Tempi di scuola

Iniziativa per la Giornata della Memoria: accompagno la mia classe, una quinta superiore, insieme alle altre dell’Istituto, al cinema. Abbiamo scelto “Il pianista”.
Già dopo i primi minuti nella sala nessuno fiata, avverto la tensione crescente in me e in loro come un sentimento che ci accomuna.
A metà film, mentre scorrono le immagini della deportazione dal ghetto, l’orologio mi ricorda il “cambio dell’ora”.
L’organizzazione scolastica ci prevede come semplici accompagnatori (e forse hanno fatto bene i due colleghi rimasti fuori dalla sala a chiacchierare!), sarebbe stato troppo complicato ristrutturare il lavoro di tanti insegnanti in questi tempi in cui l’orario è completo per tutte le cattedre e nessuno ha più ore “a disposizione”.
Mentre esco l’emozione si trasforma in una rabbia così profonda che temo di non saperla controllare.
Per un momento penso che non sarò in grado di rientrare a scuola. Mi sento incapace di cancellare il tempo di un’emozione condivisa con le mie giovani allieve, i pensieri che turbinano assemblando immagini del passato e del presente, il tempo di una storia che accade qui ed ora perché ha un senso dentro il mio presente e mi trasforma. Mi sento incapace di precipitare in pochi minuti in un’altra classe, un altro argomento, un altro tempo, un altro sentimento, un’altra storia.
Sono ferita da questa necessità di cancellare, anzi la parola che mi assale è “scotomizzare”, rimuovere, tagliare violentemente una parte profonda di me per trasformarmi in un’altra. La classe che mi aspetta mi ferirà con le sue risate e io potrei a mia volta fare del male, fare male, solo per difendere questa emozione che non mi abbandona.
Ma anche loro, come le altre che ho appena lasciato, hanno diritto alla mia disponibilità, al mio tempo intero. Respiro. Devo essere pronta a un altro gioco.
Questi sono i tempi di scuola in cui siamo infilati come in una catena di montaggio.
Ci muoviamo come Charlot in un’organizzazione del lavoro sempre più fordista senza avere la capacità di denuncia della sua grazia ironica, del suo sguardo limpido e soave.
Il nostro di sguardo è ottusamente appesantito dalla burocrazia e dai libri (grandi borse appese alle mani) fardelli sempre più pesanti da spostare sulla catena delle ore secondo un ordine indifferente alle nostre vite.
Al linguaggio gerarchico che ancora struttura l’immagine profonda della scuola, che ancora non è riuscita ad affrancarsi dalle sue origini, che fossero i collegi militari o la ratio studiorum dei gesuiti, visibile nella prossemica degli arredamenti come nei modelli burocratici di relazione tra i soggetti (dai registri in su e in giù) si è sovrapposta una rigida scansione industriale dei ritmi, attraverso la segmentazione temporale delle discipline e delle attività, oggi sempre più accelerata.
Il ritmo del tempo, che organizza la struttura emotiva profonda e consente ad ognuno l’apprendistato della vita, è ingabbiato a scuola nella successione seriale (e casuale) delle discipline il cui senso viene mortificato e ridotto a mera funzione misurabile dell’apprendimento.
Guardo la scuola dal microcosmo delle mie classi, piccolo segmento di liceo psicopedagogico in una delle tante periferie anonime del nostro profondo nord italiano e parto dalle domande di senso che si aprono ogni giorno nella mia esperienza.
Le ragazze dell’ultimo anno che ho visto crescere in “saggezza” di sé e del mondo sono abbrutite dalla preparazione all’esame, tanto più assurdo visto che siamo noi gli esaminatori, e non c’è tempo per condividere il piacere dei testi, così rischiano di essere deprivate di Montale, loro che hanno saputo godere di Dante.
I ragazzini, pochissimi, e le ragazzine, numerose, che abitano la prima classe, in bilico tra un’età bambina in cui è ancora catturato il loro corpo e modelli adulti pericolosamente indecifrabili sembrano analfabeti di quella lingua della comunicazione su cui pure si fonda la scuola, impermeabili alle persone come ai sentimenti, a cui oppongono un’ottusa passività, in prevalenza le ragazze, e un ribellismo vuoto e fiacco, in prevalenza i ragazzi.
Si difendono come possono da noi e sono poi straordinariamente lucidi nel giudicarci forse proprio perché vanno oltre le parole e ascoltano quello che arriva alla pelle e fin dentro al cuore.
Sono analfabeti perché il mondo intorno, quello della TV come quello parentale, parla una lingua insieme deprivata e ridondante in cui operano, come se fossero nuove regole sintattiche, la generalizzazione degli stereotipi, la deformazione dei sentimenti, la cancellazione dei dati di realtà, un linguaggio di parole e immagini in cui niente è ciò che appare e i significati diventano inesorabilmente ambigui fino all’impraticabilità.
