Visionarie concrete. Le donne che hanno fatto l’Italia repubblica fondata sul lavoro

Fare memoria in forma collettiva in un tempo e in un luogo significa generare ricordi.

Siamo qui per generare ricordi convergenti e condivisi: ricordare una donna, Italia Riccelli, non significa fare della sua storia un frammento della nostra memoria come se fosse la tessera di un mosaico.

La memoria determina i nostri orientamenti, è una bussola che ci guida, talvolta ricordare una persona, un dettaglio, significa modificare la visione d’insieme.

I ricordi di oggi saranno condivisi solo se le parole che esprimiamo e ascoltiamo saranno generatrici di nuove consapevolezze, se apriranno dentro di noi nuovi spazi di pensiero, se illuminando il passato genereranno visioni portatrici di azioni nel presente.

Ricordare una donna significa illuminare un pezzo di storia delle donne e il modo con il quale questa storia interroga le narrazioni tradizionali che hanno relegato le donne a sfondo invisibile nella grande storia a guida maschile. Significa anche districarsi dagli stereotipi e capire come questa donna si è districata dagli stereotipi del suo tempo, quanto è stata fautrice della costruzione di esistenza libera anche attraverso la propria professione.

In questo senso fare memoria diventa una scelta di direzione nell’orientamento del vivere.

Fare storia per le donne significa sempre affrontare una sorta di edificio costruito a prescindere dalla realtà del corpo femminile e del modo con il quale questo corpo è stato iscritto nella cultura, significa scoprire come le donne hanno costruito le professioni, quale sapere hanno recuperato e trasmesso, quale visione del lavoro, uno specifico lavoro, hanno immesso nella realtà mutandola.

Lo scambio tra terreno simbolico, elementi di filosofia della vita e del mondo e vicende umane è un processo di continua osmosi per il quale elementi distinti mutano in forme prevalentemente impreviste dalla cultura dominante, facendo emergere linee e sorgenti di pensiero pratico e praticabile che ridefinisce modi di vivere e guardare il mondo.

Il titolo del mio intervento rimanda a un contesto, la Repubblica democratica fondata sul lavoro, come annuncia l’art. 1 della Costituzione promulgata nel 1947 e a un giudizio sulle donne, concrete visionarie, che nasce dall’aver conosciuto molte donne della generazione di Italia Riccelli, dentro l’Unione Donne italiane, nei luoghi del femminismo e del dibattito politico tra donne, nelle reti di relazioni quasi sempre invisibili eppure determinanti, nel mondo cattolico della mia provincia, Bergamo, nella scuola e nei luoghi della formazione.

STORIA: La condizione delle donne nel Regno d’Italia

Quando Italia Riccelli nasce nel 1922 l’Italia è una monarchia parlamentare che si prepara a diventare una dittatura fascista, la Prima guerra mondiale ha esasperato i conflitti sociali con un arretramento delle condizioni di vita e del dibattito culturale aperto dal femminismo in Italia fin dal Risorgimento, anche in dialogo con le correnti democratiche, socialiste, pacifiste e ovviamente femministe ed emancipazioniste internazionali.

Nello Stato liberale in cui nasce Italia le donne non sono cittadine nonostante le molte lotte delle associazioni e gli appelli sostenuti da intellettuali famose, da Anna Maria Mozzoni a Maria Montessori per citare solo due nomi che esprimono l’impegno costante e crescente delle donne dall’unità d’Italia (e già prima) fino alle speranze del nuovo secolo.

Quando nasce da soli tre anni, nel 1919, è stata abolita l’odiosa autorizzazione maritale, che dava al marito il totale arbitrio sulla vita della moglie e le donne sono state da poco ammesse a tutte le professioni, tranne quelle che attengono a poteri giurisdizionali, politici e militari, ma già nel 1920 il governo emette un comunicato per il licenziamento di tutte le donne dagli uffici pubblici.

Grazie a Salvatore Morelli dal 1877 le donne sono ammesse a testimoniare negli atti pubblici e privati ma la capacità giuridica delle donne si è bloccata lì.

