Va in scena la guerra: miti, riti, uniformi e resistenze di donne dietro al fronte (1915-1918)

Rosangela Pesenti

 
Abstract
 
La guerra unifica in un corpo maschile compatto ciò che il tempo di pace divide e le donne vengono assoggettate ai ruoli di servizio, diventando le tessitrici di un immenso apparato di riparazione dei corpi e dei territori feriti.
Viene rilanciato il mito della complementarietà dei generi e sarà l’immagine della crocerossina a completare il grigioverde del soldato, soprattutto quando l’enorme quantità di feriti richiederà, oltre al potenziamento delle strutture ospedaliere, la produzione di immagini rassicuranti finalizzate al contenimento emotivo di ogni dubbio sul valore della meta finale.

 Relazione
 
«C’è spesso negli anniversari, collettivamente riconosciuti come appuntamenti della memoria, un irrigidimento delle forme, una ridondanza delle parole che ne logorano i significati originari, talvolta fino al tradimento delle intenzioni, quando non della stessa autenticità dei fatti.
Allora non è tanto sul tema generale che occorre aprire il discorso, quanto sugli interrogativi che ancora possiamo rivolgere a un passato nel quale affondano le radici del presente.
Le radici reali, quelle degli alberi, a cui appoggiamo la metafora, sono nascoste nella terra, per la maggior parte invisibili allo sguardo, sappiamo della loro esistenza ma ci illudiamo di poterle ignorare e loro, piano piano, muovono anche il cemento con cui abbiamo pensato di livellare il terreno intorno e sbucano nei nostri rettilinei marciapiedi costringendoci a fermate impreviste, a deviare il percorso, a ripensare la topografia. Se le tagliamo, però, l’albero non sopravvive.
Oggi lo “smarrimento” della memoria sembra rendere precari i fondamenti democratici della collettività abitante il territorio della Repubblica italiana e, mentre fiorisce una storiografia attenta alle sfumature, che guarda alla storia nella complessità dei soggetti che vi agiscono, il senso comune sembra allontanarsi da un passato che giudica inutilizzabile per i bisogni del presente.
Così, proprio i soggetti che solo recentemente hanno avuto “accesso alla storia” vengono di nuovo cancellati. Tra questi, e più di tutti, le donne come genere, spesso come singole personalità, quasi sempre come collettività sociali e politiche.
Le donne continuano ad essere percepite come una minoranza di scarsa influenza storica e ciò che contribuisce a conservare lo stereotipo è la persistente cancellazione linguistica del genere femminile, sostenuta spesso dalle stesse donne che hanno raggiunto ruoli e professioni un tempo riservate ai maschi e che considerano il titolo declinato al maschile un onore al merito, faticosamente perseguito in un mondo in cui il modello dominante è maschile.
Non è facile decifrare il presente e forse non è nemmeno possibile, perché ne percorriamo ancora le tortuose strade, delle quali riusciamo a malapena a tracciare una carta topografica, ma non può non sorgere più di un interrogativo su come e perché la cancellazione delle donne, come presenza sociale e soprattutto soggettività politica, sembri ogni volta accompagnarsi ad un arretramento delle forme di convivenza che, nelle Costituzioni e istituzioni nate a partire dalla Rivoluzione francese, sono state definite civili ».[1]
 
Sono un’attivista femminista da quarant’anni[2] e ho insegnato storia e letteratura italiana per più di trent’anni nella scuola superiore scontrandomi con il silenzio la reticenza la cancellazione del genere femminile dai testi, oltre che dal contesto.
La passione per la storia nasce da una domanda che mi riguarda: da dove vengo, quale storia si è sedimentata nelle parole con cui mi racconto, nei gesti con cui mi muovo nel mondo? E nasce dalla responsabilità di un’adulta stretta tra il compito di trasmissione del sapere affidato dall’istituzione scolastica e la percezione che molto di quel sapere mi è nemico. Più che stringere i miei spazi e i miei pensieri, direi che la scuola ha rischiato di stritolarmi, asservendomi nel compito di un casalingato culturale subalterno alla riproduzione della cultura maschile e delle forme sociali e istituzionali del patriarcato.
Insegnare storia significa accumulare più domande di quante se ne possano affrontare in un’intera vita e avere comunque la responsabilità di fornire strumenti, piste di ricerca, mappe, perché allieve e allievi possano orientarsi nella vita, oltre che ottenere buoni risultati e un diploma.
