Forlì, 19 maggio 2022
Non mi sono mai definita filosofa e certo ancora oggi definirsi tale è un azzardo, comunque governato dalle istituzioni accademiche, alle quali non appartengo.
Questo termine è stato messo accanto al mio nome per un disguido nella comunicazione, di cui non ho responsabilità.
La definizione di filosofa non è un falso, come testimonia il mio curriculum, pubblicato sul mio blog, ma io mi ci sento a disagio e già questo disagio è un sintomo, e quindi un indizio, del mio rapporto con la filosofia.
Gli indizi, come sappiamo, sono fondamentali per la storia, sono gli indizi a guidarci nei territori omessi o censurati dalle mappe. Quindi posso spogliarmi del disagio e agire la nudità simbolica, che è anche condizione di libertà, solo esponendo il problema, che per me è anche parte dell’insofferenza per le definizioni, soprattutto quando enfatizzano una posizione sociale in una società che non ha mai smesso di riprodurre gerarchie di valore, con pesanti ricadute sulle condizioni materiali.
Parafrasando Judith Butler, che si chiede “A chi spetta una buona vita?”[1], possiamo chiederci a chi spetti parlare di filosofia in un paese che considera ancora la disciplina come oggetto di studio riservato alle scuole eredi del classismo (e sessismo, e razzismo), escludendo che possa interessare chi frequenta istituti tecnici e professionali: un assurdo, anche tenendo conto dei criteri scolastici, come se potessimo sapere chi ha il “talento filosofico” a quattordici anni.
La definizione che preferisco per me stessa è ‘insegnante’, un lavoro che ho svolto onestamente e nel quale ho espresso il meglio dei miei talenti; professione svalutata, mortificata e asservita che resta però lo snodo per definire la qualità umana e il futuro di un paese democratico.
Pensando a qualcosa da raccontare oggi, immediatamente i pensieri si sono aggregati intorno a tre parole chiave: POSIZIONAMENTO POSTURA PAROLA.
Qual è la mia condizione nel mondo? quale posizione assumo a partire dalla mia condizione? qual è la postura del mio corpo che rivela, nell’imprescindibile comunicazione non verbale, il significato profondo delle mie parole?
Come donna nata a metà del Novecento nella campagna lombarda, dove ancora vivo, so che per il mio genere è recente il diritto di guardare il mondo e pensarlo e pensandolo trovare le parole per dirmi e dire: si tratta della strada percorsa nella vita che mi auguro di proseguire ancora per un po’.
Dichiaro perciò una posizione nata da un percorso di consapevolezza che ha conosciuto momenti di oscurità, dubbio, fatica e impreviste illuminazioni.
Mi posiziono sulla direzione, per me diventata tradizione, definita da Mary Wallstonecraft (1759-1797) in un’opera del 1792 con il titolo, scandaloso per l’epoca, Rivendicazione dei diritti della donna, in cui scrive: “È ora di effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne – è ora di restituire loro la loro dignità perduta – e di far sì che esse, come parte della specie umana, operino, riformando se stesse, per riformare il mondo”[2].
Quindi, come avremmo detto quasi due secoli dopo, partire da sé, dal cambiamento di sé per cambiare il mondo. Consapevolezza della condizione, scelta della posizione che definisce sguardo, postura, parola.
Noi, la generazione degli anni ’70, eravamo anche l’esito della tenacia con cui molte donne avevano cambiato la propria vita nelle case e nelle relazioni intime portando le istanze di cambiamento nelle istituzioni e ovunque. Non solo la parità quindi, ma il mutamento delle forme sociali e dell’immaginario.
Questa posizione mi lascia una grande libertà di movimento e so che la mia vita stessa sostiene e mostra il mio pensiero.
Per affrontare il compito di oggi prendo a prestito la teoria d’occasione di Lidia Menapace, che è stata una teorica del pensiero politico in Italia, spesso misconosciuta perché non accademica e non lo era per doppia scelta: perché dichiarandosi marxista nel ‘68 si è giocata la cattedra universitaria e per la vocazione (mi sembra questa la parola più adeguata) a parlare con un linguaggio semplice e comprensibile, mai semplicistico, con una postura mai ieratica, mai nobiliare, mai borghese, mai cattedratica. Lidia era semplicemente se stessa e per questo esprimeva il percorso di molte donne, me compresa, che hanno dovuto superare molti ostacoli per esistere come donne ed essere semplicemente se stesse.
Come lei scrive (e da lei chiamata direttamente in causa quando lo pubblica nel 2012),[3] “teoria d’occasione, non nel senso mercantile ma montaliano del termine, vuol dire trovare una forma di comunicazione che partendo sempre da una relazione concreta col tempo e lo spazio, riesca a girare su tutto l’orizzonte, non trovando sempre, spero, ‘una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia’ e in ogni caso non smettendo di cercare ‘la maglia rotta nella rete’.”
Per questa occasione, sollecitata dalla mostra sulla figura della Maddalena, non ripasso quindi lo sguardo filosofico maschile sulle donne perché non voglio sostenere il modello culturale per il quale si studiano gli uomini e si appiccicano qua e là le donne come se fossero post-it: tengo come bussola e riferimento, insieme a Lidia Menapace, Carla Lonzi che, nel Manifesto di Rivolta femminile del 1970, scrive: “La donna ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva. Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili.
