Alle storiche il compito di raccontare quando dove e come le donne, non astratti soggetti filosofici ma concrete e viventi, hanno ricomposto lacerazioni, ricostruito condizioni di sopravvivenza, conservato sistemi, ambienti, persone, culture, utilizzando quei gesti di cura affinati nel corso di una lunga, varia, creativa e sofferta storia di divisione del lavoro tra produzione e riproduzione della vita della specie umana.
La segregazione e la discriminazione sociale, a lungo motivate con il ruolo materno, in larga parte invenzione modellata intorno all’onnipotenza pubblica del ruolo paterno, hanno determinato, insieme a fin troppo visibili danni sociali e sofferenze individuali, una minore dimestichezza delle donne con la violenza: armi, oggetti, gesti, relazioni, organizzazioni, costruite sull’idea di un nemico da sottomettere, umiliare ed eliminare fisicamente, insomma tutto ciò che nel senso comune riguarda l’organizzazione e la pratica della violenza, dalla guerra ai pestaggi.
L’evidenza di questa minore dimestichezza va riconosciuta nel cosiddetto privato ma soprattutto nel cosiddetto pubblico[1], resa visibile e debitamente elaborata, perché rappresenta un patrimonio di conoscenze e pratiche che possono essere trasmesse con reciproca soddisfazione e utilità a bambini e giovani di entrambi i sessi, altrimenti, continuamente rivendicata dalle donne può diventare astratta litania fino a sfociare nel fondamentalismo della innata positività del genere femminile.
Non avendo carichi o incarichi pubblici, cioè di rappresentanza e rappresentazione del rapporto tra bisogni condizioni istanze leggi progetti e diritti in ordine a quel bene pubblico che costruisce e giustifica la politica, non posso spendere il mio tempo per stendere e presentare un concreto progetto che esemplifichi la praticabilità sociale di quanto ho sinteticamente affermato.
Continuo a considerare una conquista democratica l’indennità di “servizio” riconosciuta a parlamentari e governanti perché non abbiano quelle occupazioni e preoccupazioni economiche che impediscono spesso perfino di pensare, anche se oggi mi sembra che l’indennità sia così cospicua e articolata da assomigliare più al privilegio economico e sociale dell’antico regime che alla modernità di un sogno democratico purtroppo ancora in fieri e questo certo riguarda direttamente anche i meccanismi di selezione del ceto politico. Comunque a loro spetta il compito di tradurre in concretezza ciò che oggi è collettivamente indispensabile ed è loro quindi la responsabilità anche delle ‘non scelte’ e non solo quando sono guidate da convinzioni profonde, ma soprattutto quando sono frutto di opportunismo, calcolo meschino, piccineria fino all’ignoranza e all’incompetenza difese con arroganza.
Scrivo come privata cittadina, a nessun titolo quindi, né accademico né altro, solo perché richiesta a ragione della mia storia, accetto la responsabilità di espormi con qualche parola che mi auguro sia sufficientemente sobria da non occupare lo spazio delle mail quotidiane con inutili ridondanze.
Penso che la nonviolenza, per uscire dalle definizioni un po’ manualistiche[2]di pratiche nobili ma generiche, andrebbe ripensata a partire dagli individui umani concreti e quindi donne e uomini, adulti/e e anziane/i, bambini e bambine, ragazzi e ragazze di varia età provenienza estrazione sociale e storia famigliare, per poter esprimere appieno quell’efficacia sociale che determina il circolo virtuoso dei comportamenti che legano le vite individuali al destino comune e possono consentire di cambiare il mondo in un habitat più favorevole a tutti e tutte.
