Trasmettere la cura

Sono l’ultima relatrice della giornata perciò cercherò di avere rispetto della vostra pazienza e della vostra stanchezza. Del resto questo fa parte delle competenze che mi sono richieste come insegnante: quando faccio lezione all’ultima ora devo avere rispetto della stanchezza, e magari della noia, già accumulate dai ragazzi e non posso pretendere attenzione se non avvicinandomi ai loro pensieri, cercando di “andare a prenderli” lì dove sono.
Ringrazio Monica per aver scelto questo titolo per me perché contiene la parola trasmissione, che riguarda il mandato istituzionale dell’insegnante, e la cura che è il modo, a mio avviso l’unico modo, perché davvero avvenga quel contatto che consente il passaggio tra le generazioni dei contenuti che insieme definiscono importanti.
A scuola ci si occupa molto, e spesso anche troppo, di definire i contenuti e ci si occupa poco del modo, come se fosse un aspetto marginale, meno rilevante, meno incisivo.
Proprio il modo, invece, della trasmissione, riguarda direttamente i soggetti nella loro costitutiva dimensione relazionale, nel loro essere necessariamente viventi dentro le coordinate spazio-temporali che definiscono ogni contesto.
Il modo segnala il pensiero politico di fondo che sostiene l’organizzazione complessiva a cominciare dalla definizione dei ruoli e delle relazioni tra le persone.
Nella scuola si gioca una partita importantissima rispetto alla questione del nostro rapporto con le risorse e in particolare dalla risorsa rappresentata dal frutto della riproduzione della specie, si gioca lì il nostro rapporto di cittadini adulti e adulte con la collettività dei cuccioli e delle cucciole che abbiamo messo al mondo.
La generazione, quel “materno” che qui è stato evocato molte volte, infatti, non è più un dato biologico, ma è anche e soprattutto un dato culturale rispetto al quale noi ci collochiamo dentro un modello di pensiero che ci appare talvolta così naturale che facciamo fatica ad individuarne gli elementi storicamente culturali.
Nel momento in cui mettiamo al mondo un figlio, una figlia, ci troviamo all’incrocio di due modelli di pensiero per certi versi opposti che riguardano la nostra relazione con loro e il modo con il quale li accompagneremo a fare il loro ingresso nel mondo.
Il nostro agire, come i nostri sentimenti, possono imboccare due strade diverse, la cui distanza può sembrare impercettibile all’inizio, quando la cura è fatta di piccoli gesti analoghi, ma che già prefigurano l’orizzonte futuro nel quale figli e figlie si collocheranno e l’orizzonte comune è sempre dato dal modo in cui pratichiamo la relazione politica. Oggi più che mai chi come dove e perché decide delle risorse del vivere.
Quando vediamo per la prima volta il bambino che abbiamo partorito, la bambina che abbiamo partorita, possiamo pensare che è un’individua unica e lo è, un individuo unico e lo è, e cerchiamo affettuosamente di rintracciare i tratti genetici familiari: gli occhi del nonno, la bocca della nonna, le sopracciglia della zia, i capelli di papà. Cominciamo a rintracciare, cioè, quali sono le appartenenze, l’origine che possiamo pensare così intensamente nostra, perché ci assomiglia, perché fatta da noi e di questo essere, di questa creatura, così intensamente nostra, desideriamo prima di tutto di salvaguardare la vita e di offrirgli tutto ciò che gliela può rendere cara. Si tratta di un desiderio profondo, vitale, positivo, legittimo. Quando però questo desiderio si traduce in un’idea di potere totale di pianificazione del suo futuro significa che questo bambino o bambina resta solo figlio o figlia e non diventa soggetto di diritti propri e inalienabili se non quando l’età lo emancipa per legge dalla tutela.
Il vecchio diritto di famiglia, in vigore fino al 1975, conservava quest’idea proprietaria della prole, un’idea cancellata nella legge attualmente vigente in Italia, che però permane profondamente radicata nell’immaginario di padri e madri, soprattutto oggi che fare un cucciolo è un investimento spesso unico e totale.
La maternità e paternità responsabili, punto di arrivo di una preziosa conquista di consapevolezza rispetto al potere riproduttivo, scivolano talvolta nel delirio di una scelta totalizzante non tanto nei confronti dell’investimento della propria vita di adulti quanto nei confronti della realizzazione dei propri desideri affidata al piccolo o alla piccola che viene messo/a al mondo.