All’inizio del Novecento quindi le donne non esistono come cittadine per le istituzioni ma nella società si muovono, lavorano in mille mestieri, sono attive dentro il movimento dei lavoratori come nel mondo cattolico, hanno capacità di associazionismo autonomo e impegno creativamente volto alla ricerca di una vita migliore, della dignità nel lavoro, del diritto allo studio e alla salute, della tutela dell’infanzia.

Il più importante sindacato del tempo, la Federterra, ha come segretario una segretaria, Argentina Altobelli, la voce più autorevole del Partito socialista italiano è una donna, Anna Kuliscioff, uno dei quotidiani più importanti, Il Mattino di Napoli, è diretto da una donna, Matilde Serao.

Proprio a pochi mesi dalla nascita di Italia Riccelli il colpo di mano del re apre la strada alla dittatura fascista che di legge in legge ridefinirà l’esistenza delle donne relegandole al ruolo di fattrici assoggettate al compito di riproduzione della specie in un’ottica anche razzista.

Si comincia con l’esclusione delle donne dalla dirigenza delle scuole superiori, oltre che dalle più importanti cattedre di insegnamento; la scuola già fondata sul classismo e il sessismo, diventerà poi anche esplicitamente razzista con le conquiste coloniali e soprattutto le leggi razziste del ‘38.

Nell’Italia fascista in cui cresce Italia Riccelli i salari delle donne vengono ridotti al 50% di quelli degli uomini (1927), la violenza sessuale viene definita reato contro la morale e viene istituito il cosiddetto delitto d’onore, viene peggiorata la legislazione esistente sulla prostituzione che istituisce una forma di vera e propria schiavitù.

Per quanto riguarda la professione che Italia sceglierà sono illuminanti le parole che scrive Olivia Fiorilli all’inizio del suo libro[1] a cui è stato assegnato il premio Franca Pieroni Bortolotti:

“All’inizio del ’900, in Italia, mentre gli ospedali sono ormai avviati a trasformarsi da ricoveri per miserabili e morenti in ‘macchine per guarire’ e lo stato liberale ha già iniziato a dipanare sul territorio del Regno una rete sempre più fitta di figure e istituzioni preposte alla tutela e al ripristino della salute pubblica, intorno ai corpi malati si affaccendano diverse figure, maschili e femminili: oltre che di madri, ‘comari’ e ‘praticoni’, si tratta di medici, suore, infermiere e infermieri. Questi ultimi – all’incirca in egual misura uomini e donne – figure assimilabili, nell’immaginario dell’epoca a quelle delle domestiche o dei contadini, si prendono cura di corpi rispettivamente di malati se uomini e di malate se donne; la cosa è ritenuta del tutto normale: sarebbe il contrario ad apparire scandaloso.

Alla fine degli anni ’20, appena un trentennio più tardi, una legge varata nel 1925 – e perfezionata dai regolamenti del 1929 – stabilisce che i corpi infermi – di uomini o donne indistintamente – debbano essere accuditi, toccati, curati preferibilmente da donne dotate di un certo livello di educazione e formate in apposite scuole convitto. Alle soglie degli anni ’30, quando ormai il fascismo ha dispiegato il proprio regime e definito tra le proprie priorità la ‘bonifica della razza’, non solo non desta più riprovazione l’idea che corpi maschili siano accuditi da mani femminili, ma in linea di massima risulta sospetto il contrario. La cura dei corpi è ormai raccontata con il linguaggio della maternità, sebbene negli ospedali del regno continuino ancora a lavorare moltissimi uomini, inquadrati come infermieri ‘generici’.

Cosa è successo nel volgere di pochi decenni, perché ciò che è stato considerato scandaloso fino a poco tempo prima, venga presentato come espressione delle ‘immutabili leggi naturali’ che regolano le ‘qualità ontologiche dei sessi’?”

Anche lei osserva, come potrei documentare anch’io, la rimozione in Italia del tema dell’assistenza infermieristica da parte degli storici di formazione, sia uomini che donne con la significativa eccezione rappresentata da Stefania Bartoloni, che ha affrontato in una prospettiva di genere la storia delle donne impegnate in questo settore.

La trascuratezza storiografica si è accompagnata alla scarsa considerazione sociale.

Mi chiedo quanto abbia pesato la questione economica nell’orientare o prescrivere un lavoro, una professione, al solo ambito femminile.

