare, verso il quale cammina: una sequenza di figure che seguono l’abbraccio sinuoso tra mare e terra, fino a perdersi e dissolversi nelle pennellate di luce rossastra, dello stesso colore della scritta “Epilogo” che campeggia in alto nello scorcio di cielo.

«Il vento muove le piccole foglie argentate e la schiuma forma piccole increspature unendosi all’infinito piano del mare.Che cosa ti dà la forza di rimodellarti dopo tanto dolore? Sogno parlami, perché mi stai salvando?» è il commento che accompagna come un incipit questo dipinto.

Il soggiorno in Francia viene descritto in poche scene apparentemente serene, ma la colazione con i nonni rende visibile il contrasto tra il nonno, infastidito dalla sua dedizione alla pittura e la nonna preoccupata per la sua malinconia che pensa dovuta alla mancanza di un uomo.

Charlotte contesta con veemenza questi discorsi dipingendosi eretta in mezzo alle sue stesse parole, che sembrano stormire veementi con le foglie degli alberi sullo sfondo.

Poi gli eventi precipitano: la guerra è dichiarata e la nonna tenta il suicidio.

A nulla servono le cure amorevoli della nipote che le parla: «Guarda i fiori nel prato, quanta bellezza, quanta gioia. Guarda i monti lassù, quanto sole, quanta luce», mentre la nonna invoca: «Lasciami morire, lasciami morire, io non posso più vivere».

È un crescendo drammatico, in cui le figure sono ridotte all’essenza e la forza con cui si aggrappa alle parole viene annientata dal discorso del nonno che le rivela la verità sulla sorte delle donne della famiglia: «Tua madre ha provato a suicidarsi con il veleno e poi si è gettata dalla finestra. Tua zia Charlotte si è annegata, ma il caso peggiore è stata la madre di tua nonna. Per otto anni ha cercato di sfuggire alla sorveglianza di due governanti per suicidarsi e anche la prozia […]».

La rivelazione è una bufera che si abbatte su di lei facendola vacillare: dipinge tutta la sua disperazione, aggravata dalle difficili condizioni di vita che incombono sulla popolazione ebraica.

Il nonno, ormai preoccupato solo della propria sopravvivenza materiale, diventa sempre più duro con la nipote che si ostina a dedicarsi alla pittura.

Charlotte rappresenta lo scontro con il nonno nell’ultimo dipinto, prima di concludere l’opera scrivendo l’appassionato testamento spirituale.

«Sai, nonno, io sento che il mondo intero deve essere rimesso insieme».

«Oh, va avanti e ucciditi e metti fine a questo chiacchiericcio».

Il nonno, più alto e imponente è in primo piano, come le sue parole, ma sembra vacillare, è una mezza figura e per il gioco della prospettiva è lei che campeggia intera, con tutta la serena determinazione della postura: seduta ben eretta sul letto, le braccia incrociate senza tensione e le gambe accavallate in un gesto sbarazzino e impudente, le sue parole sono al centro e invadono lo spazio del nonno che sembra ritrarsi, oscillando all’indietro.

Leggendo la scena in termini di Analisi Transazionale, a fronte del nonno che sembra incarnare la contaminazione di un Genitore Normativo escludente, lei esprime il suo essere pienamente Adulta: consapevole, pacata, decisa, capace di esprimere in parola quel sentire profondo che ha narrato in più di mille formelle.

Charlotte ha messo in atto un processo attraverso il quale ritrova l’equilibrio di quelle che Fanita English definisce Spinte motivazionali:

•       alla sopravvivenza individuale

•       alla sopravvivenza della nostra specie

•       alla nostra connessione con l’universo

A fronte del nonno che si occupa solo della mera sopravvivenza materiale e precipita nell’amarezza di una condizione senza speranza, la giovane donna afferma la propria scelta e volontà di vivere, proiettando nell’opera la fiducia adulta nell’esistenza di un futuro che va oltre il valore delle vite individuali.