Chiediamo referenze di millenni di pensiero filosofico che ha teorizzato l’inferiorità della donna. Della millenaria umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna. Sputiamo su Hegel.”[4]
Carla Lonzi (1931-1982) cresce in una famiglia della media borghesia quindi il verbo “sputiamo” è scelto con precisione e non a caso.
Potrebbe essere utile leggere questi testi, studiarli e perfino ripetere parola per parola come si faceva un tempo con le preghiere, come rimedio per ripulire i neuroni e deviare il fluire del pensiero dai percorsi preordinati.
Difficile parlare di filosofia di donna in donna perché a scuola e all’università abbiamo studiato solo uomini e anche oggi entrano raramente in programma perfino le filosofe del Novecento: Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein e Hanna Arendt, che hanno impresso una torsione al pensiero filosofico da cui non si può più prescindere.
Significa che non ci sono state donne con inclinazione filosofica, con talento per la filosofia?
Dalla cancellazione violenta operata dagli uomini proni al maschilismo della cultura patriarcale (oggi purtroppo riprodotto anche da donne immesse nel sistema in forma paritaria e quindi subalterna) cominciano a emergere alcuni nomi. Emerge dalla nebbia dei secoli Elena Lucrezia Corner Piscopia, (Venezia, 5 giugno 1646 – Padova, 26 luglio 1684), un’erudita italiana ricordata come la prima donna a ottenere una laurea al mondo. Una giovanissima eccezionale studiosa che avrebbe voluto conseguire la laurea in teologia, favorita dal padre ,nobile veneziano, ma osteggiata duramente dal cardinale Gregorio Barbarigo che riteneva “uno sproposito” il fatto che una donna potesse diventare “dottore”, perché avrebbe significato «renderci ridicoli a tutto il mondo»; Elena quindi ottenne finalmente la laurea in filosofia nel 1678 senza però l’autorizzazione ad esercitare l’insegnamento.
Questo traguardo non rappresentò una spinta alla parità del diritto allo studio per le donne; si sarebbe dovuto aspettare fino al 1732 per la laurea in Italia di un’altra donna, la fisica bolognese Laura Bassi.
La conoscenza dell’esistenza di Elena Corner Piscopia è stata magistralmente diffusa dal romanzo di Patrizia Carrano nel 2001.[5]
Mi sono fatta l’idea che tra il 1400 e la fine del 1700 molte filosofe, donne con attitudine filosofica anche impegnate a difendere il proprio operato sociale di curatrici e consulenti, donne visionarie e colte, organizzatrici pragmatiche e ideatrici di socialità, siano state messe al rogo come streghe e i loro scritti bruciati, magari dalle famiglie stesse per evitare di essere compromesse.
Anche questo è un indizio da seguire. Com’è accaduto che da una totale cancellazione delle opere femminili oggi, grazie allo scavo degli studi femminili, ritroviamo opere importanti, biografie straordinarie che ci consentono di rileggere la storia? Sono ritrovamenti i cui esiti sociali sono del tutto imprevedibili anche se si possono intuire.
L’indizio ci porta alla scolarizzazione di massa. La lotta per l’alfabetizzazione, e successivamente per il diritto allo studio con l’innalzamento dell’età dell’obbligo scolastico, a lungo dibattuta e diventata legge all’inizio degli anni ’60 con la scuola media unificata, ha immesso anche le bambine nella scuola.
Sono una di quelle bambine a cui la scuola ha aperto un pertugio per esistere come donna. Che la figlia di un muratore e di una sarta, nata a metà del secolo scorso, che ancora vive in un paesino del profondo nord parli di filosofia è il segno della rivoluzione pacifica delle donne.
Se ripercorriamo il dibattito parlamentare e quello pedagogico, idealmente da Maria Montessori a Ada Prospero Gobetti, e la storia dell’Unione Donne Italiane dai treni della felicità alle colonie estive fluviali e marine, ritroviamo il filo di una democrazia italiana che le donne costruiscono senza mai dimenticare i bambini e le bambine, dal diritto al nido, alla scuola d’infanzia, al tempo pieno nella scuola elementare e media, fino all’accesso all’università. Un diritto che si fonda sul valore sociale della maternità come libera scelta, diritto mai compiutamente recepito e sempre sotto attacco.
Spesso quelle donne non declinavano il linguaggio al femminile, le parole arrivano più avanti, proprio dalla sedimentazione delle azioni concrete grazie alle quali moltissime di noi, prima generazione che accede in forma diffusa alla scuola e comincia il percorso verso diplomi e lauree, hanno avuto una madre che le ha sollecitate e sostenute e padri che hanno accondisceso, perfino con qualche orgoglio.
Non penso sia casuale che proprio negli anni ’90, quando le ragazze superano i ragazzi in diplomi e lauree, sia dal punto di vista numerico che nei risultati finali, cominci l’attacco alla scuola pubblica, decreto dopo decreto, innalzamento dei costi, peggioramento delle condizioni base della vita scolastica fino al disastro attuale.
Non si tratta di una decisione dichiaratamente contro le donne, simile a quelle che prendevano i tribunali dell’Inquisizione o alle leggi dello Stato liberale e poi fascista, ma del funzionamento irriflesso e quasi naturale dei dispositivi patriarcali; infatti, peggiorando le condizioni di lavoro dell’istituzione deputata alla riproduzione della cultura, a maggioranza femminile, si induce alla subalternità e, a ricasco, si favorisce il possibile ritorno di una passività disincantata che non sa dove e come riprendere ad agire.