La storia delle maestre elementari, diversa da quella delle infermiere, racconta un analogo indirizzo di sfruttamento specifico delle donne attraverso la femminilizzazione di un mestiere.

Durante il fascismo viene quindi cancellata la professione al maschile, nell’ambito di una generale educazione dei maschi alla virilità guerresca e delle femmine alla cura oblativa, ad essere le madri dei guerrieri relegate nel casalingato, nell’attitudine alla manutenzione dei corpi, alla servitù domestica e allo sfruttamento extradomestico.

Gli stereotipi identitari prescritti dal fascismo hanno una storia di lunga durata e uscirne non è facile: sarà proprio la generazione di Italia Riccelli ad avviare il nuovo cammino dopo la guerra.

In una condizione giuridica decisamente subalterna, con una scuola che scoraggia le donne a studiare, in un paese ancora contadino e analfabeta, con condizioni di lavoro peggiorate per tutti ma in particolare per le donne, funziona comunque la trasmissione famigliare.

Dentro le famiglie molte donne, pur ridotte in condizione di subalternità e dipendenza economica, non dimenticano il clima culturale dei primi anni del Novecento in cui sono cresciute e con naturalezza trasmetteranno alle figlie l’amore per lo studio, il desiderio di indipendenza, la tenacia necessaria al raggiungimento dei propri sogni, la capacità di agire con concretezza e coraggio nelle situazioni che oggi definiremmo di emergenza.

Se seguiamo la traccia delle biografie personali e quindi delle famiglie e dentro le famiglie le tracce delle donne che ne sono il cardine e la ragione profonda, possiamo capire l’energia inedita che cresce in sordina nel ventennio e farà poi della presenza femminile durante la guerra la prima imprevista emersione del ruolo fondamentale delle donne nella gestione concreta e quotidiana del paese.

Durante l’occupazione tedesca le donne sono ovunque e in moltissimi ruoli fino a quelli della scelta partigiana che fecero in moltissime. Come ricordava sempre Lidia Menapace, senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza.

Alla fine della guerra, diventate cittadine con il diritto di voto chiesto e conquistato, nonostante i tentativi di rimandarle a casa, ridurle al silenzio o al massimo a presenza modesta e mortificata nei ruoli politici e professionali, la generazione delle donne nate negli anni venti e trenta diventerà il fattore decisivo per costruire la democrazia in Italia.

Democrazia significa uguaglianza delle opportunità, diritti paritari, ma anche invenzione di spazi e ruoli che rendono giustizia ai talenti femminili costruendo la cittadinanza nei luoghi di lavoro, significa un lavoro diffuso e capillare in tutti gli ambiti, a cominciare da fondamentali innovazioni in quelli considerati più tradizionalmente femminili com’è proprio il caso delle infermiere.

La biografia di Italia Riccelli segnala le tappe del diventare cittadine di un’intera generazione di ragazze impegnate a ricostruire l’Italia dalle macerie immaginando un paese diverso, immaginando la diversità in ogni ambito di attività e lavoro, generazioni di ragazze impegnate a fare ovunque la differenza.

Come moltissime donne, dopo l’8 settembre con la guerra che dilaga sul territorio italiano attraverso l’occupazione tedesca, anche Italia Riccelli si occupa a Roma di sfollati e reduci e nella concretezza del lavoro trova la sua strada che non è solo il lavoro di infermiera ma soprattutto la passione pedagogica e la visione organizzativa che accompagnerà la crescita della sua competenza nel mestiere e della professione stessa grazie a lei.

Dalla sua storia emergono le tracce di relazioni tra donne che si sostengono perché condividono una visione, da Anna Platter a Rosetta Brignone, alle tante allieve e poi anche allievi, noi possiamo intuire una rete di relazioni tessuta con lungimiranza e dedizione attraverso la quale si costruiscono competenze nuove dentro una visione tanto inedita quanto necessaria. Non si trattava infatti solo di conquistare il diritto alla propria esistenza libera da mortificazioni e condizionamenti, si trattava di inventare le forme in cui potersi esprimere, avere la forza di abbattere muri, forzare le porte chiuse delle istituzioni e inventarne di nuove.