La storia, prima di essere una disciplina accademica, è lo spazio della memoria che, nel suo prendere forma nell’immaginario sociale, ci dà forma, orientandoci, perfino inconsapevolmente, nelle scelte.
Che cosa chiedere alla storia?
La domanda che Marc Bloch[3] si poneva ottant’anni fa resta quotidianamente fondamentale per qualsiasi insegnante posizionato in un’aula, tra studenti e documenti (generalmente manuali).
Nonostante l’apparente uniformità, la domanda di storia continua ad avere valenze diverse, e diversamente intrecciate, per maschi e femmine che affrontano contemporaneamente anche le domande della crescita, che ne siano o meno consapevoli. Maschi e femmine segnate/i dalle storie di genere che s’intrecciano con quelle di territorio, ceto sociale, colore della pelle, ascendenze culturali, appartenenze religiose e famigliari.
Nella memorabilità degli eventi, tra i quali le guerre occupano uno spazio sempre notevole e spesso periodizzante,[4] le donne sono assenti e gli studi specialistici, ormai numerosi, non riescono ancora a modificare le narrazioni correnti che si presentano con l’evidenza dei fatti, come se i fatti in questione non fossero espressi, costituiti, perfino manipolati dalla narrazione stessa.
Scriveva Arlette Farge nel lontano 1979: « Ho proceduto nel tempo senza essere fornita di granché (…) Fui privata della storia, come garanzia di protezione della femminilità da preservare da ogni contaminazione, e la storia ne è per forza una. Essere private della storia è forse, in fin dei conti la storia più importante e più comune che accada quotidianamente alle donne ».[5]
Cos’è cambiato in questi trent’anni? Nei manuali molto poco, nelle narrazioni specialistiche, come nei riti della memoria collettiva, le donne vengono aggiunte senza che cambino i criteri narrativi e le giovani generazioni, reinvestite dal mito stesso della giovinezza, sembrano celebrare la propria autogenesi, come se si pensassero separate/i dalla continuità con il passato, dal salto tecnologico da cui sembrano sentirsi direttamente partorite/i.
La guerra continua ad essere centrale nella storia e oggi comprendere gli accadimenti che portano a quella che apre il novecento appare ancora essenziale.
« Il 1914 avrebbe potuto essere l’anno delle donne, fu l’anno della guerra che riporta ogni sesso al suo posto » scrive Françoise Thébaud « È strana quell’estate del 1914 che divide radicalmente i sessi e che, dopo le lotte degli anni precedenti la guerra, ridesta una certa armonia sessuale. La mobilitazione degli uomini rafforza i sentimenti familiari e crea il mito dell’uomo protettore della madre patria e della propria casa ».[6]
Di fronte allo schieramento degli uomini, le donne tacciono o sono costrette a tacere, soprattutto vengono fatte tacere le differenze di pensiero e condizione, sotto la pressione della richiesta di allinearsi all’antico ruolo di servizio, rinnovato nelle forme e mansioni, dalle crescenti necessità di una guerra totalizzante.
I corpi, reali e molteplici, scompaiono, cancellati dalle immagini fissate nei ruoli, manipolate dal potere politico che utilizza le vecchie alleanze con il potere accademico oltre che la modernità dei nuovi media.
Per l’Italia lo scenario che riconduce le donne al posto tradizionale ha cominciato a disegnarsi qualche anno prima e il 1911 risulta cruciale, anche se alcuni sintomi sono presenti da tempo.
Il vivace dibattito delle varie associazioni femminili emancipazioniste, socialiste e cattoliche, che aveva espresso il punto di maggiore visibilità nel Congresso femminile del 1908, trova il primo motivo di grave divisione solo tre anni dopo, proprio sulla guerra, in occasione della campagna per la conquista della Libia del 1911.
Tra il 1911 e il 1914 il dibattito, la diversità delle posizioni, il lento convergere su interessi comuni in nome di un cambiamento per tutte anche solo intuito, vengono, con velocità crescente, ammutoliti e mentre alcune voci femminili si fanno più roboanti, trovando la strada di un protagonismo proprio, la divisione che introduce l’adesione o meno alla guerra riconduce tutte a un servizio generalizzato o al silenzio.