Quando il legame con il frutto della propria scelta riproduttiva viene pensato come unico e si considera solo la famiglia  come  rete relazionale in cui vengono legittimate le scelte educative, di fatto viene riproposto il figlio come proprietà e il proprio essere genitori come puro evento privato.
Questo pensiero è direttamente legato all’idea di cittadinanza, che infatti in Italia ha il fondamento del “sangue” in quanto si acquisisce nascendo da genitori italiani.
Diventare genitori è invece una scelta che coinvolge direttamente tutta la società e i figli, le figlie, sono parte di quella collettività che chiamiamo appunto “nuova generazione”.
Il legame verticale con i genitori è socialmente meno importante di quello con i coetanei con i quali i bimbi e le bimbe condivideranno più a lungo il “condominio” del pianeta.
Se pensiamo al figlio solo nella linea verticale di trasmissione famigliare (quella per intenderci che si perpetua con l’eredità, così importante per i beni materiali nella nostra società) noi di fatto fondiamo e perpetuiamo le possibilità di conflitto per il futuro. Il bene di un solo bambino può diventare il male di altri e questo è il fondamento del conflitto.
Possiamo, invece, guardare questo/a bambino/a come qualcuno/a che ci attraversa, ma non ci appartiene. Appartiene ad un mondo che sarà come noi non lo vedremo, perché la sua vita durerà più a lungo della nostra ed è la speranza che abbiamo, e quindi dovrà condividere il suo tempo  più a lungo con i suoi coetanei e, più avanti, con i suoi figli, nella catena, che ci auguriamo lunga, della sopravvivenza della specie.
Pensare al frutto della nostra “generazione” come parte della loro “generazione” (e mi piace in questo caso poter usare la duplicità del significato del termine) significa poter dare fondamento alla pace intesa come condivisione anche di risorse, condivisione equa del mondo tra i “nati” e le “nate” dei quali assumiamo la genitorialità come collettività di adulti e adulte.
Sono proprio due idee di mondo, entrambe possibili. E devo dire che ultimamente nella scuola viene purtroppo sempre più veicolata la prima, cioè l’idea che i/le bambini/e appartengono alle famiglie, che le famiglie devono decidere.
La scuola pubblica diventata a poco a poco elemento fondamentale della cittadinanza, porta con sé il senso di una scelta, della collettività adulta, di considerare il patrimonio culturale come un bene a disposizione di tutti i bambini e le bambine. La cultura nel senso più ampio del termine è il patrimonio della sopravvivenza ed è per ora l’unica risorsa messa a disposizione di tutti, almeno nelle intenzioni se non davvero nella pratica.
La lunga, troppo lunga sopravvivenza di una scuola elitaria, di una scuola che separa ed esclude, di una scuola costruita sull’autoritarismo e non sulla democrazia, segnala la difficoltà di costruire un accesso veramente libero alla pienezza della cittadinanza.
In questo senso gli stessi concetti di cittadinanza e democrazia sono ancora poco più di un enunciato, perché difficile da costruire davvero quel presupposto dell’uguaglianza delle opportunità che ne rappresenta il più vitale fondamento.
Oggi assistiamo ad un pesante attacco alla scuola pubblica non solo come sottrazione di risorse, ma soprattutto come svilimento della sua funzione.
Questa “deriva” della scuola pubblica è cominciata più di quindici anni fa con la questione dell’ora di religione, in Italia, esaltata come una forma di libertà per le famiglie di scegliere per i propri figli.
Un’ora che discrimina, separa, chi si “avvale” dai pochi per i quali l’alternativa non è mai stata seriamente pensata, forse proprio perché “non pensabile”, affidati alla “buona” volontà di singole scuole o insegnanti.
L’ora di religione a partire dalla scuola dell’infanzia ha introdotto due elementi negativi: prima di tutto l’affermazione che la scuola non è il luogo d’incontro di tutte le differenze, che proprio lì imparano a condividere uno spazio e risorse comuni, e come seconda conseguenza il fatto che la scuola non è più il luogo dell’offerta del patrimonio culturale che consente ai figli e alle figlie di ripensare liberamente e scegliere rispetto a quello acquisito dalla famiglia, ma propone nei fatti l’idea che una parte del patrimonio religioso ha maggiore importanza di altre opzioni e ottiene di avere uno spazio privilegiato per la sua diffusione.