Le attuali articolazioni intorno alla nonviolenza hanno molto a che fare con la storia del genere maschile e come donna mi sento, giustamente, a posto con la coscienza, perché sono per lo più pratiche che mi sono totalmente estranee, delle quali non so nemmeno se saprei appropriarmene in momenti eccezionali, perché anche i gesti hanno bisogno di qualche rodaggio e spesso si possono usare più utilmente quelli già appresi, come hanno ampiamente dimostrato molte donne durante le guerre.[3]
Non è mio compito indicare agli uomini le strade da percorrere per confrontarsi con la propria storia, ma certo che lo facciano è urgente per tutti e, come si dice ai bambini (non sempre correttamente) ‘è per il vostro bene’. Per aiutare tale scelta sarebbe certo utilissima una riequilibrata rappresentanza dei generi nelle istituzioni politiche e via via, per la regola civile di non sopraffazione tra i sessi, in tutte le istituzioni pubbliche e le professioni e i mestieri. Non è utopia perché se è possibile immaginare oltre è possibile anche realizzare e, tanto per stare in tema, con la violenza siamo già andati molto oltre l’immaginabile.
Come donna mi interessa uscire da una definizione di genere che mi inchiodi ad una storia o ad una tipologia ma sento che per imparare/inventare pratiche nonviolente non posso sfuggire al confronto con la storia del genere in cui sono stata collocata alla nascita e in cui sono cresciuta.
Devo misurarmi con omertà, omissione, sottomissione, ignavia, opportunismo, silenzio, dissimulazione, adattamento, manipolazione, insomma tutti i comportamenti che favoriscono la costruzione di una complicità muta e radicata, in forme simili ma per ognuna diverse, in modo capillare, nella scansione delle ore quotidiane, nelle abitudini minute, nelle strutture relazionali delle famiglie e dintorni.
La violenza, in qualunque forma, ha bisogno di una palcoscenico in cui manifestarsi, con comparse che si muovono in sintonia con le scenografie, lo sfondo, e spettatori seduti al proprio posto, persone con ruoli diversi che consentono e condividono il significato dell’azione principale, perfino nel rito dell’esecrazione.
In questi ruoli di comparse e spettatori il confine tra donne e uomini conosce anche zone incerte e mescolanze, ma ad uno sguardo d’insieme è certamente delle donne il compito di ripulire, riassettare, preparare pranzo e cena agli astanti, soffiare il naso ai bambini, inamidare le camicie, riassettare e ripulire la scena per restituirla ogni giorno e ovunque pronta all’uso.
Non a caso i sistemi politici oppressivi o le associazioni delinquenziali non stanno in piedi se le donne escono dalla complicità e assumono la responsabilità della parola e dell’agire.
Non è facile cambiare perché sono comportamenti impastati con le mille strategie di sopravvivenza fisica e psichica a cui siamo costrette a ricorrere proprio per l’impossibilità di accedere alla gestione diretta dei beni e delle risorse, ma non per questo oggi, nella condizione di cittadine, siamo meno responsabili.
Occorre pensare la nonviolenza in analogia con quella manualità fine che occorreva un tempo per mondare il riso, togliere il filo ai fagiolini, insomma pratiche che richiedono di aguzzare la vista, affinare le parole, misurare i passi, verificare i conti ogni sera, e non allo scadere della finanziaria, impegnarsi nella solitudine della quotidianità perché la rappresentazione collettiva diventi più condivisione di una festa che rito di protesta, celebrazione della conquista di ciò che siamo, come piattaforma che sostiene ciò che vogliamo, così come abbiamo felicemente intuito e appena sperimentato in molte manifestazioni femministe degli anni ’70.
Sono passata consapevolmente dal singolare al plurale e non solo per la felice abitudine linguistica appresa nel movimento delle donne che è stato la culla della mia vita, dopo quella preparata da mia madre, ma perché so che c’è per tutte se non l’esperienza, almeno la memoria di molti aspetti di una condizione comune e perché mi piacerebbe che questo ‘noi’ si traducesse in una rivolta consapevole, pacifica, ironica e determinante come quella di Lisistrata.