Fu la voce delle cosiddette giovani, guidate dal fascino brillante di Teresa Labriola, già nel 1910, a portare ipotesi autoritarie contro le pratiche democratiche delle “vecchie” che appartenevano alla tradizione del movimento delle donne, ipotesi che si esplicitarono nel sostegno alla guerra coloniale quando proprio Labriola « plaudirà alla guerra di Libia fiduciosa che l’adesione alla linea prevalente nel governo e nel Parlamento avrebbe garantito l’accoglienza del suffragio femminile. Si abbandonava così, da parte di un settore, se non numeroso, assai significativo e rappresentativo del movimento, quella tradizione pacifista intrinseca, si potrebbe dire, alle lotte di emancipazione femminile ».[7]
Il mutamento di una forma millenaria delle relazioni tra i generi, che in Italia si era lentamente costruito a partire dal Risorgimento con voci straordinarie, cresciute nei primi cinquant’anni di unità, poteva essere fermato solo dalla guerra; un evento capace di ricondurre donne e uomini alle forme stereotipate dei ruoli che la narrazione storica si era e si sarebbe impegnata a consolidare ancora a lungo.
Certo il dibattito era ancora ristretto a una cerchia solo relativamente ampia di intellettuali: alle militanti socialiste più impegnate e in contatto con l’internazionalismo, alle cattoliche più attente ai cambiamenti sociali, ma non era diverso per gli uomini se teniamo conto del diritto di voto fortemente censitario, dell’analfabetismo diffuso, della condizione ancora feudale di molta parte del lavoro contadino.
E lo stesso dibattito ideologico ai vertici delle associazioni spesso non rispecchiava la pratica sociale di base, che vedeva molte esperienze di collaborazione. Un primo sintomo della debolezza del muoversi politico delle donne era certamente stata l’assenza di Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff al Congresso del 1908 « sia per la timidezza dei temi affrontati che per il tono dell’organizzazione, troppo incline a compiacersi della presenza della regina Elena e della principessa Letizia »,[8] ma la debolezza fu anche nell’incapacità di raccogliere l’allarme che altre donne lanciavano dalle associazioni internazionali pacifiste.
Scriveva Franca Pieroni Bortolotti: « Se ci chiediamo quali carenze politiche produssero la crepa del ’14, nel pacifismo europeo, noi vediamo benissimo oggi, che il punto debole di quello schieramento restò sempre il varco aperto tra le due zone sociali rivolte alla difesa della pace, dagli anni ’80 del secolo scorso in poi: diciamo per simboli, restò una zona di diffidenze, di malintesi, di disaccordi, tra il mondo di Bertha von Suttner da un lato e quello di Rosa Luxemburg dall’altro. Furono due mondi che non riuscirono a congiungersi e da quel varco passarono le forze della guerra ». [9]
In quei due mondi le donne erano originali pensatrici e caparbie attiviste, che operando a favore della pace, indagavano il nesso profondo fra guerra, riti e miti del patriarcato depositati nel cuore delle strutture economiche e politiche dell’Europa e mettevano in discussione, nei fatti, le tradizionali relazioni tra i sessi.[10]
Il pacifismo rappresentava l’abdicazione maschile al mito dell’eroe, che è tale solo quando e se si misura con la morte (propria e altrui), e faceva emergere una soggettività politica femminile che reclamando i propri diritti ne faceva una leva di cambiamento profondo della società, individuando con la propria inedita presenza il nesso tra libertà, democrazia, giustizia e pace.
Com’è accaduto che a passi veloci si precipitasse in un massacro le cui ragioni più profonde ci restano, in quanto viventi, misteriose?
Quali sono i meccanismi psicologici di un fenomeno sociale che riconduce in pochi anni le donne a schierarsi, in varie forme e ruoli, a sostegno degli uomini al fronte?
Quali furono le voci che tenacemente si opposero e con quali argomenti? E perché quegli argomenti non furono vincenti?
Ma soprattutto perché questa passione per la guerra?
Come accade che dopo anni di pace in Europa prevalgano le condizioni della guerra? A cent’anni di distanza sembra un enorme misterioso suicidio collettivo della popolazione che aveva raggiunto il grado più alto di ricchezza, anche se certo avendo drenato da secoli le risorse di altri continenti con l’uso delle armi e la legittimazione religiosa, culturale e politica.
Che cosa accadde lo sappiamo ma è come se continuamente ci addentrassimo nei più remoti vicoli di una città cercando di arrivare alla sua conoscenza attraverso minuziose descrizioni, senza avere mai una visione d’insieme, certo più imprecisa, ma che ci riserverebbe molte sorprese e la scoperta di interi quartieri mai immaginati.
Oscilliamo tra descrizioni con pretesa di scientificità e persistenza di miti identitari che colonizzano i sentimenti, perché il mito è una forma culturale depositata nelle nostre memorie inconsapevoli, una struttura potente che può attraversare indenne i secoli, abbigliandosi di qualsiasi modernità.
