Riflessione per Udi Monteverde

L’Udi ha cominciato il percorso verso il XV Congresso.
Sono stata sollecitata a scrivere una riflessione e vorrei farlo dalla posizione di outsider che ormai occupo da molto tempo. Per capirci: non sono partecipe di nessun gruppo, ma appartengo certamente alla storia del movimento femminista italiano in generale e dell’Udi in particolare.
Grazie alla mia storia mi capita talvolta di  organizzare occasioni d’incontro tra donne nel luogo in cui abito.
Sull’appartenenza, come percorso di vita che s’intreccia alle scelte, l’Udi ha prodotto anni fa riflessioni significative e soprattutto lungimiranti rispetto alla deriva essenzialista (di stampo razzista) del localismo nazionalista in cui è caduto l’elettorato di entrambi i sessi, e non solo al nord.
La frase è cacofonica, ma esprime la tragica realtà dei fatti che tutte conosciamo.
Per la storia più recente sono stata una delle due responsabili della sede nazionale dell’Udi che ha pensato, proposto e condotto il XIV Congresso, dalla sua ideazione alla conclusione, insieme alle tante donne che hanno investito politicamente su quel percorso; non a caso è stata unanimemente affidata a me la stesura del testo sui Congressi dell’Udi per il catalogo Donne Manifeste (2005).
Lo ricordo perché un anno fa mi è capitato di parlare dell’Udi, come faccio da sempre a proposito di luoghi politici delle donne, e una simpatica compagna presente mi ha avvicinata stupita perché non aveva mai sentito il mio nome nell’Udi.
La cosa non ha ferito il mio narcisismo (l’Udi è stata un’ottima scuola), ma mi sono ricordata di un racconto di Kundera in cui due uomini politici sono fotografati insieme in un’importante manifestazione pubblica e, siccome fa molto freddo, uno mette affettuosamente il suo cappello di pelo sulla testa dell’altro, ma poi cade in disgrazia e viene cancellato dalla foto che appare nei libri di storia. Lui non c’è più, ma resta il suo cappello, indizio a disposizione degli storici attenti, direbbe Carlo Ginzburg.
Ma queste sono storie di uomini e io di cappelli ne ho una collezione per tutte le stagioni.
Ho rassegnato le dimissioni dal Coordinamento nazionale, eletto alla conclusione del XIV Congresso, perché il ritmo degli incontri (soprattutto i cambiamenti improvvisi di date e qualche altro “disguido”) era gravoso da combinare con i ritmi del lavoro (anzi dei lavori) e due gravi lutti, a gennaio e novembre del 2003, avevano influito sulle mie stanchezze e sulle mie risorse.
Tempo e risorse mi mancavano soprattutto per essere davvero presente e condurre una lotta, allora poco condivisa, perché le responsabili della sede nazionale restassero due, con mandato a rotazione, rigorosamente, e con il criterio dell’alternanza (una ruota e una resta) che preserva dal rischio del mancato passaggio delle consegne, così come dalla delega a vita.
Per scrivere, diceva Virginia Woolf, sono necessarie una stanza per sé e una rendita che ti separi dalle necessità della cura del mondo.  Anche per fare politica, non a caso sono stati i partiti operai a condurre la battaglia per lo stipendio ai deputati, perché quando la politica diventa un lusso adatto solo per chi gode di privilegi, non esiste lo Stato democratico.
Lenin diceva che una cuoca doveva poter governare, io (che non sono mai stata leninista) specifico che vorrei al governo più donne che vivono del loro lavoro, senza privilegi di nascita, di matrimonio, di casta o corporazione.
Oggi, per una transizione verso un mondo più giusto, mi basta anche che questa categoria di donne, alla quale mi onoro di appartenere, possa essere adeguatamente rappresentata insieme alle altre: non chiedo la luna, mi basta un’onesta condivisione di questa terra.
Continuo a considerare l’Udi come il luogo della più significativa sperimentazione democratica del femminismo italiano e che il femminismo non se ne sia accorto o l’abbia snobbata va ascritto all’inguaribile provincialismo che lo stesso ha ereditato, purtroppo, dalla pseudo borghesia poco liberale italiana e dal ceto intellettuale maschile spesso grigiamente accademico.
Non voglio ripassare qui la storia dell’Udi, ma considero pericoloso ricordarne solo le campagne e le conquiste in forma quasi agiografica senza mettere in luce il come ciò è accaduto e la ricerca di forme della politica inclusive e non esclusive o escludenti.
Ho svolto tre mandati come responsabile di sede nazionale, con Emilia Lotti, Rosanna Galli (mandato prolungato per unanime decisione dell’autoconvocazione per il modo “esemplare” col quale l’avevamo condotto), all’inizio degli anni ’90, e da ultimo con Pina Nuzzo.
Sono state tre buone esperienze per me e per l’associazione, e la distanza da Roma non ha inficiato in nessun modo la puntualità nell’esecuzione delle decisioni dell’autoconvocazione e nella gestione della comunicazione interna ed esterna.
Certo non si correva il rischio che qualcuno ci scambiasse per la presidente dell’Udi come accade ora, ma questo anche per la colpevole ignoranza del mondo politico tradizionale (e qualche omissione).
In questi ultimi anni ho visto l’Udi autorappresentarsi pubblicamente soprattutto attraverso quella che è stata definita “fase dell’emancipazione”, importantissima per la crescita dell’associazione e il suo radicamento nel territorio, ma non più importante della fase cominciata con la rottura dell’XI Congresso, nel 1982, senza la quale nulla avrebbe potuto salvare l’Udi dall’implosione della Sinistra italiana.
I vent’anni di sperimentazione democratica dell’associazione hanno visto il passaggio dalla pratica della cooptazione, per i ruoli dirigenti, a quella, difficile ma affascinante, del reciproco riconoscimento e del mandato per responsabilità.