Non quell’autointerdizione, singolarmente un po’ triste, al fare bambini, che è oggi una responsabilità individuale interamente sulle spalle e sulla pelle delle giovani donne, del cosiddetto mondo sviluppato, che si misurano con la riduzione delle opportunità e la mortificazione della propria soggettività (per dirla in modo elusivo) ma una solidale consapevolezza che impegnando ognuna nel protagonismo della propria vita non intacca le basi della sopravvivenza, ma riesce a destrutturare i pilastri del potere, che sono solidi solo finché noi continuiamo a pensarli tali.
Non mi appassiona il moderatismo delle idee che non ha niente da spartire con la cautela del fare, l’attenzione alle diversità, l’ascolto e il dialogo, il rispetto di storie, condizioni, sensibilità; non amo il linguaggio opaco di molta parte del ceto politico, e purtroppo soprattutto di quello che ha maggior spazio e potere nei media, che confonde scenari e mete con i passi concreti in cui si misura la fatica di camminare come se fossimo regrediti a un tempo che ignora l’invenzione delle mappe, spiegandoci che il massimo raggiungibile è il cammino che si misura, senza l’aiuto di una bussola, tra il sorgere e il calare del sole.
In questo moderatismo un po’ astratto un po’ ‘buonista’ (e scusate il pessimo neologismo) cadiamo talvolta, con le migliori intenzioni, anche noi donne, o almeno questo sembra a me, conficcata nei miei giorni piccini in una periferia ammutolita nell’incantesimo di un’arcaica modernità.[4]
L’urgenza dell’introduzione di una clausola di non sopraffazione tra i sessi, che non è traducibile nemmeno lontanamente con le quote, ed è efficacemente sintetizzata nello slogan del 50&50 in parlamento e nelle assemblee elettive, si motiva e si sostiene proprio con la scelta nonviolenta.
Aver parlato di quote in un tempo in cui eravamo ancora visibili come innovativo soggetto politico che avviava importanti riflessioni sul senso della politica, dalla revisione dei suoi fondamenti discriminatori nei confronti delle donne, alle questioni della rappresentanza e della cittadinanza, è stato un errore politico proprio perché ha posto come obiettivo moderato ciò che poteva essere frutto di contrattazione, confondendo l’orizzonte con i passi per arrivarci.
Non ce ne siamo rese conto allora? Solo alcune, con scarsa o nessuna possibilità di essere ascoltate. Ero allora, secondo la definizione che altre hanno dato di me, una giovane promettente dirigente dell’Udi, ma non avevo ‘la storia giusta’ per dare visibilità e contrattualità sociale ad un’intuizione che i fatti hanno poi realizzato.
E certo non è stata d’aiuto alla riflessione politica l’esaltazione di un’astratta libertà femminile, data in natura anche alle donne secondo la lezione del cogito di cartesiana memoria, proclamata da tutta quella parte di movimento che esprimeva anche un’intellighenzia femminile accademica e quindi presa in considerazione, e ammirazione, da parte del risicato ceto politico femminile selezionato prevalentemente al ribasso ormai anche dai partiti della sinistra storica.
Da liberazione a libertà, dalla concretezza delle vite all’astrattezza delle filosofie, abbiamo dovuto misurare ben presto la nostra arroganza bianca e occidentale non solo con le dure istanze delle donne di altri colori e altri continenti, ma anche con le precarietà di varia natura (quella del lavoro è solo la più eclatante), di figlie e figli di cui abbiamo la responsabilità anche se non li abbiamo direttamente partoriti.
Mi espongo parlando di errore perché ritengo che l’importanza di questo dibattito richieda uno sforzo di autenticità e il giudizio politico è quella parte di me che si confronta con l’altra proprio perché non ne vuole la cancellazione e nemmeno la sconfitta, ma intende definire un terreno d’incontro in cui sia possibile se non camminare almeno sostare in un bivacco, insieme.