Alessandro Baricco, nella postilla messa a conclusione della sua rilettura dell’Iliade, si chiede come si possa indurre il mondo a lavorare per la pace se tutto esalta la guerra e trova il testo attuale perché « L’Iliade ci costringe a ricordare qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente vero: per millenni la guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui l’intensità – la bellezza – della vita si sprigionava in tutta la sua potenza e verità. Era quasi l’unica possibilità per cambiare il proprio destino, per trovare la verità di se stessi, per assurgere a un’alta consapevolezza etica. Di contro alle anemiche emozioni della vita, e alla mediocre statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei consueti confini, in un luogo dell’anima che doveva sembrar loro, finalmente, l’approdo di ogni ricerca e desiderio ».[11]
Gli uomini di cui si parla sono, per me è ovvio, coloro che appartengono a classi sociali che si sono liberate dal lavoro nella forma dello sfruttamento totale e il loro assurgere a Uomini tout court segnala la cancellazione della maggioranza, che viene asservita non solo nella condizione materiale ma soprattutto in una narrazione pubblica, quella del mito appunto, che ne colonizza parole sentimenti e coscienza di sé.
Scrive James Hillman che la guerra ci accompagna da sempre e fa parte dei temi senza tempo dell’esistenza umana che ricevono significato dai miti. La guerra è « normale, nel senso che ci accompagna ogni giorno e sembra non andarsene mai. […] Nei cinquemilaseicento anni di storia scritta, sono registrate quattordicimilaseicento guerre: una media di due o tre ogni anno di storia umana. […] Le statue dei nostri parchi, i nomi dei nostri viali principali e le festività civili commemorano (e non solo nelle società occidentali) l’aspetto salvifico della guerra ».[12]
Si esalta l’eroe che svetta sugli altri nella battaglia vittoriosa, un momento e una persona ritagliati dalla ferocia quantitativa delle perdite e, in questo modo, ogni dolore individuale viene annullato nella massa anonima che diventa semplicemente sfondo.[13]
La cerimonia che nobiliterà, con la retorica del Milite ignoto, alcuni poveri resti umani resi irriconoscibili dall’orrenda carneficina, è uno degli esempi più eclatanti di manipolazione pubblica di un enorme e diffuso dolore privato.
La guerra sembra unificare in un corpo unico tutto ciò che il tempo di pace divide: interessi, lotte, condizioni sociali. Si tratta della potenza di un apparato simbolico che mette il silenziatore alla realtà usandone la “massa energetica” di corpi, strumenti, istituzioni, per travestirla, trasformandola in corpo armato. Si potrebbe definire come una grave forma simbiotica: tanti corpi asserviti a un’unica mente.
La complessità delle cause viene semplificata in un sentimento che risponde a due bisogni fondamentali: quello di identità, che si costituisce attraverso la vicinanza dei corpi, ridisegnati nella medesima condizione dal fatto di indossare la stessa divisa, di mangiare lo stesso cibo nella stessa gamella, di dormire vicini negli stessi giacigli, di fare gli stessi gesti, e quello di unicità, coltivato nel sogno dell’eroismo individuale che ti toglie dalla massa anonima, ti sottrae al logorio quotidiano della vita offrendoti un nome e un’identità in cambio dell’immagine di un momento.
La realtà della guerra è ben altro, ma resta sbriciolata nei tanti tentativi di narrazione individuale, nell’enorme mole di scritti che percorre avanti e indietro tutti i fronti e non riesce mai a diventare compiutamente una distanza emotivamente collettiva e razionalmente attiva dalla guerra.
Nelle cerimonie, una vera e propria invenzione che merita uno sguardo non puramente descrittivo, i superstiti ridiventano corpo uniforme che comprende simbolicamente i morti e gli scomparsi, esprimendo nella gestualità solenne quel di più di significato esistenziale del mito guerresco che resiste proprio perché va oltre il confine tra vita e morte.
« La capacità della psiche umana di far rientrare nella normalità le situazioni più avverse, di adattarvisi, di considerarle abituali (…) ha consentito per millenni la diversificazione della specie, la sua dispersione su tutto il globo e la sua sopravvivenza » scrive sempre Hillman.[14]
Curioso come nella narrazione sia invece l’eccezionalità della guerra a dominare, indagata in tutti gli aspetti, in tutte le specificità, ma sempre riconducibili al mistero di un colossale semplificato processo cumulativo di uccisioni.