Comprende che dedicarsi alla pura sopravvivenza, come la spinge a fare il nonno in quel momento, sarebbe un modo di perdere se stessa e il senso della propria esistenza che trova invece valore nell’affermazione di un talento artistico che coincide con la sua stessa vita.

Così scrive, scrive, dipinge parole, deve concludere perché intanto vuole vivere:

            Questo accadeva nel luglio del 1940 sulla strada che porta a una piccola città dei Pirenei a Nizza. Un anno dopo, durante il quale il mondo si disgregò sempre di più, lo spirito di questa creatura stranamente doppia fu sempre più soffocato dalla vicinanza del nonno, tragicamente perseguitato com’era dal fato. Dato che si applicava ad ognuno a quel tempo, così che nessuno era più in grado di ascoltare gli altri, ma cominciava a parlare immediatamente di se stesso, si risvegliò in una creatura sofferente e tuttavia un po’ in disparte, un senso dell’impotenza proprio di tutti quelli che cercano di afferrarsi alla paglia in un violentissimo temporale.

Il luogo, il tempo, le condizioni sociali, la situazione famigliari: l’artista traccia in poche scarne parole il contesto drammatico nel quale si trova a vivere e poi, con la certezza di aver portato a compimento la sua opera, racconta di sé con lo stesso stile sobrio e preciso, senza dimenticare la donna che l’ha sostenuta nella sua impresa:

A dispetto della sua totale fragilità, comunque, ella rifiutava di lasciarsi trascinare nel gruppo di chi si afferra alla paglia e rimase sola con le proprie esperienze e il proprio pennello. Eppure a lungo andare vivere in questo modo giorno e notte divenne intollerabile perfino a una creatura così predisposta. Ed ella si trovò ad affrontare la questione se commettere suicidio o fare qualcosa di selvaggiamente eccentrico. Si presentarono circostanze favorevoli, che presero l’aspetto della donna a cui questo lavoro è dedicato con gratitudine, così che ella poté avere qualche riposo, mentre allo stesso tempo ebbe l’opportunità di conoscere pienamente gli esseri umani di quell’epoca e di imparare ad amarli, odiarli o disprezzarli […].

La delicata gratitudine per l’amica, già ricordata nella dedica all’inizio, ne esplicita la funzione salvifica e chiude il cerchio di quest’opera poetica che è anche una straordinaria attività di riparazione, un modo per tenere insieme le schegge di un mondo in frantumi:

Bisogna entrare in se stessi – nella propria infanzia – per uscire da se stessi […]. Vide tutta la bellezza intorno a lei, vide il mare, sentì il sole, e capì: doveva svanire per un po’ dal piano umano e fare ogni sacrificio per ricreare il suo mondo dal profondo. E da qui nacque Vita o teatro???.

Salvando la memoria delle donne della sua famiglia Charlotte alza un argine protettivo contro la morte che hanno scelto, ma anche contro la furia distruttiva che si è abbattuta su tutti loro. Un modo per comprendere, rielaborare e rifiutare l’epicopione, quel processo patologico che non ti appartiene, ma ti viene passato come una patata bollente dalla famiglia (English, 1976) che Charlotte riconosce e mette fuori da sé, ma anche un modo per opporsi al copione sociale nazista, che si alimenta di persecuzione e morte.

Nel quadro che conclude l’opera l’artista si ritrae con il pennello in mano, seduta sui talloni, vicina al mare che entra direttamente nel foglio tra le sue mani, come se l’opera dipinta fosse la realtà stessa.

Sulla sua schiena la scritta “Vita o teatro” non ha più il punto interrogativo.

Quando la vita materiale è minacciata ritrovare la propria appartenenza alla specie umana e allo specifico della nostra sopravvivenza, che è la cultura, consente di resistere anche ai rischi di morte, che in quel momento venivano a lei dall’ingiunzione famigliare e dal nazismo.

Quest’opera può iscriversi nell’ambito della grande resistenza nonviolenta alla follia nazista.

