Da vent’anni il mese di luglio mi riporta la memoria di Genova. Un appuntamento con me stessa prima di tutto, la scrittura nell’intimità di parole non esposte.
Ripropongo intanto la trascrizione dal mio diario del 2001:
Domenica 22 luglio
Il giorno dopo. Una stanchezza cupa che intride le ossa e i pensieri, al telefono i concitati resoconti di chi era da un’altra parte e ha vissuto lo stesso panico, i compunti e ipocriti commenti televisivi, un residuo di bruciore agli occhi e difficoltà di respiro, traccia e sogno di una giornata frammentata in attimi lunghissimi ed ore brevi, avvertiamo l’inesorabile sfasatura dell’alfabeto con cui si misurano le parole come se il respiro non riconoscesse il passo consueto.
Partenza presto, la sveglia puntata alle cinque viene preceduta dal rumore in cucina: Giordano sistema i panini nello zaino impaziente di incontrare gli amici come se si trattasse di un appuntamento solenne e collettivo con la storia.
Sorrido con indulgenza mentre mi vesto senza fretta, respingo i pensieri che girano intorno alla tragedia del giorno prima, mi preparo per la manifestazione come per una gita estiva, saremo in tanti, penso, e non può succedere nulla, sarebbe un’enormità. Riempio il tempo laccando le unghie dei piedi e metto le ciabatte estive invece delle scarpe che avevo preparato, rinuncio anche alla camicia per una canottiera che il sole mi lascerà incisa addosso come il segno bruciante della giornata.
All’inizio il sapore è quello di una gita scolastica perché il piazzale è pieno di ragazzini e ragazzine, con gli adulti c’è l’emozione di una rimpatriata.
Dalla Malpensata partono dodici pullmann, anche Giordano è con la FIOM ma non sul mio stesso pullman per fortuna e io mi godo il viaggio con Anna e i suoi racconti d’Africa.
L’arrivo è sul mare e ci avviamo lungo il marciapiede come per una passeggiata.
Facciamo una sosta alla chiesa di Boccadasse dove mi aspettano gli amici genovesi per aggiornarmi sulle vicende dell’intera settimana. Anna decide di restare a pregare perché il tragitto della manifestazione le sembra troppo lungo per le sue forze. Ci diamo appuntamento per il ritorno.
Incontro due amiche che non vedevo da tempo, anche loro hanno i figli da qualche parte.
Sole a picco, mangio quasi tutto quello che ho portato per alleggerire lo zaino mentre cerchiamo il gruppo della FIOM dove trovo anche Giordano con i suoi amici.
La partenza è un’ora prima del previsto perché siamo già tanti, trecentomila ci dicono, e in effetti non riusciamo a trovare la testa del corteo.
Si cammina lenti sul lungomare, chiacchieriamo, metto il cappello e la crema solare, andiamo su e giù rallegrate dalla moltitudine di questa generazione di figli e figlie, da questo inatteso essere insieme, godiamo dei colori, dei cartelli col senso di una materna fierezza che ci distrae dalla realtà, ci sediamo a riposare…
Poi l’attesa si fa lunga, le persone avanzano disordinate, qualcuno corre avanti e indietro col viso preoccupato, invita a fare i cordoni perché ci sono scontri più avanti, ma pochi lo ascoltano.
La sua voce ci riscuote, riporta di colpo esperienze lontane, ci alziamo, scrutiamo il fumo dei lacrimogeni, prendiamo le mani di chi è vicino, ci leghiamo per le braccia e la catena si forma veloce mentre acceleriamo il passo.
Di colpo siamo alla curva che ci porterà verso l’interno della città, le ragazze accanto a noi legano una sciarpa sul viso, anch’io prendo un fazzoletto e me lo lego al collo con un filo d’inquietudine, poi diventa smarrimento. Mi chiedo dove sia Giordano mentre ci invitano a correre veloci, tengo il cappello nella mano con cui stringo l’amica per non perderlo (poi in una micrososta lo infilerò nello zaino). Scorrono veloci immagini che non ho il tempo di guardare, ragazzi che scappano, polizia con i manganelli alzati.
Correte, correte: siamo di colpo nell’ombra della strada cittadina, ciechi dopo il sole del lungomare e mi prende l’angoscia di essere in trappola, di non poter tornare indietro. E sarà così infatti, ma la trappola sarà il lungomare per l’ultimo spezzone di corteo che verrà separato da noi.
Anna, uscita serena dalla preghiera di Boccadasse, vedrà i ragazzini rincorsi e picchiati a sangue, nascosta in ginocchio in una rientranza del marciapiede, ma lo saprò il giorno dopo, al telefono perché non riusciremo a tornare sul lungomare per l’appuntamento del ritorno.