A partire dal 1914, il mito della guerra diventa totalizzante, a tal punto da trascinare e indebolire qualsiasi rappresentazione del pacifismo.
La parola neutralità, che pure in Italia esprime il sentimento profondo della maggior parte della popolazione, oltre che della maggioranza delle classi dirigenti del tempo, è una forma di rappresentazione debole di chi non vuole la guerra, è il sintomo di un ripiegamento del pensiero che viene attratto nell’orbita armata fino a perdere le proprie caratteristiche, il proprio abito. E ciò che avviene alle parole avviene per i corpi, in quel processo di continua osmosi tra narrazione e realtà il cui scarto viene occultato come se le parole fossero la stessa seconda pelle che occulta i corpi in modo analogo al grigioverde delle uniformi.
Scompare lo scarto tra realtà e narrazione, quello scarto che è il luogo del dubbio, della coscienza vigile, sempre più mortificato nelle sue possibilità espressive e nello svilimento delle persone che a quel tipo di ragione si richiamano.
Il sessismo, cioè l’insieme di meccanismi e dispositivi culturali attraverso i quali si manteneva l’esclusione delle donne dalla cittadinanza e la loro subalternità complementare al ruolo patriarcale che dà forma al maschile, riprende una sorta di dominio pacificato nel ricondurre ogni genere al proprio posto.
Il sessismo non è solo un problema di mancanza di informazioni sulle donne, ma è la forma stessa delle strutture disciplinari, sedimentato in un linguaggio neutro che, nascondendo i generi, mistifica e falsifica la storia umana nella realtà vissuta da donne e uomini in quella costruzione dei processi stessi della conoscenza di cui vogliamo tracciare la memoria.
Dalla bellezza della guerra, esaltata negli scritti che rivestivano di nuove forme temi antichi, furono ammaliati gli uomini che partirono; rivestendoli dell’uniforme, si negavano le qualità individuali e si esaltava una forma comune in cui ognuno poteva avere un’identità sicura: quella di soldato. L’abito è la nostra seconda pelle, quella che ci colloca nelle relazioni sociali esprimendo la nostra singolarità nelle forme dell’appartenenza. L’abito della guerra, armatura o divisa, esalta l’appartenenza a un corpo unico visivamente compatto, fantasmaticamente protettivo e potente.
Il dopoguerra mostrerà l’incapacità di un’intera generazione di abbandonare la forma data dal militare all’esistenza maschile: forma della gestualità, estetica dell’abbigliamento, certezza della collocazione gerarchica nelle relazioni, che diventerà incapacità di adattarsi al quotidiano, nel quale viviamo l’insostenibile finitezza della vita, dove si muta e si muore poco a poco, cellula dopo cellula, fino allo schianto finale, dentro i riti prosaici della sopravvivenza affidati prevalentemente alle donne, ai quali, non a caso, si nega fondamento economico e narrazione storica.[15]
La guerra metterà in risalto giovani uomini, ubriacati dai miti virilisti di una cultura che identificava l’umano con le nuove forme di potenza tecnica, e giovani donne, catturate nella complementarietà del femminile, che rinnova e amplifica in un’immagine collettiva quel sogno d’amore che affonda nei gesti di cura del materno. Le donne vengono assoggettate concretamente e simbolicamente ai ruoli di servizio, perfino attraverso le nuove necessarie immagini di parità nelle tante occupazioni, aperte a una presenza femminile, non dimentichiamolo, solo per l’assenza di quella maschile.
Dietro l’apparenza di forme emancipatorie, sappiamo che la guerra del 15-18, in Italia, porterà indietro l’orologio della storia per quel cambiamento inesorabile di identità e relazioni tra i generi che resta comunque centrale nelle vicende del Novecento.
Le donne diventeranno le silenziose tessitrici di un immenso apparato di riparazione dei corpi e dei territori feriti dalla guerra, nel volontariato infermieristico, nel servizio alle truppe, nella sostituzione lavorativa, nel lavoro sessuale dei corpi prostituiti, e perfino nella generazione di figli e figlie, anche illegittimi come ci dicono i dati.
Divise nelle mansioni, sono unificate nell’immaginario del servizio al corpo armato maschile: asessuate le crocerossine; inquadrate e confinate nei postriboli di guerra le prostitute, costrette al miserabile lavoro di soddisfazione a catena di una pulsione maschile che diventa difficile perfino definire sessualità; supplenti tutte quelle che accedono a lavori e ruoli tradizionalmente maschili, che scontano la modesta apertura emancipatoria con le diffidenze e il sarcasmo di chi è rimasto a casa; invisibili ancora le contadine, il cui lavoro è già misconosciuto nel salario inferiore a quello maschile e si trovano caricate di un doppio lavoro quasi insostenibile.