Alla fine del 1942 l’amica americana torna negli Stati Uniti con i bambini che è riuscita a far adottare; lei resta ad accudire i quattro rimasti, insieme al giovane Alexander Nagler di cui si è innamorata e che sposerà nel giugno 1943, dopo la morte del nonno, contrario al matrimonio a causa della bassa condizione sociale del giovane.

«Mio nonno era per me il simbolo di tutte le persone contro cui ho dovuto lottare» ha scritto in un guazzo.

Charlotte si è confrontata con la sua storia personale dentro la grande storia, ricostruendo il suo legame col mondo:

•       contro la condanna a morte decretata dal nazismo,

•       contro l’ingiunzione di morire intimata dal nonno

•      contro la morte simbolica delle donne imposta dalla cultura patriarcale, che accomuna il nonno ebreo al nazismo.

Ma la violenza nazista alla fine si abbatte su di lei.

«Circostanze economiche e geopolitiche possono inibire o scatenare la crescita di un leader esaltato […]. Se costui, insieme a un piccolo gruppo, riesce a organizzare un potere tirannico, spettatori esterni verranno risucchiati in questo sistema di false convinzioni, mentre altri saranno resi impotenti dalla paura. Così si liberano e ingigantiscono fenomeni mostruosi» scrive Fanita English (1995).

Il 21 settembre 1943, Charlotte viene catturata e deportata ad Auschwitz insieme al marito ed ai quattro bambini che vivono con loro. È incinta di quattro mesi e viene uccisa il 10 ottobre, all’arrivo. Alexander muore a gennaio del 1944.

Dopo la guerra la sua opera, lasciata in custodia a un amico fidato, arriverà fortunosamente all’amica a cui è dedicata e dopo varie vicende tornerà in Europa.

Charlotte si è affidata alla leggerezza della carta, alla semplicità del colore, all’alchimia tra i sentimenti e gli accadimenti, che le mani sanno tracciare facendone materia d’arte e di memoria. Non a caso l’opera, che consegna a un amico perché la invii a Ottilie Moore dicendo: «Ne abbia cura, è tutta la mia vita», è depositata in una cassa foderata di rosso: colore della passione e del cuore, ancora capace di pulsare all’unisono con chiunque vi si accosti.

Attraverso mille traversie la sua opera riesce davvero a varcare l’oceano del tempo e i suoi occhi ancora ci guardano dall’autoritratto, non imploranti, non alteri, non sottomessi, fidandosi di noi.

Dedico questo intervento ai bambini e alle bambine sepolti senza nome in fondo al mare o nelle terre che hanno attraversato con speranza, insieme ai loro genitori, in cerca della vita.

Siamo sempre responsabili di ciò che accade anche se non siamo colpevoli.

Bibliografia

Cvetaeva Marina, 1992, Il racconto di Sonečka, La Tartaruga, (1982, Il Saggiatore) Milano, (Ed. or. 1976, YMCA Press)

Dolto Françoise, 1991, I problemi degli adolescenti, (a cura di Catherine Dolto-Tolich), Longanesi & C., Milano, (Ed. or. 1989, Hatier, Paris)

English Fanita, 1998, Essere Terapeuta, La Vita Felice, Milano, (Ed. or. 1976)

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Brown L.yn Mikel, Gilligan Carol, 1995, L’incontro e la svolta, Feltrinelli, Milano (Ed. or. 1992, Harvard University Press, Cambridge-London)

Pedretti Bruno, 1998, Charlotte la morte e la fanciulla, La Giuntina, Firenze

Ricci Katia, 2006, Charlotte Salomon. I colori della vita, Palomar, Bari

Salomon Charlotte, 1981, Life? or Theatre, Gary Schwartz, The Netherlands, (by The Charlotte Salomon Foundation, Amsterdam).

Marazzi Alina, 2005, Un’ora sola ti vorrei, Film

Sito: http://www.jhm.nl/collection/themes/charlotte-salomon

Rosangela Pesenti, Counsellor Professionista, Analista Transazionale (C.T.A.), formatrice, PhD in Antropologia ed epistemologia della complessità