Italia Riccelli sente che il suo lavoro, svolto con passione e dedizione, va immaginato in una nuova definizione professionale che richiede formazione e organizzazione. Studia i metodi e la storia professionale all’estero, confrontandoli con la situazione italiana dove esamina l’approssimazione organizzativa, la confusione nelle mansioni, la preparazione quasi lasciata alla casualità dei talenti personali, quasi sempre misconosciuti, si rende conto che si tratta di studiare e capire anche il fatto che in moltissime situazioni le cose funzionano perché le infermiere suppliscono alle tante carenze con l’intelligenza diffusa, il buon senso, la competenza da autodidatta, la capacità di riconoscere limiti e risorse, l’intuizione del valore del lavoro cooperativo, lo sviluppo in forma professionale della compassione umana.

Le cosiddette virtù femminili: pazienza, capacità empatica, dimestichezza con i corpi inermi dell’infanzia e della vecchiaia e i corpi sofferenti della malattia, insieme alla capacità di far fronte all’imprevisto, di organizzare le risorse anche scarse per il soddisfacimento dei bisogni, frutto di educazione più che dotazione innata sono le risorse neglette e misconosciute su cui si basa il mestiere e possono diventare caratteristiche della professione per la quale chiedere riconoscimento sociale prima di tutto dentro il sistema scolastico e accademico.

Riorganizzare la professione significa avanzare anche richieste sindacali, immettere la professione nell’ambito del lavoro riconosciuto e quindi nella contrattazione sociale ma intanto si affronta l’apprendimento inventando metodi pedagogici che hanno come fondamento lo sviluppo dei talenti personali dentro una definizione di compiti, mansioni, ruoli che deve diventare un modo di essere.

Come Italia Riccelli nella sua professione, così moltissime donne nel dopoguerra proporranno innovazioni decisive per l’apprendimento delle professioni, quel misto di competenze comunicative e sapienza dei corpi, del modo di muoversi nella professione con gesti, posture, inclinazioni che definiscono procedure in forma adeguata ben oltre l’elaborazione di protocolli.

Quella generazione di donne si muove su un crinale sottile, da un lato entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro con il riconoscimento delle proprie competenze e quindi inventare un modo nuovo di essere professioniste, dall’altro tradurre le proprie competenze nel linguaggio delle istituzioni e di un mondo del lavoro fondato sul modello produttivo fordista, che utilizza termini esplicativi spesso inadeguati ma ai quali è necessario talvolta sottostare per passare la cruna stretta del riconoscimento e aprire una strada sicura per tutte quelle che verranno dopo.

Una storia fatta da donne abituate a FARE più che ad APPARIRE, lontane da qualsiasi forma di esibizione ma capaci di trasmissione orale e fisica, pratica, più che accademica e quindi, proprio per questo, profondamente formativa. Quando scrivono testi lo fanno con chiarezza di finalità, linguaggio sobrio ed efficace, le loro lezioni sono occasioni di apprendimento complesso e complessivamente umano, un vero e proprio tirocinio che è sempre la chiave di volta di ogni formazione professionale.

Sappiamo che la comunicazione passa per il 75% dal non verbale e in questa professione la cura del corpo è contestuale alla manutenzione dei sentimenti.

Una professione in cui il silenzio talvolta si fa parola lasciando spazio al linguaggio efficiente e partecipe del corpo.

Chiunque sia stata/stato in un ospedale per qualche tempo sa che la figura dell’infermiera/e fa la differenza tra benessere e malessere perfino più della competenza medica.

Che tipo di lavoro è questa professione?

Proprio la storia documenta una professione che emerge dai lavori necessari alla condizione umana, lavori determinanti della condizione umana, costitutivi l’ambito di una società che definiamo civile.

L’assistenza sanitaria emerge come diritto nel Novecento e mette in luce quell’aspetto dell’esistenza umana che oggi si definisce fragilità, la possibilità di incrinarsi, di rompersi, e un tempo si definiva infermità, vocabolo che segnala una condizione di non stabilità, (infermo è colui che non è fermo).

Ci sono incertezze e approssimazioni linguistiche nel passaggio della definizione dall’utenza alla professione che forse oggi andrebbe definita in altro modo.