Qualsiasi discorso non può prescindere dal fatto che per qualche millennio e fino alla fine del Novecento tutte le formazioni politiche di governo del territorio che conosciamo, comprese le forme degli Stati moderni, si sono strutturate sull’esclusione delle donne dal governo delle risorse e hanno considerato le donne come corpi a disposizione:
- per il soddisfacimento sessuale dei maschi
- per la cura e manutenzione gratuita dell’esistenza di luoghi e persone
- per il possesso della riproduzione umana, figli e figlie e quindi anche di tutti i dispositivi e le istituzioni di riproduzione culturale dell’umano, al fine di favorire la conservazione delle differenze sociali, gerarchiche e di reddito.
Questo è il retaggio della cosiddetta cultura occidentale, condizione tuttora esistente in molti paesi del mondo, contro la quale molte donne si battono quotidianamente rischiando anche la vita, senza dimenticare che i diritti delle donne sono sotto attacco ovunque in questo momento, anche dove abbiamo cambiato le leggi.
Le donne e gli uomini reali si sono poi posizionati in modi diversi rispetto alle leggi ma le leggi sono state comunque il recinto in cui gli uomini hanno potuto muoversi con maggiore agio e sicurezza di sé e le donne hanno dovuto confrontarsi con le proprie gabbie, spesso invisibili e rese invisibili dalla cecità collettiva e istituzionale.
Negli anni ’80 e ’90 si comincia diffusamente a parlare di storia delle donne e a innescare quel recupero di figure femminili e azioni individuali e collettive senza le quali il racconto del passato risulta distorto quando non falsificato.
In quegli anni crescono filosofe oggi riconosciute: Adriana Cavarero, Laura Boella, Rosi Braidotti, Caterina Resta, Elena Pulcini, Francesca Rigotti, per citarne solo alcune e restare alle italiane.
Da quando cito le donne non manca qualche benevolo patriarca gentile che nella conversazione non mi proponga una sfilza di nomi maschili quasi a sondare la mia preparazione perché … certamente è giusto citare le donne ma intanto mettiamo lì i pilastri del pensiero e poi ci occupiamo dei decori, come se il posto delle donne nella filosofia fosse quello delle tende alle finestre, per restare alla metafora architettonica.
E i patriarchi gentili e benevoli hanno molte seguaci tra le donne perché se studi solo uomini dalla prima elementare al dottorato, e le donne vengono solo ammesse e infilate qua e là come eccellenze riconosciute dagli uomini, è chiaro che dimostrerai il tuo sapere e ti racconterai a te stessa con le parole degli uomini pensando che se non li citi fai un errore o perfino un torto.
Dei torti fatti alle donne ci occupiamo solo se si tratta di reati gravi e farli riconoscere come tali è stata una strada lunga e impervia su cui ancora camminiamo.
Nel mio ultimo romanzo la protagonista risponde alla nipote che le chiede consigli per la vita: Ogni giorno fai qualcosa per te, qualcosa per un’altra donna, qualcosa per il tuo genere. La nipote ribatte: e gli uomini? Le donne fanno già molto ogni giorno per gli uomini senza nemmeno accorgersene[6].
Prima di tutto dobbiamo smettere di guardarli sempre con gli occhiali che li ingrandiscono, come ci ricordava Virginia Woolf.
Quando abbiamo sentito un uomo tacere perché si vergognava della sua ignoranza di tutti i testi scritti da donne? Al massimo si scusano bonariamente, certi che si tratti di una mancanza lieve, invece è grave, la cancellazione simbolica è il sostrato che genera la violenza reale.
Lidia Menapace diceva che l’omissione del femminile dalla lingua è un genocidio simbolico che può sempre favorire i massacri reali.
L’8 marzo di quest’anno la coordinatrice dei Centri antiviolenza di Bergamo mi ha invitata a tenere una giornata di formazione per le operatrici di un centro di pronto intervento per donne con bambini e ragazze.
In un passaggio ho letto di seguito alcune definizioni che i filosofi hanno dato della donna e l’operatrice addetta alle pulizie ha esclamato: “ma sono stupidi?”
Una donna attenta, discreta, consapevole dei propri limiti eppure in questo caso non ha potuto trattenersi e non le è venuto in mente di scusarsi per la sua ignoranza, giustamente.
Voglio osservare che pulire è un lavoro indispensabile alla vita e mentre si pulisce si possono perfino fare riflessioni filosofiche, quindi la signora delle pulizie rappresenta l’autonomia dell’essere umano molto più dei filosofi che hanno variamente pensato il mondo intorno al maschio adulto benestante sano preferibilmente bianco e occidentale, che si vantava un tempo (si spera ora non più) di non saper trovare da solo nemmeno i calzini nel cassetto.
Il mio percorso anomalo e ondivago, da ragioneria a filosofia, all’insegnamento di storia e letteratura nella scuola di secondo grado, alla specializzazione in Counselling, in Analisi Transazionale e poi al dottorato in epistemologia della complessità, è stato accompagnato, dal 1978, dall’incontro con le donne dell’Udi, concrete visionarie che sono state fondamentali per la costruzione della democrazia e la ricostruzione di un paese devastato nel dopoguerra.