Hanno il cellulare, i giubbotti alla moda, il computer (tutti i maschi e non tutte le femmine), ma sembrano deprivati della parola perché mancano di quel “prima e dopo” che è l’ossatura di ogni possibile narrazione di sé.
L’eterno presente del tempo seriale che la scuola impone, dall’età in cui l’idea di sé ha bisogno di ripercorrere il piccolo passato alle spalle per misurare la solidità di un terreno sul quale si sa che misteriosamente correrà il futuro, rappresenta una costrizione alla cattiva abitudine di considerare le persone solo nella loro funzionalità produttiva.
L’idea che l’acquisizione delle competenze umane sia programmabile a imitazione della confezione dei prodotti è una forma di genocidio delle intelligenze e delle sensibilità.
Noi lo pratichiamo quotidianamente qualunque sia la forma di resistenza attiva e nonviolenta che mettiamo in atto nel piccolo tempo in cui ci illudiamo di salvaguardare la nostra e loro umanità, qualunque sia la passione con cui offriamo il nostro piccolo sapere ad una reale condivisa possibilità d’incontro.
Il suono della campana interrompe l’evento magico dell’incontro, a lungo preparato e sempre imprevisto, come la lezione noiosa di chi ripete pagina dopo pagina il libro di testo.
S’impara fin troppo presto che non conta ciò che accade davvero, ma solo ciò che i registri hanno già preordinato in caselline sempre identiche.
Vengono premiate quelle che si adattano meglio alla violenza di un tempo insensato che li scaraventa da un’ora all’altra con persone più o meno autorevoli e che sanno recitare in modo appropriato le formule vuote che meglio rappresentano, specularmente a quanto proposto dall’insegnante, l’oggetto misterioso e prevalentemente inutile che serve per il famigerato diploma.
Non conta la loro età in crescita e quel tempo di sedimentazione che serve, diverso per ognuno, per sapere e sapere di sé, come non conta l’età “matura”, quel mestiere acquisito con l’età che ti consente di leggere sul loro viso come in un libro aperto, di cogliere l’atmosfera di una classe nell’attimo in cui entri in aula e saper partire sempre da dove loro sono e non dai tuoi pensieri per aprire qualche altra porta, indicare qualche sentiero.
Il tempo, questo patrimonio fragile che ci portiamo, affascinante luogo d’attrazione per la ricerca concreta come per la speculazione astratta, difficilmente descrivibile fuori dai vissuti che segnano il nostro modo di guardare al mondo, è l’elemento più “offeso” nella scuola e in quest’offesa c’è molto del dolore che si porta la varia umanità che oggi vi abita.
Il “bignami” del tempo, rappresentato, nella mia e in altre scuole, dall’invenzione dell’ora di 50 minuti, rappresenta l’essenza della risposta al problema oggettivo del rapporto tempo-discipline-soggetti attraverso la manipolazione della realtà che conserva la definizione della norma cambiandone il contenuto.
Il tempo “compresso” a scuola finisce per occupare indebitamente tempi, spazi ed emozioni della vita individuale come un fiume a cui una dissennata politica del territorio ha imposto argini innaturali e impropri, producendo un malessere individuale che deposita nella scuola le scorie di un generale incattivimento dei rapporti interpersonali (visibile nel gusto della piccola pratica prevaricatoria) e l’impoverimento delle pratiche didattiche per le quali non esiste mai un tempo di riflessione adeguato.
Anche il tempo della storia, confinato in una disciplina con “poche ore” è affidato alla finzione cronologica che segnala l’ansia di controllo del passato, più che il desiderio della comprensione,  e produce la frenesia di una corsa a tappe in cui, ora dopo ora, si è sempre col fiatone e la certezza di non arrivare al traguardo.
Cito “il tempo della storia” perché ha rappresentato negli anni, per me, il luogo in cui si è reso più visibile il sintomo di un “male del tempo” che appartiene al modello con cui ingabbiamo il presente e colonizziamo il passato. Non a caso nella disciplina storica come nell’organizzazione della scuola è sempre il modello temporale ad essere così profondamente introiettato da apparire “naturale” e intoccabile. Guardo alla distorsione del tempo da un luogo in cui il privilegio di un benessere costituito dall’eccesso dei consumi copre con la sua patina di “grasso” ogni realtà e sembra attutire le percezioni. Rapiti dalla giostra del tempo, rassicurati dai giochi che possiamo comprare in abbondanza avvertiamo solo malesseri lievi e cerchiamo di superarli adattandoci alla velocità.
La cura per le relazioni, il senso dell’apprendimento, l’attenzione alle singole storie restano “fuori tempo”.
Così anche le nostre storie personali, di donne e uomini che resistono, con vari modi e motivi, a fare scuola, appaiono, guardate a distanza, come le immagini accelerate del cinema muto, leggermente ridicole anche quando quella che si recita è una tragedia.
 
In Rivista MCE