Di colpo la scuola non è più lo spazio pubblico riservato ai/alle “minori” perché vi imparino i primi passi per l’esercizio della cittadinanza, ma diventa un luogo su cui la famiglia esercita una parte del proprio potere e oggi talvolta accade che sotto la spinta alla “privatizzazione del figlio” lo eserciti in modo talmente invasivo da ledere per certi aspetti gli stessi diritti del bambino/bambina, quei diritti che finalmente l’ONU ha incluso tra quelli da tutelare. Non c’è bisogno di scomodare i casi eclatanti dei maltrattamenti fisici perché spesso la violenza psicologica è altrettanto deleteria per la crescita serena di un “minore” (termine che la dice lunga sulla nostra concezione dei cuccioli).
Il secondo aspetto riguarda proprio la scuola dell’infanzia dove la scelta della religione (con opportuna insegnante annessa) ha introdotto il concetto di orario dal quale fino ad allora si era salvata.
A lungo la scuola dell’infanzia e la scuola elementare, pur con tutte le imperfezioni, hanno conservato gli elementi positivi introdotti dalla riflessione pedagogica di grandi personalità, una per tutti Maria Montessori, che hanno visto nelle due istituzioni, la prima di origine puramente assistenziale e la seconda nata per l’alfabetizzazione del popolo, i luoghi di una possibile crescita armoniosa dei bambini e delle bambine, anche attraverso quel riscatto sociale che poteva porre basi concrete allo sviluppo della democrazia.
Diversamente la scuola media e la scuola superiore denunciano ancora oggi l’origine classista e sessista fondata dalla ratio studiorum dei gesuiti e dai collegi militari. Basta guardare come le regole degli esami, e quindi delle verifiche, nonostante tutte le (poche) riforme, conservino fortissima l’impronta del modello elaborato dai gesuiti nel ‘600 e l’architettura così come gli arredi evochino ancora i monasteri o i collegi militari.
Al processo di riflessione pedagogica e didattica apertosi negli anni ’60, che possiamo riassumere simbolicamente nel libro “Lettera a una professoressa” di Don Lorenzo Milani, si oppone oggi un processo opposto che vede gli elementi più deleteri della scuola media e della scuola superiore applicati anche alla scuola primaria con il risultato di una forte deprivazione delle opportunità di crescita e sviluppo delle proprie potenzialità da parte di bambini e bambine.
La forma profondamente maschile, nel senso della stereotipia nella costruzione dell’identità di un soggetto, della scuola superiore, che non a caso si è innestata su quel processo di formazione dello stato-nazione che vede al suo compimento la nascita della cittadinanza come prerogativa esclusiva del maschio, in origine proprietario o armato, si è rimodellata negli ultimi anni sul modello industriale del lavoro, del quale ha introdotto la terminologia nella definizione dei processi.
Un fatto paradossale, ma non casuale, è che la scuola diventi fordista in epoca di post fordismo.
Non casuale perché a mio avviso si tratta di un processo sotterraneo di esclusione delle pratiche e della cultura elaborate nei secoli dalle donne, che nella scuola vivono una macroscopica forma di svalutazione sociale del loro lavoro e sono costrette ad una faticosa “resistenza”, parallela in Italia ad un processo di esclusione politica che si configura come una vera e propria vendetta del patriarcato.
Ai piccoli passi fatti a livello giuridico e sociale corrisponde una persistenza di forme e abitudini mentali che ci appaiono naturali tanto sono interiorizzate e trasmesse nei gesti quotidiani da una generazione all’altra.
Parlo di piccoli passi anche giuridici perché le Costituzioni ancora segnalano il vizio d’origine dell’esclusione delle donne.
Se andiamo a vedere gli articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del ’48 è presente l’ambiguità giuridica di riservare come diritto al cittadino la possibilità di avere una famiglia, formulazione che evoca ancora la proprietà della donna e dei figli, e, invece, nella Costituzione italiana l’idea che comunque vada preservata la “naturale” funzione familiare delle donne accanto al diritto al lavoro.