Quindi il mio è un posizionamento dentro la mia storia ma anche nella storia di questo paese.
Ma qual è l’immagine che può esprimere il posizionamento di una donna, mi sono chiesta.
Oggi siamo sopraffatte dalle immagini e il rischio è quello di guardare senza vedere.
Visione significa vedere, percepire con la vista, ma anche avere un’idea, vivere un fenomeno di percezione, talvolta anche mistica, di ciò che non passa attraverso gli occhi, visione è immagine che si fa pensiero, immagine che realizza un pensiero, la capacità di vedere nella realtà ciò che gli altri non vedono.
Penso a Ildegarda di Bingen ma anche ai Chiari del bosco di Maria Zambrano e molte altre visionarie.
L’idea dell’Uomo come umanità pensante e dominante ci accompagna ovunque e ha trovato realizzazione, diffusa poi dalla cosiddetta cultura di massa, nell’immagine dell’uomo vitruviano, celeberrimo disegno di Leonardo che rappresenta le proporzioni ideali del corpo umano, cercando di dimostrare come possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure “perfette” del cerchio, che simboleggia il Cielo, la perfezione divina, e del quadrato, che simboleggia la Terra.
L’ Uomo Vitruviano è il disegno realizzato da Leonardo da Vinci nel 1490, rappresentazione grafica delle proporzioni del corpo umano descritte nel trattato De architectura di Vitruvio (I secolo a.C.)
Il disegno in cui l’uomo è centro e misura del mondo ha avuto grandissima fortuna, che continua anche oggi, ed è l’immagine che più di tutte esprime l’idea di Uomo come sinonimo di umanità che percorre la storia della filosofia. Un uomo: maschio adulto sano bianco. Da questa bellissima ed esaltante immagine restano escluse tutte le donne, quindi metà dell’umanità di qualsiasi tipo insieme a tutti i maschi con difetti o disabilità fisiche, tutti i maschi di pelle nera, rossa, gialla ecc. ecc.
Ricondurre il disegno, sia pur bellissimo, al suo contesto dentro l’opera leonardesca ed evitare di usarlo a sproposito, come indicatore di eccellenza della cultura umana, sarebbe già un bel passo.
Conosciamo la potenza e l’efficacia delle immagini nel costituire il nostro immaginario del mondo.
In quell’immagine posso riconoscermi solo con una negazione del mio corpo, una distorsione della mia esistenza e un’abrasione violenta del mio pensiero.
Quell’immagine non mi comprende, quindi mi esclude, e nemmeno mi comprende, cioè non mi capisce, esprime un’epistemologia implicita, un modello di conoscenza che oggi posso paragonare alla convinzione tolemaica del sistema solare, alla cartografia della terra senza le Americhe e l’Australia, alla cartografia di tutti i nostri atlanti scolastici che ancora usano le proiezioni di Mercatore tagliando quasi di un terzo i territori dell’emisfero australe, Africa e Sudamerica.
Le immagini ci guidano nella collocazione, nei gesti, nelle posture, indicandoci strade da percorrere e identità da assumere come abiti mentali che diventano dispositivi inconsci di rappresentazione e autorappresentazione.
Le immagini sono i filtri che guidano il nostro modo di vedere o non vedere anche dove guardiamo e sono noti i giochi relativi alla percezione visiva e le distorsioni percettive tra immagine e sfondo, misure, colore ecc.
Nella distorsione percettiva, indotta dalla cultura scolastica, le donne come genere sono lo sfondo irrilevante quando non invisibile.
Pensiamo a come l’abbigliamento stesso sia un linguaggio che definisce i corpi, i contesti, le relazioni.
Mentre giravo intorno alla questione dell’immagine, sollecitata da un testo che Adriana Cavarero ha pubblicato quasi dieci anni fa[7], ho pensato a come la postura sia un sistema di comunicazione connesso alla prossemica definita dagli spazi e mi è venuto incontro dalla memoria un quadro che ho visto nel 1989 alla Gare d’Orsay a Parigi dove ho portato una classe a vedere gli impressionisti.
Ecco l’occasione che mi è venuta incontro e mi chiede “teoria”.
Mentre i miei due figli di otto e cinque anni restavano incantati davanti alle ninfee blu di Monet, io venivo letteralmente catturata da un quadro piccolo di una pittrice che non conoscevo, per mia ignoranza pensavo allora, dato che non avevo mai studiato storia dell’arte e invece avrei poi scoperto sconosciuta anche a chi aveva studiato la disciplina e poco o nulla considerata perfino da insigni professori della materia.
Un piccolo quadro, olio su tela, 56×46 cm., La culla, dipinto nel 1872 da Berthe Marie Pauline Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 – Parigi, 2 marzo 1895), pittrice impressionista francese, conosciuta per essere stata una dei fondatori (sic) del movimento pittorico, unica donna fondatrice del movimento.
Più mi chiedevo se esistesse un’immagine femminile che rivelasse un diverso posizionamento nel mondo, una diversa postura e fosse immagine dell’inclinazione su cui riflette Cavarero come ontologica differenza rispetto alla rettitudine monolitica dell’io maschile che innalza il vessillo fallocratico sul mondo, più mi s’imponeva questa immagine e da questa arrivavano poi le altre, di pittrici che contemporaneamente, o anche prima delle filosofe, indicano una riflessione altra, non subalterna e non imitativa del maschile in una professione, anche questa come altre, a lungo interdetta alle donne.