Su questo faccio una breve digressione:
Nel “mondo senza donne”, che è da sempre la politica disegnata dai maschi, il potere, anche nel senso positivo della responsabilità e non solo dell’autorità, si tramanda da sempre per cooptazione o per via famigliare.
L’ascetismo misogino e il controllo della riproduzione attraverso il matrimonio hanno stabilito quell’esclusione delle donne il cui retaggio persiste pesantemente anche nelle moderne, e giovani, democrazie.
Per gli uomini la deriva antidemocratica si presenta nella forma del leaderismo, versione aggiornata del mito dell’eroe; nella logica del gruppo simbiotico con il capo; nel delirio della violenza come riduzione del corpo, proprio e altrui, a strumento (il corpo armato del militare).
Le donne hanno avuto accesso alla politica singolarmente, per via famigliare, o collettivamente attraverso le stesse istituzioni ascetiche in cui veniva costruito il potere maschile.
Semplifico una storia (dell’Occidente) ovviamente lunga e complessa, ma solo per ricordare che alle nostre spalle anche per noi donne non esiste esperienza della democrazia, ma quasi solo pratiche conventuali oltre a quelle famigliari.
In forme diverse anche per le donne esiste il rischio della deriva antidemocratica: s’insinua con la soggezione al ricatto affettivo, l’elemosina del riconoscimento o di un beneficio, spesso più simbolico che reale, la gestualità muta del disconoscimento (molto più potente della parola) che arriva fino al mobbing, la miseria della “cresta sulla spesa” anche nelle associazioni, l’ambiguità della seduzione per manipolare il consenso, che gioca sulla fragilità dei sentimenti, lo slittamento tra confidenza e complicità, l’affermazione dell’autorevolezza come autorità e la trasformazione di questa in tirannia.
Il delirio d’onnipotenza di qualcuno è sempre accompagnato dal servilismo, più o meno cieco, e la cancellazione della memoria è il pilastro principale che lo sostiene.
Il discorso potrebbe essere lungo, ma ho già scritto su questo e non voglio ripetermi.
Nell’Udi ho imparato ad avere consapevolezza delle relazioni tra donne più che in qualsiasi altro luogo: di quanto possano produrre libertà, e autonomia di pensiero, e di quanto possano generare asservimento, magari ammantato da belle dichiarazioni di principio.
All’inizio del XIV Congresso ho considerato io stessa conclusa la fase dell’autoproposizione (che aveva però significato, non dimentichiamolo, il coraggio di esporsi in prima persona), perché eravamo mature per esprimere dei mandati. Non sono distinzioni di lana caprina (per quanto le donne sapessero bene un tempo quanto fosse economicamente significativo distinguere anche la lana), ma passaggi politici indispensabili per una reale crescita personale.
La democrazia produce forme dello stare insieme quando si sedimenta nei vissuti, nel corpo a corpo in cui lievitano le parole e si costituiscono i luoghi reali delle istituzioni.
Considero irrinunciabile per la mia vita l’opzione democratica (che non è in nessun modo il dominio di una maggioranza) e per la mia storia la discriminante antifascista.
Aggiungo, come donna, la lotta contro il patriarcato in tutte le sue forme, oggi più che mai attuale, visto anche il modo con cui schiere di donne vengono arruolate al suo sostegno come custodi, testimoni e riproduttrici.
Quando, con l’XI Congresso l’Udi ha scelto l’autonomia dai partiti e la cancellazione delle gerarchie interne ha compiuto un passo coraggioso tra titubanze, contrarietà, timori, ma anche consapevolezza dei rischi e presa in carico degli esiti.
Non è stata solo una scelta della segreteria nazionale, ma il movimento complesso di un corpo politico fatto di tante storie reali di donne. Non ripasso la storia dei congressi, della quale ho scritto cose che mi convincono ancora, ma oggi la sfida politica è proprio sul terreno della democrazia contro la deriva autoritaria che sta avvelenando le relazioni umane nel nostro paese, diffusa ovunque, spesso con la giustificazione della necessità o del meno peggio.
Tra la politica come servizio (parola che non amo molto come donna) e la politica come sinecura, c’è la politica come condivisione e senso del limite. Mandato politico come esperienza a termine, che consente una misura costante di quell’autorevolezza che può crescere davvero solo se non diventa l’occupazione autoritaria di un ruolo (che in tal caso si chiama monarchia o dittatura).
Penso che possa esistere la politica come patto rinnovabile in cui le responsabilità sono a rotazione e le autorevolezze possono liberamente esprimersi senza censure, cancellazioni, rimozioni.
 
Più volte Rosanna Galli e Giovanna Crivelli mi hanno proposto di iscrivermi alle “loro” Udi, ma faceva da ostacolo la lunga amicizia, anche se non ho dubbi sulla stima politica per la quale mi veniva fatta l’offerta.
Ho ripreso la tessera dell’Udi accogliendo l’invito, tenace, di Carla Cantatore dell’Udi Monteverde, perché non ci conosciamo personalmente, ma lei mi ha riconosciuta come una donna dell’Udi.
Rosangela Pesenti
 
 
 
 
 
Rosanna Galli dell’Udi di Modena mi ha proposto più volte l’iscrizione, come Giovanna Crivelli dell’Udi di Catania, ma accettare la loro generosa proposta mi sarebbe sembrato un ripiego un po’ meschino, l’utilizzo di amiche a fini meramente economici. da parte mia Mi ha convinta Carla Cantatore non solo per l’affettuosa e tenace insistenza, ma perché mi ha conosciuta per quello che scrivo e ha raccolto informazioni su di me a prescindere dal rapporto con me che è ancora ai primi passi.