Sono visibili socialmente le donne della borghesia, piccola grande media, che si danno da fare per trovare un proprio posto di comprimarie nella guerra, come scrive con rabbia una delle tante sconosciute e cancellate pacifiste, Anna Adelmi, giornalista autodidatta, sulle pagine di un giornale socialista di Crema, piccola cittadina della pianura lombarda, nel 1915: « Vi ho visto, damine belle ed eleganti, vi ho visto offrire col sorriso vostro grazioso e cartoline e fiori per chi lontano da noi combatte e soffre per un ideale vostro »[16] e in questo ‘vostro’ c’è la grande intuizione di come la guerra operi una cancellazione della soggettività delle classi subalterne e di come siano soprattutto le donne della borghesia a lavorare all’apparato simbolico che sostiene la guerra.
Nella rabbia di Anna Adelmi, si avverte la consapevolezza che la guerra ha scavato un solco invalicabile tra donne, infatti alla fine tutte saranno chiamate alla supplenza che, perfino involontariamente, sosterrà l’apparato bellico.
Scrive Gibelli « Se la funzione di supplenza esercitata dalle donne in alcuni impieghi pubblici urbani, dai trasporti alla nettezza urbana alle banche, si rende visibile fino ad attirare la curiosità del pubblico come una delle stravaganze imposte dal conflitto, quella nelle pieghe della famiglia e delle aziende domestiche rimane un oscuro fardello che solo le corrispondenze private rivelano. Talvolta tutto ciò ha però altri effetti: promuove un orgoglio del sé femminile e contribuisce a ridisegnare i ruoli, assegnando alla donna un potere inedito di iniziativa. La responsabilità è un peso, ma può anche irrobustire l’idea della propria identità, giocando anche in queste aree sociali come crescita dell’autonomia, mentre quella dell’uomo si affievolisce dentro le trincee ».[17]
Significativo è il caso delle portatrici carniche, più di duemila donne tra i dodici e i sessant’anni che accettarono volontariamente di portare i rifornimenti alle truppe, a rischio della vita.[18]
La guerra sembra un affare di uomini ma senza la presenza delle donne non si capirebbe la tenuta del cosiddetto fronte interno e la potenza simbolica dell’esercito come corpo armato non sarebbe comprensibile senza il contorno dei corpi femminili assoggettati a un diverso e altrettanto potente simbolismo.
La guerra rilancia il mito della complementarietà dei generi; sarà l’immagine della crocerossina a completare il grigioverde del soldato, soprattutto quando l’enorme quantità di feriti richiederà non solo un potenziamento delle strutture ospedaliere, ma anche la produzione di immagini rassicuranti finalizzate al contenimento emotivo di ogni dubbio sul valore della meta finale.
Da un certo momento in poi le crocerossine diventeranno il simbolo più visibile del sostegno femminile alla guerra.
Un servizio volontario che molte giovani donne affronteranno spesso inconsapevoli del compito richiesto da una guerra che diventerà per tutti un’atroce novità.[19]
Queste donne diventeranno testimoni del momento in cui i corpi eroici vengono spogliati dell’uniforme e diventano individualità ridotta a carne dolorante che sfugge alla rappresentazione.
Quando il corpo è ferito ed è solo dolore, parole come terra, patria, nemico, esercito, unità divisione reggimento brigata non rendono comprensibile l’esperienza. Nel momento del dolore estremo, alle soglie della morte, la guerra diventa del tutto incomprensibile.
In quel momento i gesti della riparazione arrivano al cuore dell’esistenza come percorso di ritorno in vita, ritorno alla comprensibilità, proprio perché la vita viene com-presa. Sono le presenze femminili a restituire agli uomini l’esistenza, nei suoi limiti e nel soddisfacimento di necessità elementari che garantiscono la sopravvivenza, assumono il compito di riportare alla comprensione ciò che è incomprensibile, di prendere ciò che è diventato realtà fuori da qualsiasi progetto di significazione e restituirlo a dignità umana.