Perché questo quadro mi sono chiesta? A prima vista una Maternità e così viene descritto, ma cosa mi sta dicendo la pittrice? Perché il quadro s’intitola La culla?
Quando lo dipinge Berthe ha 31 anni e ritrae l’amatissima sorella Edma con la sua bambina.
Il titolo, La culla, segnala che non si tratta di una maternità, quindi, pur sapendo che si tratta della sorella con la sua bambina, il titolo ci invita a prescindere da questo dato biografico.
La bambina è sdraiata, una postura ovvia per una neonata, ma proprio guardando l’ovvio possiamo scoprire ciò che non vediamo dell’esistenza.
L’orizzontalità di una postura inerme, vulnerabile, che rimanda alla vulnerabilità umana: l’essere umano dorme per gran parte del tempo di vita e ogni essere umano sa di essere stato in quella condizione neonatale e di essere vulnerabile come dato costitutivo della vita.
La bambina non è tra le braccia della madre, come nella splendida retorica delle Madonne, ma è deposta in una culla, un luogo solo per lei, un luogo protetto ma separato dal corpo materno che veglia accanto, non in simbiosi ma in una prima e crescente separazione che evoca la libertà di abitare il mondo con agio e indipendenza.
Indipendenza che non è autosufficienza, come non può mai essere nella realtà, ma in una relazione di rispetto delle specificità dentro l’esistenza, che è costante e irreversibile mutamento.
Potremmo considerare questa culla come la prima evocazione della futura stanza tutta per sé su cui Virginia Woolf riflette nel testo pubblicato nel 1929[8]. La concretezza materiale di una condizione che diventa simbolica.
La neonata è raffigurata in una posizione di autonomia e nascosta, protetta ma non ingabbiata, dal velo, che la rende figura indistinta evocando quel divenire di cui non possiamo sapere nulla.
La donna è seduta accanto, la postura lievemente inclinata, il viso appoggiato alla mano: è presente ma non si china sulla culla: questa donna pensa e il suo gesto è speculare a quello della bambina che, dormendo, pensa. Pensiero che s’accompagna al pensiero.
Le mani della donna fanno due cose diverse contemporaneamente, una mano sembra sostenere il “pensiero” con un gesto consueto nell’espressione pittorica, l’altra trattiene il velo costituendo uno spazio d’intimità e di separazione per la neonata, uno spazio protetto che la piccola può abitare con tranquillità, uno spazio autonomo dalle braccia della madre, un proprio spazio nel mondo, che la madre definisce con disponibilità alla mutevolezza, in relazione con la vita della figlia.
Se guardiamo le forme tra lei, la sua mano e la bambina, intuiamo il disegno di un triangolo scaleno (una squadra) che s’intreccia a quello disegnato dal velo e si ripete capovolto nel velo che forma la cortina del letto. La donna stessa è un triangolo e così il risvolto del velo che ricade sulla culla.
Un gioco di triangoli e perfette asimmetrie.
Non la simmetria ma l’asimmetria, insita nella realtà del rapporto tra donna e bambina, madre e figlia e in tutti i rapporti umani, tutti egualmente e diversamente inseriti nel succedersi della generazione e delle generazioni.
Il triangolo scaleno segnala l’asimmetria del tempo di vita umana.
Non c’è verticalità, ma le intersezioni appena avvertite dei piani evocano un’orizzontalità che diventa circolarità.
Emerge il pensiero femminile che non si presenta con la verticalità autocentrata del cogito cartesiano “Penso quindi sono” ma ha un’inclinazione, direbbe Adriana Cavarero. Non è un pensiero retto ma inclinato.
Confliggendo con l’Uomo monolite ogni donna percepisce l’umanità nella generazione anche quando non genera figli e figlie, sa che l’umanità è due perché lei esiste anche se omessa.
Se torniamo al dipinto la culla sembra avere una consistenza marmorea, quasi ad evocare un grande vaso alchemico, un bacile, un catino, una delle forme più antiche degli strumenti umani, che arriva dal paleolitico insieme all’ago e all’intreccio delle tessiture, rappresentazioni del cammino umano sempre lasciate in ombra dal prevalere di lance e frecce nell’iconografia e quindi nell’immaginario della cosiddetta preistoria.
La bambina sembra galleggiare dolcemente sulla superficie acquosa della culla (quasi un rimando al liquido amniotico), la manina appoggiata alla testa nel gesto speculare all’immagine materna sulla quale sembra modellarsi, come accade nel rapporto educativo in cui si seguono le orme di chi ci guida per imparare a trovare il proprio cammino. Riconoscendo ci riconosciamo.
Un’immagine del pensare: l’origine stessa del pensiero nell’immagine della neonata: si tratta del pensiero relazionale che nasce dall’essere pensati/e.
Penso perché sono stato pensato, sono stata pensata, e il pensiero nasce nell’inclinazione, che è la porta aperta tra biologia e storia. Qui è immagine riflessa, riflessione quindi, sulla nascita e sul nascere.
La generazione è centrale nella condizione umana ed è l’inizio per ognuno e ognuna, scena espulsa dalla memorabilità della rappresentazione culturale, appiattita sull’enfasi sentimentale e sull’irrilevanza storica.
Quest’immagine ci invita alla “torsione del pensiero”, come dico sempre con l’azzardo di un’analogia con la figura del nastro di Moebius.