Se guardiamo alla lunga storia delle due fondamentali professioni sanitarie, medica e infermieristica, possiamo vedere una diversità prima di tutto posturale: il medico si tiene a distanza, la sua conoscenza viene dai corpi morti, dai cadaveri, l’infermiera-infermiere costruisce il suo sapere sulla vicinanza, sulla tattilità, sulla conoscenza della pelle umana (in un romanzo ho coniato il neologismo pelleità) e quindi sulle pratiche empatiche, la capacità di sentire e di toccare in tutte le forme della cura.

Avere cura e non solo erogare cure.

Una professione rimossa dalla storia, anche dalle opere divulgative di alto livello: penso a un’opera come la Storia d’Italia dell’Einaudi che è stata un riferimento fondamentale per generazioni di insegnanti e anche intellettuali fino all’avvento di wikipedia.

Ho scorso il volume 7 intitolato in forma neutra Malattia e medicina: l’approfondimento dei saggi segue il rapporto tra professione medica, affermazione degli studi scientifici e istituzioni di servizio e/o controllo della popolazione da parte dello Stato, manca la storia della professione infermieristica.

Interrogativi linguistici

So che è invalso l’uso, ormai quindi come prescrizione corretta, del termine ‘infermieristica’ per la professione, ma ho sempre molti interrogativi aperti sull’uso dei suffissi.

Come si dice tranquillamente professione medica, deontologia medica ecc., utilizzando il termine come aggettivo oltre che come sostantivo, si dovrebbe poter dire professione infermiera.

Mi chiedo se si sia evitato di definirla professione infermiera perché il sostantivo è presente nell’uso come professione femminile, quindi utilizzato come aggettivo connoterebbe la professione in forma svalutante come tutto ciò che attiene al femminile.

Per il termine ‘medica’ non c’è problema perché non viene usato come sostantivo femminile nonostante il termine fosse già presente nella lingua dal medioevo alla stessa stregua di avvocata.

Trotula de Ruggiero era una medica illustre della Scuola salernitana e avvocata nostra è Maria nella preghiera nota come Salve Regina.

Sui lavori delle donne e soprattutto quei lavori assegnati alle donne come destino ontologico, come l’infermiera appunto, i garbugli linguistici segnalano la struttura sociale del potere che non è solo potere economico e politico ma anche potere di definizione, il potere di nominare e ciò che non ha nome sappiamo che diventa invisibile.

Perché la storia delle infermiere è così marginale, così sconosciuta?

La storia della professione infermieristica condivide l’oscurità in cui è stata lasciata tutta la storia delle donne, come se metà della specie umana fosse ininfluente nei grandi processi del divenire sociale, il lavoro delle donne irrilevante nell’accumulazione della ricchezza, la presenza delle donne insignificante nella strutturazione del potere, nelle scelte politiche, nelle organizzazioni della società civile e nell’oscurità sono lasciati tutti i lavori della riproduzione umana non a caso attribuiti spesso in forma identitaria alle attitudini femminili e per questo, non a caso, poco retribuiti economicamente.

In questo senso anche l’infermieristica è una professione sia in evoluzione che evolutiva della società, e mi auguro che mantenga questa linea evolutiva e non degradi nei modelli virilisti di stampo aziendale che confondono l’efficacia e l’efficienza con la standardizzazione anonima di prestazioni pseudo rigorose e solo defraudate dell’esperienza umana.

Uscire dagli stereotipi identitari del maschile come corpo armato, incline alla durezza e alla violenza e il femminile come corpo inerme capace per natura di occuparsi dei corpi inermi significa anche prendere in considerazione le attitudini e le competenze necessarie per i lavori della riproduzione umana, farne  professioni con specifici percorsi di apprendimento, così come ha fatto Italia Riccelli insieme ad altre innovatrici.

La professione infermieristica si costruisce sulla vicinanza e quindi sull’allenamento empatico perché è un lavoro della riproduzione sociale.