Questo principio gerarchico ancora fortemente presente nella nostra cultura è visibile nella scuola non solo perché le donne e la loro storia sono assenti o marginali nei programmi scolastici, ma soprattutto perché la struttura del tempo, l’organizzazione dello spazio, la gestione delle relazioni e dei ruoli provengono da un modello costruito sull’esclusione del femminile come soggetto, come cultura, come pratiche.
A scuola ognuno ha un posto e l’organizzazione dello spazio non è funzionale alle attività, ma serve a segnalare i ruoli.
La rigida struttura oraria prescinde dal tempo dei soggetti, dai loro bisogni e non promuove l’autonomia e la capacità di autoregolarsi, ma favorisce l’asservimento e la dissimulazione.
L’adeguamento delle discipline alla misura dell’orario le rende incomunicabili e ne rende inaccessibile il senso profondo di prezioso patrimonio umano.
Uso parole forti perché il tempo non mi consente di dilungarmi con esempi e fatti, ma soprattutto perché voglio portare alla luce quello strato profondo e solido che quasi inutilmente cerchiamo di erodere giorno dopo giorno con le mille “buone pratiche” attraverso le quali attiviamo la nostra resistenza nella scuola.
Sono le pratiche che metto in atto nelle mie classi attraverso un’invenzione che consenta a ragazzi e ragazze di vivere qualche briciola di autenticità e di assumere la responsabilità di qualche scelta, ma non mi illudo di scardinare con questo il modello profondo la cui interiorizzazione viene comunque misurata.
Il tempo è diventato un bignami riempito di sunti, schemi da memorizzare, astrazioni imprecise, dentro il quale non c’è spazio per l’elaborazione delle proprie percezioni, lo sviluppo di un pensiero imprevisto, la curiosità, la sorpresa, l’emozione della conoscenza, il corpo nel suo muoversi e sentire.
Molti anni fa Lidia Menapace lanciò l’idea di rileggere il mondo a partire dalla scienza della vita quotidiana, cioè dall’idea che il tempo, lo spazio, l’aria, l’acqua, la riproduzione della specie sono beni rispetti ai quali noi produciamo un lavoro particolare, e che quindi la scuola avrebbe dovuto avere come modello quello della riproduzione biologica.
Io riprendo qui la dicitura “lavoro della riproduzione”, perché ci fu un grande dibattito allora, quasi vent’anni fa, proprio sui termini e risultò vincente la locuzione “lavoro di cura” scelta dalle sociologhe, non solo perché l’accademia ha sempre più potere, ma anche perché il dibattito femminista andava incanalandosi nelle strettoie di un’enunciazione astratta della libertà che oggi non oseremmo più dichiarare negli stessi termini a fronte della voce ben più potente di donne che su questo nostro pianeta rivendicano ancora per sé le condizioni minime della sopravvivenza, il diritto a non essere discriminate ancora prima di nascere e noi stesse verifichiamo ogni giorno la nostra scarsa incidenza nelle scelte politiche che contano e una rinnovata invisibilità nei processi sociali.
Lidia parlava allora di lavoro della riproduzione biologica, domestica e sociale assegnato storicamente alle donne di cui quindi sono esperte. Lavoro da sempre fondamentale per la sopravvivenza umana di cui si tratta oggi di cominciare ad affermare la necessità culturale, il valore economico, il fondamento politico per una società che dia una possibilità al futuro.
L’insegnamento come lavoro della riproduzione sociale richiede una scuola in cui sia visibile la cittadinanza di donne e uomini come relazione accogliente nei confronti del frutto della riproduzione biologica.
La cura è il modo del lavoro della riproduzione e la cura ha senso solo nella reciprocità della relazione che assume la responsabilità dell’asimmetria tra età e storie senza trasformarla in gerarchia dei soggetti.
I nostri progetti per il futuro sono realizzabili sono se diventano credibili per le giovani generazioni e sono credibili a misura della cura con cui li proponiamo con le parole e i fatti.
Non siamo eterni, anche se i media cercano di farcelo credere sottraendoci il senso della maturità in cambio di una marmorea eterna giovinezza che sottrae spazio e immagine di sé ai e alle giovani per età.