Possiamo pensare che l’inizio dell’umanità non sia l’incontro tra un uomo e una donna creati adulti, Adamo ed Eva della Bibbia, ma possiamo pensare all’origine come alla mutazione di un neonato o una neonata partoriti e accuditi da una scimmia e ripercorrendo a ritroso la storia umana, e della vita sul pianeta, possiamo risalire indietro fino alla prima forma di vita unicellulare.
Nell’esperienza della generazione noi conosciamo la mutazione per cui figlio e figlia non possono mai essere la copia di un genitore. Nessuna umana o umano è mai il clone dei genitori.
Lynn Margulis presentando la sessualità umana come La danza misteriosa ripercorre la strada evolutiva che è la nostra eredità storico-genetica. “La stessa dualità fa parte del segreto della danza misteriosa, un atto che sta a metà tra il quotidiano e il trascendente, al bivio in cui il volgare incontra il sacro e la realtà s’innesta sul sogno. […] Qualunque ne sia l’espressione socioculturale, la sessualità intrinseca degli esseri umani risale nel tempo a una lunga serie di antenati non umani e disumani.” [9]
Il discorso andrebbe lontano ma, tornando all’immagine, potremmo dire che Berthe Morisot ha ritratto le intersezioni che fanno della nascita l’apparire dell’asimmetria nel succedersi delle generazioni e l’emergere della condizione umana situata.
L’inclinazione della madre è quella necessaria inclinazione di cura che consente ogni nascita.
Penso perché sono stato pensato e quindi curato, infatti c’è un limite oltre il quale la trascuratezza determina l’impossibilità di sopravvivenza.
Un’inclinazione che emerge dalla storia del femminile ma può diventare anche immagine della comune umanità, se il maschile la riconosce, si riconosce e riconoscendosi la pratica.
Ricordo l’esperienza del lavoro sulla nascita raccontata dalla straordinaria maestra Maria Bacchi di Mantova nel Gruppo Generazioni della Società italiana delle storiche quasi trent’anni fa.
Una delle sue allieve della scuola elementare ha scritto: sono nata da mia mamma ma anche nei pensieri della gente che mi aspettava (cito a memoria).
“Nessuno cresce se non è sognato”, scriveva Danilo Dolci in forma poetica, – la sua frase dovrebbe essere sempre ricordata nella scuola insieme a quella di Basaglia “da vicino nessuno è normale”-, l’allieva di Maria lo racconta in modo filosofico e Berthe Morisot ce lo fa vedere.
La svolta nella storia umana è data dall’essere sognati e sognate dalle madri.
La madre, liberata dal vincolo della maternità coatta, dal servizio alla specie, dall’asservimento al potere patriarcale, è una donna che pensa e il suo pensiero vive nella responsabilità e nella cura di sé e del mondo.
La culla perciò diventa la rappresentazione del pensiero che è relazione situata e non ne può prescindere.
Pensate quanto è diverso Il pensatore di Rodin (1880) di qualche anno più tardi, nella sua nudità improbabile, nella potenza simbolica e nell’intensità di un raccoglimento che chiude il corpo su di sé; pensiamo quanto sia tradizionale la maternità blu di Picasso del 1905: splendide opere, indizi però di un pensiero stereotipato e/o ripetitivo, considerato normale e quindi normalmente interpretato con artistica maestria.
Nel quadro di Berthe Morisot il pensiero è esposto nella leggerezza delle velature che accompagnano la solidità scura del corpo femminile, materia oscura di cui facciamo fatica a intravedere l’origine, la nostra origine. Realtà che a lungo è stata definita ‘oscena’ nell’esistenza fisica del corpo materno partoriente, occultato e spesso maltrattato, ancora oggi, perché confinato ostinatamente ‘fuori scena’.
Nel quadro i corpi esistono senza essere esibiti, presenti senza essere esposti. Presenti a sé prima che a noi.
Lo spazio della madre è libero, il velo è alle sue spalle, lei è pienamente riconoscibile come donna ma il suo spazio è più piccolo rispetto a quello della culla. La piccola dorme in uno spazio visivamente più grande perché il suo tempo è nel divenire di un futuro al quale la madre non appartiene, com’è ovvio (e forse giusto) che sia.
La vita è succedersi delle generazioni, la madre è visibile nella pienezza della determinazione storica del suo esistere, la bambina è un essere ancora indeterminato, il corpo fluttua nella culla e l’unico tratto riconoscibile è il gesto della manina appoggiata alla testa. Anche il fatto che sia femmina è quasi solo una lieve evocazione in una condizione, quella neonatale, che è ancora aurora di possibilità, mistero di future inclinazioni, segno di un divenire da decifrare.
Qui la madre esprime una cura non oblativa, non asservita, un legame materno non meramente biologico ma biostorico (come direbbe Emma Baeri), e nella generatività del divenire di corpi pensanti la postura materna può essere assunta da chiunque, se al centro è la culla, che diventa ambiente e habitat.
La madre c’è, è presente, ma la bimba non sarà mai più con lei come lo è stata nel suo formarsi dentro il ventre materno: la separazione è per sempre e la separazione è la prima condizione perché cominci il dialogo.
Emerge il pensiero femminile situato e relazionale, che prima di tutto pensa la maternità come condizione umana generativa e non come imperativo biologico e asservimento alla riproduzione della specie.