Mi sforzo di credere all’uomo sul palco che fornisce informazioni rassicuranti e indicazioni sulla meta. Indica la strada in cui dobbiamo svoltare, ma non ricordo se abbiamo se l’abbiamo fatto. Di colpo la strada era un varco aperto ad un agguato. L’ho pensato con questo nome mentre la polizia avanzava incurante delle nostre braccia alzate al grido “non violenza”. Quando arrivano i lacrimogeni la fuga è disordinata e pericolosa. Gli occhi bruciano, l’acqua versata di mano in mano per proteggerli, ci teniamo strette noi tre per la paura di essere schacciate dalla massa in fuga. Voglio tornare indietro, un desiderio potente e irrazionale a cui le mie compagne per fortuna si oppongono. Invece bisogna andare avanti, non staccarsi dal corteo, stare all’interno, mentre vorrei correre rasente i muri dei giardini deserti in cerca di protezione.
Ci incoraggiamo a vicenda, non siamo tra sconosciuti, ma a tratti il panico riprende tutti mentre i lacrimogeni incalzano. Alterniamo corse disordinate alla ricerca di un passo cadenzato, un ritmo comune che dia solidità al cordone delle nostre braccia legate.
Attraversiamo una lunghissima galleria incolumi, ci abbracciamo commossi, le case non sono più mute e minacciose, qui c’è gente alle finestre che applaude, incoraggia, butta secchi d’acqua per rinfrescarci.
Ci sentiamo al sicuro, rallentiamo il passo, saliamo su una gradinata per avere una visuale più ampia e di colpo dalla galleria esce fumo e la gente riprende a correre gridando. Sono stanca di questa fuga, la paura per Giordano mi stringe lo stomaco. Anche noi riprendiamo a correre.
La meta è una piazza troppo piccola nella quale ci invitano a non sostare per consentire l’arrivo degli altri, ci danno indicazioni per un’altro posto, ci avviamo senza capire, camminiamo per forza d’inerzia con gruppi ciondolanti come noi.
Ci affidiamo alla cartina e poi alla corrente di persone che s’infila in una specie di largo corridoio tra due edifici ciechi, lo stadio e il carcere scopriremo poi, ci porta in un vasto piazzale dove i pullman in sosta sono una confortante inaspettata apparizione.
Vicino al nostro, Giordano e i suoi amici dormono sdraiati per terra e la mia tensione si scioglie ridendo. E’ finita. Un compagno ci accompagna in fondo ad una stradina laterale dove c’è un bar, i ragazzi si accalcano sulla porta intorno al barista che distribuisce acqua e ghiaccioli, a noi, di evidente maturità, consente di entrare per andare al gabinetto. Dentro ci sono quasi solo donne e un’intimità che non ha bisogno di parole.
Quando usciamo c’incamminiamo lentamente succhiando il ghiacciolo come bambine felici. Di colpo un’esplosione alle spalle sembra capovolgere il cuore, odore di fumo, grida, la polizia con le visiere abbassate, davanti a noi alcuni ragazzi rovesciano due cassonetti, mi sento di nuovo in trappola in questa strada blindata e di colpo deserta. Ci mettiamo a correre, ci siamo prese istintivamente la mano e riusciamo a sgusciare tra un cassonetto e il muro, come nei film, penso, prima che il varco si chiuda e siamo in salvo vicino al pullman. Giordano mi sta cercando preoccupato e al cellulare Francesco mi chiede se è vero che c’è uno scontro al piazzale dei pullman, alla radio parlano di una chiara provocazione della polizia. E’ vero, ero lì, come lì, sì a mangiare un ghiacciolo, come un ghiacciolo, è tutto assurdo, impossibile spiegare a chi è lontano e non riesce a tranquillizzarsi. Gli autisti preoccupati vogliono partire immediatamente, mancano molte persone all’appello e li convinciamo a restare.
Il mio pullman sarà l’ultimo a partire dal piazzale deserto quando sapremo che anche l’ultimo dei nostri quattordici passeggeri bloccati sul lungomare è stato raccolto. Anna è con loro, mi comunica un compagno. Mi addormento di colpo, mi sveglio all’autogrill, scendo per andare in bagno, risalgo come un automa, tolgo le ciabatte nuove che hanno avuto il loro battesimo di fuoco, ho freddo, mi metto un paio di calze, lo scialle sulle gambe e mi addormento di nuovo.
Nel sogno si mescolano brandelli della giornata ai volti di giovani donne incontrate: in quale corso ho conosciuto la ragazza bruna che mi ha presentato agli altri come la sua formatrice? In quale punto del corteo mi ha chiamata l’educatrice con il sorriso smagliante sotto la zazzera bruna e chi è la giornalista che mi presenta a sua sorella che a sua volta dice di aver seguito una mia lezione?
Per un giorno il tempo si è fermato e dilatato rimescolando la mia storia.
A casa metto i piedi a bagno con gocce d’olio balsamico, un regalo di mia madre che non ho mai usato ed ora sento acuta la sua assenza, aspetto che torni Giordano guardando gli ultimi telegiornali perché l’ansia non mi abbandona anche se lo so ormai al sicuro con gli amici. Appena arriva mi stendo sul letto e piango di rabbia. Come nel 1973, a gennaio, quando la polizia ha ucciso Roberto Franceschi alla mia prima manifestazione.
Memorie pesanti e ognuno porta la sua parte, da solo.