Empatia è spesso un termine abusato, significa stare dentro il sentimento dell’altro/dell’altra quindi non si tratta di vivere lo stesso sentimento, non è identificazione, non è condiscendenza, arrendevolezza, comunione, non è un atteggiamento subalterno o servile, anzi, esattamente il contrario: si tratta di un movimento verso l’atra/l’altro che si esprime con il corpo e i sentimenti nel riconoscimento della comune dignità umana, un modo di guardare le persone nell’interezza vivente e senziente, usando il proprio sentire allenato alla percezione che include anche forme di razionalità funzionale, conoscenze scientifiche, procedure collaudate, percorsi verificati, senza mai farne riduttive pratiche totalizzanti, senza mai dimenticare l’unicità di ogni persona, la complessità di ogni storia.

L’empatia si impara e si allena scoprendola dentro di sé, confrontandosi con la propria storia affettiva dentro le relazioni e vivendola in relazione.[2]

Lavoro di riproduzione

Per capire il tipo di talento di Italia Riccelli e di tutte le altre dobbiamo inserire la loro storia nel tempo lungo della rappresentazione dei lavori praticati dalle donne e affidati talvolta in modo esclusivo (ed escludente) al genere femminile e nel tempo della sua vita e della sua azione, che sono gli anni della costruzione di un’Italia come repubblica democratica. Si tratta di talento organizzativo e talento professionale, talento per l’organizzazione professionale di un lavoro della riproduzione umana.

Assegnata dall’ideologia identitaria, in Italia quella fascista, alle donne come naturale questa è una professione che appartiene ai lavori della riproduzione, diversi dai lavori di produzione perché non producono merci e nemmeno profitto, sono indispensabili ma non cumulabili (vengono erogati sul momento), percepibili ma non tangibili.

Seguendo lo schema di Lidia Menapace, che affronta la questione teorica del lavoro già negli anni ’80 nel libro Economia politica della differenza sessuale[3], i lavori della riproduzione umana si possono dividere in riproduzione biologica (fare e crescere bambini e bambine, ma anche prendersi cura di sé e delle relazioni), riproduzione domestica (tutti i lavori di manutenzione dei luoghi di vita individuale e famigliare) riproduzione sociale (scuola, sanità, pubblica amministrazione, servizi alle persone e manutenzione dei luoghi pubblici), hanno scarsa considerazione da parte della scienza economica, e quindi dei bilanci, perché vengono considerati estranei alla ricchezza delle nazioni, per dirla con Adam Smith, o al PIL, il prodotto interno lordo basato sulla produzione tra gli indicatori ufficiali di ricchezza.

I bambini non possono essere venduti e la cura di una persona malata non può essere messa in cassaforte o in frigorifero come un farmaco, per restare nel discorso sanitario.

I lavori della riproduzione cominciano a entrare negli indicatori del BES (benessere equo sostenibile), di cui illustri economiste ed economisti scrivono da tempo, che si è affacciato nelle rilevazioni dell’ISTAT nel 2010, (se non sbaglio), e non è ancora recepito nei bilanci pubblici, nei quali, come sappiamo, tutti i lavori della riproduzione sociale sono considerati solo costi come se il benessere delle persone fosse qualcosa di aleatorio, opinabile, non misurabile e quindi senza valore economico.

Scriveva Lidia Menapace: La riproduzione sociale (scuola, sanità, servizi, pubblica amministrazione) non ha il profitto come fine, bensì la conoscenza, la salute, il benessere sociale, il diritto, la cittadinanza, la pace. Applicare il modo di produzione industriale capitalistico a settori economici non industriali è barbarie.

Il lavoro della riproduzione non è un lavoro di cura perché la cura non è un lavoro, è il modo di lavorare per la riproduzione.[4]

I lavori della riproduzione indicano la qualità della società in cui viviamo, segnalano il grado di cittadinanza della popolazione, perché riguardano il sistema dei diritti e il patto sociale che sostiene e garantisce la convivenza in un territorio.

Sono i lavori della riproduzione che hanno tenuto insieme il paese durante la pandemia con sacrificio personale delle operatrici e operatori, come ben sappiamo, eppure non c’è stato un ripensamento dei criteri di bilancio, come se, a fronte della costante attenzione ai processi di spostamento degli indicatori delle quotazioni di borsa, la morte di qualche migliaio di persone diventi comunque sempre irrilevante.

Questo è un discorso che ci porterebbe lontano ma proprio la pandemia ha portato in primo piano la professione infermieristica come cruciale nel presidiare la salute e sappiamo, dai fatti, che dovrebbe diventare orientativa dell’organizzazione pubblica della sanità.