Sappiamo da Elisabeth Badinter che la maternità emerge come sentimento in tempi recenti[10], da quando le donne possono governare la propria sessualità, decidere i tempi della riproduzione e decidere del proprio tempo.
Potremmo dire che solo se le donne riconoscono a se stesse il diritto di pensare il mondo, possono mettere al mondo esseri che entrano a far parte dell’umanità libera e liberata.
Solo una donna capace di pensiero autonomo sa guardare e guardandoti ti vede e vedendoti ti fa esistere.
Contro la lunghissima guerra che gli uomini fanno con la legge che ne legittima la violenza, anche armata, le donne emergono nella storia politica con una diversa inclinazione e la postura della cura che è un modo di essere nel mondo anche per il mondo.
Il quadro, la visione di Berthe, ci chiede di fare un passo fuori da ciò che si è sedimentato come ‘natura’ per vedere il sostrato profondo della cultura che le donne cominciano a sovvertire.
Tutti i quadri di Berthe, nell’innovazione del suo sguardo impressionista, sono uno spostamento di visione dentro il quotidiano, quel luogo obbligato per le donne che può diventare occasione e radice di un cambiamento storico diffuso e irreversibile proprio grazie alla sua diffusione.
Potremmo continuare analizzando il colore, utilizzando magari le intuizioni di Kandinsky per il quale Il blu evoca la trascendenza e possiamo pensare che il rosa appena accennato evochi l’utero materno da cui l’infante è appena uscita in una mutazione irreversibile ed ora è immersa nel bianco che contiene tutti i colori quindi tutte le possibilità.
Il blu dell’abito della donna e del fiocco in testa evocano la trascendenza del pensiero, il corpo è la vera trascendenza, infatti quale evento più della nascita genera pensiero? Quante volte le madri ci hanno detto: non farmi stare in pensiero!
Se portiamo con noi questa matrice di pensiero per leggere la storia dentro la quale si muove ancora il nostro presente possiamo vedere meglio là dove abbiamo guardato e non abbiamo visto e ripercorrere anche la storia della nostra repubblica democratica facendo emergere materia per una nuova visione.
La donna ritratta nel quadro è la sorella di Berthe.
Si tratta di Edma Morisot, anche lei con talento per la pittura, che aveva ritratto Berthe nel 1865 in piedi con l’abbigliamento da pittrice rivolta al quadro sul cavalletto, lo sguardo intenso e la mano col pennello sospesa, restituendo alla sorella amatissima un’immagine di sé come artista che Berthe avrebbe affermato con grande tenacia, contro un mondo che negava alle donne talento e valore. In quel quadro Edma le ha detto: “Io so chi sei: tu sei un’artista” e Berthe lo diventerà in un mondo che pur riconoscendola in vita, nell’ambito della pittura impressionista, non scriverà la sua professione nemmeno sulla lapide della sepoltura.
Nel quadro La culla, Berthe restituisce a Edma il riconoscimento di ciò che è: non una madre, ma una donna che pensa nella condizione data dall’essere diventata madre.
La sorellanza è prima di tutto una storia di riconoscimento tra donne e può generare la sororità come atteggiamento, inclinazione, postura del pensiero nell’appartenenza a quel genere femminile continuamente eluso e cancellato dalle storie.
Conosciamo poco la storia della sorellanza, parola più spesso evocata come manifestazione occasionale del presente che nel suo dipanarsi attraverso le vicende umane. La sorellanza che genera le zie, personaggi fondamentali dei sistemi famigliari e dei processi di trasmissione educativa, ignorate dall’asse rettilineo delle genealogie e invece presenti nelle inclinazioni affettive generose e generative.
Mentre la fratellanza viene invocata come fondamento della relazione tra uguali, dimentichiamo che, in nome della fratellanza, viene stroncata, proprio nella Rivoluzione francese, la sorellanza e cancellata l’esistenza delle relazioni con cui comincia invece la dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges, che scrive nel suo preambolo: “le madri, le figlie, le sorelle, rappresentate dalla nazione, chiedono di essere costituite in Assemblea Nazionale”.
Nel testo scritto da uomini il soggetto è l’uomo e che la parola uomo non comprenda le donne viene affermato con la ghigliottina; in quello scritto da Olympe la donna e cittadina non dimentica di essere madre, figlia, sorella, non dimentica di esistere in una trama relazionale che fonda l’assunzione di responsabilità politica riconoscendo una condizione più antica del patto politico.
Edma e Berthe, che si guardano l’un l’altra e raccontano la sorella con l’abilità dell’arte, mi ricordano altre sorelle: le tante sorelle che fanno la Resistenza e vengono uccise, come accade alle sorelle Arduino che aprono il libro Compagne di Bianca Guidetti Serra.
Le sorelle Irene e Eve Curie figlie di Marie Skłodowska e Pierre Curie, cresciute da una scienziata.
Le sorelle figlie di Irene Nemirowsky che ritrovandosi ritrovano l’ultimo libro della madre e quel libro, come un filo tenace, le riporterà alla storia della famiglia sterminata dal nazismo e alla scoperta della grande scrittrice che è stata la madre prima della guerra.
Penso alla nascita della nostra Repubblica democratica.
Le donne dopo l’8 settembre agiscono una postura partendo da una condizione che diventa posizionamento e quindi una presa di posizione enunciata dalla parola.