Chiuse dentro le uniformi che le inquadrano al servizio dei corpi maschili devastati dalla guerra le donne svelano gli uomini a se stessi attraverso le pratiche di cura, manipolazione, manutenzione dei corpi. E cominciano a svelare a se stesse la propria esistenza, a sperimentare l’inconsistenza del mito eroico e, pur nel ruolo ancillare e nella permanenza di quel sogno d’amore che nell’educazione delle ragazze dava forma sociale al destino femminile, sperimentano una resistenza fisica, un coraggio, una competenza professionale e umana che prima non avrebbero riconosciuto a se stesse.[20]
Sono le stesse qualità che altre sperimenteranno nel fronte interno ma, proprio perché collocate sul confine tra vita e morte, le crocerossine si vestiranno di un orgoglio del proprio ruolo che avrà la doppia funzione di protezione personale da dubbi e interrogativi più profondi e riparazione simbolica dell’immagine straziata dell’esercito di cui conoscono, giorno dopo giorno, il frantumarsi dell’ideologia guerresca in povere individualità doloranti.
Nelle fotografie spicca il bianco dell’uniforme, segno distintivo che costituisce un vero e proprio ambiente visivo e contribuisce alla deformazione percettiva evocando, per analogia, un corpo asessuato. Non è casuale che il bianco prevalga anche attraverso l’uso del grembiale che copre e annulla l’abito grigio, adottato per alcuni servizi e ruoli.
Scriveva Kandinsky, con la sua straordinaria intuizione sinestetica, che il bianco: « è quasi il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi. E’ un mondo così alto rispetto a noi, che non ne avvertiamo il suono. […] il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto […] un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell’origine, prima della nascita ».[21]
Tutti abbiamo capacità sinestetiche di cui non siamo consapevoli: vedere i suoni, sentire i colori, incanalare la complessità della percezione in una prevalente che riesce a risignificare l’intera esperienza e, spesso, sono i dettagli a determinare la costruzione di immagini la cui potenza riesce a determinare l’intera esperienza.
In mezzo al dolore, all’odore del proprio corpo che si porta addosso la sporcizia delle trincee, dei propri escrementi, delle proprie ferite, della morte vicina, le crocerossine sono portatrici vive di quel bianco silenzio che parla di annullamento e rinascita, di corpo femminile puro virginale incontaminato, di candore statuario e dedizione materna.
Uno straordinario protagonismo femminile che, inquadrato nell’uniforme, alimenta la bellezza simbolica della guerra.
La storia è incomprensibile senza una grande operazione di immaginazione.
È una lunga storia quella del dominio maschile sull’esistenza di donne e uomini, un dominio inimmaginabile senza la persistenza del mito bellico: dentro l’impronta delle relazioni umane il dominio assoggetta e vincola gli stessi uomini a forme dell’essere e dell’esistere dalle quali è difficile liberarsi finché la contropartita in privilegi è tale da offuscare i guadagni, che pure verrebbero da relazioni fondate su reciproca libertà.
Del resto, accade anche alle donne di accomodarsi, magari malamente, dentro le forme sociali disegnate su gerarchie e privilegi, perché la ricerca dell’autonomia e della libertà comporta fatiche molto eccedenti quelle già presenti nel quotidiano vivere di molte.
Proprio la lunga terribile continuità di quella guerra cominciata nel 1914, ci dice che non è cooptando quote di donne nel sistema esistente che viene automaticamente iscritta l’autonomia di ogni donna a determinare la propria storia.
Potremmo, tutti e tutte, cominciare a decostruire il mito dell’eroe che ancora infetta la cultura e sostiene il militarismo e le forme che lo mimano anche nelle espressioni collettive della vita civile?
Qual è stata la ferita, la mutilazione dei sentimenti nel vivere quotidiano di chi è sopravvissuto?
Quale silenzio è stato imposto?
Anche grazie a queste mutilazioni emotive passerà il fascismo.
Mutilazioni di corpi e di sentimenti, di pensieri e di voci, in maggioranza femminili.
Una storia monca, deformata, manipolata è stata sedimentata nei libri come nei monumenti e ancora produce il suo veleno.
Sono certa che il vissuto di quelle donne passò, spesso in modo sotterraneo, alle figlie, con i gesti più con le parole, con la memoria dei corpi ignorata dalle retoriche ufficiali, una memoria che contribuirà a produrre l’imprevisto protagonismo delle donne italiane nella guerra successiva.
Ci vorranno decenni perché le donne riescano a rendere visibile il proprio corpo reale, a riconoscerlo come impasto mutevole della propria esistenza sociale.
Manca un’epica del possibile, un’epica del quotidiano.
Riusciranno le donne a rendere visibile un’altra bellezza? Quella che ha radici nella nascita, luogo di sangue e dolore ben diversi, in cui ci si misura in prima persona affrontando l’irreversibilità di un processo dentro il quale attivarsi significa arrendersi.