Quell’emancipazione per la quale abbiamo giustamente lottato e che ha visto, per la mia generazione, la scuola come luogo fondamentale di un riscatto a cui ci spingevano, in modi talvolta contraddittori ma efficaci, la generazione delle madri uscita dalla guerra con un nuovo senso della propria identità e delle proprie speranze, non si è tradotta, con il successo qualitativo oltre che quantitativo della scolarizzazione femminile, in un mutamento culturale profondo, ma piuttosto in un’educazione all’adattamento che, in presenza della costante affermazione ed esaltazione del modello maschile, rischia di trasformarsi per le ragazze nella deprivazione di tutta quella cultura femminile, che pur elaborata nell’emarginazione e nella precarietà dell’accesso alle risorse, ha costituito un prezioso bagaglio di strategie di sopravvivenza variamente creative e soprattutto non distruttive dell’altro, attente alle singolarità, ai corpi, alle diverse età della vita e al buon uso delle risorse attraverso le pratiche del riciclaggio.
Le giovani scolarizzate anche a livelli elevati cadono talvolta nelle trappole dei più vieti stereotipi femminili, dal mito della maternità alla complementarietà dei sessi, efficacemente vendute dal mercato per coprire l’assenza di una sana politica del lavoro e la dissipazione colpevole delle pratiche e della cultura del welfare.
Vedo queste ragazze deprivate di un pezzo di storia, e non è diverso per i ragazzi, perché le giovani generazioni hanno diritto ad avere in eredità l’intero patrimonio della specie per poter operare libere scelte rispetto alla propria identità e ai propri progetti di vita futura mentre oggi sempre più ricevono a malapena qualche nozione in pillola.
Nella scuola si insegna sempre più un oggetto del sapere astratto, deprivato delle storie anche conflittuali di cui è l’esito e dei modi soprattutto attraverso i quali si è costituito come necessità e opportunità, desiderio e libera creazione.
Si racconta il “cosa” senza mai consentire la scoperta del “come” anche attraverso la propria libera ricerca ed esperienza.
La scuola produce prevalentemente disagio, un crescendo di ansia della prestazione che coinvolge insegnanti, allievi, allieve e famiglie ormai già a partire dalla scuola dell’infanzia.
L’ansia della prestazione diventa prima di tutto deprivazione del tempo, di quel tempo proprio che non può essere compresso dentro standard di crescita ridotti a selezionate competenze.
Pur conservando fiducia e speranza nella capacità delle nuove generazioni di capovolgere a loro favore e con tecniche e strategie che non possiamo immaginare qualsiasi limite o deprivazione abbiamo loro imposto non posso non vedere come oggi ragazzi e ragazze alle soglie dell’adolescenza non possano far altro che opporre una sorta di resistenza passiva che si traduce nel rifiuto di pensare e di pensarsi.
La scuola purtroppo infatti non si limita a sottrarre spazi, tempi e occasioni di esperienza, ma si adegua al bla-bla sociale attraverso forme di deprivazione linguistica.
L’ossessione per la precisione delle indicazioni non si traduce in un potenziamento delle abilità linguistiche e la lingua è ancora lo strumento più potente di formazione del pensiero, comunicazione sociale e modellamento della realtà. Del resto non vengono potenziate nella scuola nemmeno le altre forme di espressione, gli altri linguaggi inventati dalla specie umana.
Alla mistificazione operata dai media per cui niente è ciò che appare e la successione visiva degli eventi avviene per sottrazione di temporalità che produce appiattimento di ogni evento, la scuola non riesce ad opporre una lingua dotata di senso e le relazioni umane spesso si riducono ad un teatrino che imita quello ben più potente del messaggio video.
Si dice dei nostri cuccioli che sono analfabeti e non hanno memoria storica, forse semplicemente rifiutano una lingua deprivata di senso e la memoria come semplice accumulo di informazioni, non si fidano di noi perché sanno di essere totalmente dipendenti dal nostro potere sulle risorse e noi, che pure pensiamo di amarli, non sappiamo offrire loro uno spazio in cui percorrere in lungo e in largo le domande vitali “da dove vengo?”, “dove vado?”, “chi sono?”, radicate nel cuore di ogni generazione, che alimentano la memoria attraverso il reciproco ascolto e la generosità dei sentimenti.

CONVEGNO: FARE PACE CON LA TERRA – Bari febbraio 2004  (pubblicato in Marea 3/2004)