Agiscono come madri, figlie, sorelle allargando i sentimenti oltre la cerchia della famiglia per un agire che diventa pubblico pur essendo necessariamente clandestino.
È il passo che oltrepassa la cura della vita propria e dei propri cari a fondare la politica delle donne.
Le donne della Costituente stabiliscono una sorellanza femminile quando si tengono per mano alla votazione dell’art. 11 della Costituzione.
Pur nascosta dalla necessità di misurarsi con un mondo patriarcale e maschilista, possiamo leggere il sentimento della sorellanza nell’agire politico con le donne e per le donne.
Le leggi che queste donne hanno fatto approvare ci dicono che siamo state pensate e pensando insieme, di donna in donna, di generazione in generazione la storia della repubblica è anche la storia del movimento delle donne che ha mutato la condizione di tutte mutando, ognuna, il pensiero di sé.
Il nostro pensiero ha più possibilità, più spazio, perché siamo state pensate e pensate non per avere privilegi rispetto ai maschi ma per avere condizioni comuni e condivisibili, possibilità analoghe, strade percorribili per tutte e tutti.
La postura diventa scelta, posizione e suggerisce le parole, determina il significato delle parole.
PAROLE
Il pensiero non ha limite apparentemente, ma ha il limite delle parole con cui lo esprimiamo, le parole sono un contenitore flessibile potenzialmente infinito nella successione dei viventi ma limitato nell’esperienza individuale.
Forzare la lingua a dire ciò che avvertiamo del mondo, gli avvertimenti che ci arrivano, è l’avventura che abbiamo intrapreso.
Pensiamo a quanto sia difficile introdurre il femminile di alcune professioni o ruoli.
Più sottile è il sistema delle metafore che riproducono l’idea dell’uno come paradigma della specie umana.
Perfino il dibattito attuale sul queer, interessante dal punto di vista della rottura dei paradigmi delle identità prefissate presenta un aspetto ambiguo nel rinnovato aggiramento per omissione del femminile: è stata velocissima l’adozione dell’asterisco, così come della shwa, mentre non è mai stato dismesso dall’uso il maschile (cosiddetto neutro) colonizzante dell’immaginario, dimostrando che quello che fa ostacolo è ancora il femminile, il riconoscimento del femminile.
La pandemia da Covid19, che da poco (forse) ci siamo lasciate alle spalle, ha svelato la necessità di tutti i lavori della riproduzione umana: quelli di cura, educazione, assistenza delle persone, la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione, la manutenzione dei luoghi e il mantenimento delle condizioni di vivibilità. Casa, terra, ambiente tutto e scelte umane.
Ci sono scelte inderogabili da operare da parte delle istituzioni che devono diventare inclinazione della società intera nella praticabilità da parte di tutte e tutti.
La follia dell’investimento nelle armi e nelle guerre è il monolite del patriarcato capitalista, sordo a ogni richiamo dell’esistenza, che è voce diffusa e pratica di cura.
Tornando all’occasione da cui nasce questo discorso possiamo guardare alla Maddalena come la figura che s’inclina nell’ascolto e nella compassione e per questo è testimone, prende parola per testimoniare ciò che vede, apostola di verità.
Il travisamento della sua storia ricorda l’intera storia che ha messo a tacere le donne fino a definirle incapaci di testimonianza veritiera.
Un tenace e ancora lungo lavoro di sorellanza ci aspetta per far ascoltare la voce delle donne che chiedono giustizia nei tribunali. Non dimentichiamo che si chiamavano “Maddalene” le ragazze recluse per il loro comportamento, per la colpa di aver agito scelte proprie.
Questa mostra celebra la lunghissima durata dell’immagine di una donna e noi con Maddalena possiamo ritrovare un lungo cammino di tenace presa di parola a cui non possiamo più rinunciare.
Dedicato a tutte le donne che testimoniano di sé concludo con il quadro dipinto da un’amica artista: L’equilibrista.
Si potrebbe definire la magistrale capacità di tenere in equilibrio l’asimmetria.
La postura diritta è l’esito della tensione tra molte asimmetrie da tenere in equilibrio in un interno e di una visione necessariamente dimezzata che, forse, allude allo sguardo capovolto dentro di sé mentre guarda il mondo e noi.
L’immagine in primo piano, che tiene in equilibrio la mela, rimanda al corpo che si tiene in equilibrio sulla sfera, evocazione di un mondo in cui le donne si muovono perennemente precarie e con straordinaria abilità.
Lei potrebbe essere la nostra nuova Maddalena.
[1] Judith Butler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma, 2013
[2] Mary Wallstonecraft, Rivendicazione dei diritti della donna, cit. in Adriana Cavarero Franco Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, 2002, p. 3
[3] Lidia Menapace, … A furor di popolo, Supplemento al n. 4/2012 di Marea p. 14
[4] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale. Scritti di Rivolta Femminile 1, 2, 3, p. 16
[5] Patrizia Carrano, Illuminata, Mondadori, 1999
[6] Rosangela Pesenti, Come sono diventata femminista, Manni 2020
[7] Cfr.: Adriana Cavarero, Inclinazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013
[8] Cfr.: Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Einaudi, Torino 1995
[9] Lynn Margulis Dorion Sagan, La danza misteriosa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992 p. 4, 5, 8
[10] Elisabeth Badinter, L’amore in più, Longanesi & C., 1981