L’epica della nascita che ci trae dal nulla come figlie e figli, costruendoci, scissione dopo scissione, nel tempo della gestazione, tempo definito eppure sempre imprevisto nel suo esito e conclusione, quell’epica dell’aprirsi di un corpo vivo a un’altra vita.
Raccontare il rovescio della guerra, quel mondo quotidiano in cui le donne hanno operato perfino senza consapevolezza, perfino per dovere, perfino per scelta di sostegno alla guerra, ma hanno operato a preservare la sopravvivenza, individuale e sociale, delle relazioni umane, di figlie e figli da nutrire ed educare, dei corpi e delle fabbriche, delle coltivazioni, del tessuto istituzionale spicciolo, postine tranviere impiegate: sopravvivenza senza la quale si paralizzano i governi.
Alle nuove studiose e ai nuovi studiosi resta il compito di narrare l’epica della pace, che non è assenza di guerra ma la vita. Si tratta di operare una torsione dello sguardo che consenta di capovolgere l’immaginario sul mondo, costruire nuove forme della monumentalità, vedere la vita e chi se ne prende cura, anche guardando il passato e facendone memoria.
Un compito per molte generazioni, augurandoci che il baratro della guerra non le inghiotta nella complicità delle pratiche di morte. Ma questa è davvero un’altra storia.
 
Relazione al Convegno “Le italiens et la grande guerre”, Université Aix-Marseille, 12/14 novembre 2015, Aix en Provence


[1] Rosangela Pesenti (a cura di), Velia Sacchi, Io non sto a guardare, Manni, Lecce, 2015
[2] Da più di vent’anni dirigente dell’Unione Donne in Italia (già Unione Donne Italiane), www.udinazionale.org, e Presidente dell’Associazione nazionale Archivi dell’UDI che raggruppa l’Archivio centrale, con sede a Roma, e gli archivi locali, la cui guida è disponibile online all’indirizzo http://www.udinazionale.org/introduzioneallarchivio.html
[3] Marc Bloch, Che cosa chiedere alla storia?, Castelvecchi, eBook 2014
[4] Cfr.: Anna Bravo, La conta dei salvati, Laterza, Roma 2013
[5] Arlette Farge, La storia ricuperata, in Dufrancatel Farge Perrot Werner, La storia senza qualità, Essedue Edizioni, Verona, 1979, 1981, p. 14
[6] Françoise Thébaud in Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne, Il Novecento, Laterza, Bari, 1992, p. 29
[7] Annarita Buttafuoco, Straniere in patria, in Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, UDI Circolo La Goccia, Roma, 1988, p. 116
[8] Buttafuoco, cit., p. 114
[9] Franca Pieroni Bortolotti, La donna, la pace, l’Europa, Franco Angeli, Milano 1985, p. 320
[10] Cfr.: Bertha Von Suttner, Abbasso le armi, Centro Stampa Cavallermaggiore, 1996 (Ed. or. Dresda 1892, Fratelli Treves Editori, Milano 1897); Tra le varie traduzioni di scritti di Rosa Luxemburg, Lettere contro la guerra, Prospettiva Edizioni, Roma, 2004; Mirella Scriboni, Abbasso la guerra, BFS Edizioni, Pisa, 2008; Elda Guerra, Il dilemma della pace, Viella, Roma, 2014
[11] Alessandro Baricco, Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano 2004

 
[12] James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano, 2005 (Ed. or. 2004), p. 30
[13] Sul tema dell’eroe e dell’eroismo cfr.: Robin Morgan, Il demone amante, La Tartaruga, Milano, 1998; Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, Garzanti, 1992
[14] Hillman, cit., p. 42
[15] Sulla cancellazione dell’economia della riproduzione cfr.: Silvia Federici, Calibano e la strega, Mimesis, Milano, 2015
[16] Anna Adelmi, Donna in guerra, Franco Angeli, Milano 1997
[17] Antonio Gibelli, La guerra grande, Laterza, Roma, 2014, p. 104
[18] Dacia Maraini (a cura di), Donne nella grande guerra, Il Mulino, Bologna, 2014
[19] Una delle testimonianze più efficaci sarà il romanzo di Vera Brittain, Generazione perduta, Giunti, Firenze, 2015 (Ed. or. Testament of Youth, Arrow edition, 1960. First published by Victor Gollanez, 1933)

 
[20] Stefania Bartoloni (a cura di), Donne al fronte, Jouvence, Roma 1998
[21] Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano, 1989, (Ed. or. 1912), p. 66