Definire le cure “una produzione di salute” è del tutto improprio, una metafora poco efficace perché non si produce la salute, si genera una persona sana, e mentre nella produzione si può esattamente progettare l’esito delle azioni, nei lavori della riproduzione si può solo prevedere con margine di attendibilità.

I gesti non sono erogazioni posturali meccaniche ma apprendimenti formativi che pur diventando abitudinari devono sempre adattarsi all’infinita diversità umana che presenta il bisogno.

Non esiste la salute astratta, esistono le persone in salute, sempre temporaneamente.

Per lo stesso motivo sia gli ospedali che l’organizzazione sanitaria non dovrebbero essere terminali delle industrie farmaceutiche ma sistemi di orientamento della ricerca e della produzione di farmaci.

La pandemia, che speriamo non diventi endemica, ci dovrebbe comunque costringere a cambiare sguardo sul mondo perché impone diverse priorità: prima di tutto salvare vite e non considerare le vite distrutte come un effetto collaterale necessario per il progresso.

In questo capovolgimento la parola CURA è diventata centrale e la cura è un modo di essere, non un oggetto di somministrazione come un farmaco.

Diventano centrali le pratiche di manutenzione della vita, di cura delle relazioni umane, di produzione ecosostenibile, quindi quelle pratiche che tutta la cultura, da quella umanistica a quella scientifica, hanno confinato nel non valore in quanto erogate quotidianamente e prevalentemente da donne.

Come in ogni catastrofe vissuta dall’umanità anche questa volta la continuità della vita è dipesa molto dalla capacità di gestire empaticamente le relazioni, dalla capacità di essere versatili e, dentro gli ospedali, la capacità di considerare le persone complessivamente, non solo come mansioni, come funzioni, come malattia.

Ovunque abbiamo visto queste capacità come lavoro erogato prevalentemente dalle donne, abituate a gestire la vita quotidiana che chiede continuità delle risposte.

Quella che Lidia Menapace definiva Scienza della vita quotidiana si costruisce nella consapevolezza che tutto ciò che è necessario alla sopravvivenza non conosce interruzione.

Capacità allenate dalle donne nei millenni della storia umana, spesso attribuite alle donne per ragioni poco nobili, possono essere apprese da chiunque senta di avere attitudine e inclinazione per una professione e mi auguro che siano sempre più i talenti personali a orientare le scelte professionali con l’auspicabile superamento delle discriminazioni di reddito.

Tutti i lavori della riproduzione appartengono alla storia della cittadinanza, alla qualità del vivere civile.

Siamo nella società dell’informazione ma la somma dei dettagli non sempre determina formazione, non sempre riesce a dare forma a un pensiero, un orientamento, un modo con il quale si fanno le cose.

Per usare una metafora potremmo definire i lavori della riproduzione come il respiro sociale.

Noi non decidiamo di respirare, è un’attività irriflessa e indispensabile, senza respiro non esistiamo, se il respiro è faticoso la vita è ridotta, in affanno, mortificata, muore.

La mortificazione e svalutazione dei lavori della riproduzione umana è visibile nell’affanno sociale diffuso.

L’infermieristica è una professione il cui sviluppo in età contemporanea ne fa un laboratorio di saperi e questioni che possono riguardare tutta la società.

La cura è un modo generativo della relazione umana in senso lato, generativa di relazioni e di condizioni e il gesto di cura per i corpi è un modo di accudire l’anima o in qualsiasi modo si voglia chiamare l’esistenza in cui ci percepiamo come umane e umani.

 

[1] Olivia Fiorilli, La signorina dell’igiene, Genere e biopolitica nella costruzione dell’‘infermiera moderna, Pisa, University Press, 2015

[2] Sull’empatia segnalo in particolare: Edith Stein, L’empatia, Franco Angeli,  1992; Laura Boella, Sentire l’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006; Laura Boella, Empatie, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018

[3] Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma, 1987

[4] Lidia Menapace, … A furor di popolo, Marea 4/2012 p.25

Sul termine CURA cfr.: Rosangela Pesenti, Cura, in Ritanna Armeni (a cura di), Parola di donna, Ponte alle Grazie, Milano, 2011