La clausola di non sopraffazione tra i sessi è resa necessaria proprio dalla rinuncia alla violenza, sia quella tradizionalmente definita e praticata, in maggioranza dall’universo maschile, sia nell’accezione più sottile e ancora sommersa che esprime la complicità di molta parte dell’universo femminile, e rappresenta il primo passaggio per cominciare a misurarsi con le pratiche nonviolente e costruire le condizioni perché possano liberamente espandersi e arricchirsi quelle che ognuno inventa e sceglie per la propria vita.
La cancellazione delle donne, anche attraverso la selezione e la distorsione della visibilità, seguita alla sconfitta politica del quel soggetto che dalle ragazze della Resistenza e le madri della Costituzione arriva fino al il femminismo degli anni ’70, segnando alcune delle più importanti tappe di realizzazione della Costituzione stessa, è stato certamente uno dei fattori determinanti per l’imbarbarimento della politica e l’arretramento della società.
L’urgenza del riequilibrio della rappresentanza non può però fermarsi ad una regola o uno slogan.
Sappiamo che non basta essere donne e la scuola ce lo dimostra con la persistenza di modelli e saperi trasmessi con una fedeltà che anni fa, non a torto, ha motivato l’accusa alle insegnanti di essere le vestali della classe media.
Ho scelto di fare l’insegnante perché pensavo che la scuola poteva essere un luogo di esercizio della cittadinanza nella feconda relazione con giovani generazioni.
La scuola non ha cambiato me (e nel tempo ho escogitato e praticato tutte le forme di resistenza nonviolenta all’ottusità, alla prevaricazione, alla mortificazione di allieve e allievi) ma io non ho cambiato la scuola che è rapidamente peggiorata con l’introduzione di logiche aziendali obsolete ormai perfino nei luoghi della produzione dove sono nate.
La scuola è il luogo che più di ogni altro ci cattura nella complicità, spesso involontaria, richiamandoci alla tutela della sopravvivenza quotidiana che disperde in mille gesti e parole e fatiche di cura la possibilità di fermarsi e scegliere consapevolmente.
Se da un lato la scuola sta in piedi grazie alle donne non è detto che abbia davvero un senso l’azione di babysitteraggio sociale, misconosciuto sul piano economico come su quello dell’immagine sociale, ed è davvero miserabile l’immagine collettiva della mia generazione, oggi la più vecchia presente nella scuola, per il silenzio complice sulla trafila di pratiche umilianti alle quali vengono costretti giovani colleghi e colleghe che per necessità avventura o passione vogliono ancora cimentarsi con questa nobile professione.
Per questo so che è indispensabile ma non basta il riequilibrio della rappresentanza se non cominciamo a discutere dei meccanismi di formazione della rappresentanza stessa.
La rappresentazione pubblica della differenza di genere può aprire alla rappresentazione di tutte le differenze, di generazione come di salute fisica e perché no, in attesa di più complesse e sofisticate definizioni sociali e visto che siamo comunque ai primordi, non mi dispiacerebbe ricominciare a pensare anche in termini di classe.
Ma questo apre altri capitoli e ho già abusato della pazienza di chi vuole leggere fino alla fine.
Rosangela Pesenti
5 maggio 2007
[1]Cosiddetto perché spesso i gesti del “privato” consentono e promuovono cittadinanza, mentre sono vigenti e tollerate nel “pubblico” logiche di trasmissione famigliare di opportunità, patrimoni e altro che sono in contraddizione con l’universalismo dello Stato liberale prima che contrarie alla democrazia.
[2]Non ho niente contro i manuali purché si affianchino e non sostituiscano opere, esperienze, persone come spesso accade nella scuola.
[3]In Italia abbiamo testimonianza di questo nella Resistenza al nazifascismo, cfr. lo straordinario lavoro di ricerca di Anna Bravo e, purtroppo, poche altre, spesso più sconosciute di quanto meritino.
[4]Sinteticamente: grande benessere e dissipazione, crescenti ricchezze, ignoranza e alienazione di senso. Insomma il ‘profondo nord’, la malattia di una ‘questione settentrionale’ ostinatamente e ottusamente ignorata.