Quanto è fragile IL presidente?

Dopo aver orgogliosamente dichiarato “Sono una donna, sono una madre” e poi “sono una cristiana”, forse anche per iscrivere la sua esistenza politica in una storia più lunga della cultura d’appartenenza, ora piega simbolicamente il capo al revanchismo patriarcale del terzo millennio dichiarando di essere IL presidente.
La sua collocazione simbolica svaluta la sua stessa vittoria e si immette quasi in sordina nella storia della sconfitta delle donne fasciste che in Italia si consumò all’interno dello stesso partito dopo la marcia su Roma, con la cancellazione delle personalità più carismatiche, relegando le altre al ruolo che troverà poi nel nome “ausiliarie” il suggello della posizione.
Come se Elisabetta prima e seconda o Vittoria avessero rifiutato il titolo di regina e Caterina o Maria Teresa quello di imperatrice.
Ripete, in altra storia e contesto (con alcune analogie) la scelta che fu di Teresa Labriola quando ruppe l’articolato mondo femminista degli inizi Novecento dichiarando la sua adesione alla modernità dell’intervento colonialista bellico che guidava l’aggressivo nazionalismo italiano.
Quello che è accaduto dopo lo sappiamo e oggi, se vogliamo allungare lo sguardo per immaginare il futuro, non possiamo certo fare riferimento alle sue elaborazioni, ci rivolgiamo invece alle donne che hanno previsto il disastro umano sociale ed economico al quale quel pensiero ha contribuito nei decenni successivi.
Per quanto si mostri dura, tenga dritte le spalle, risponda con prontezza agli impresentabili marpioni che si è scelta come alleati, la decisione di quel dettaglio, l’articolo maschile per il ruolo il cui sostantivo vale anche per il femminile, dichiara la visione angusta e modesta in cui si inserisce.
Non voglio fare previsioni sul futuro ma le sue prime scelte la collocano in linea con tutto il neoliberismo militarista e classista che si sostiene, come sappiamo, sui pilastri del sessismo e della discriminazione come fondamento.
La sua presenza di donna potrebbe diventare solo un dettaglio di costume, una nota di passaggio come nel caso di altre, allineate al sostegno della politica patriarcale articolata in una lunghissima durata.
I corpi duri sono spesso molto fragili (mentre i corpi “molli” sono molto più resistenti) e la sua dichiarazione di riconoscimento del maschile come unico genere grammaticale delle istituzioni mostra già quale sia la sua fragilità.
Penso che sottovaluti la capacità distruttiva e manipolatoria del patriarcato che ancora pervade le istituzioni.
Forse lei come politica potrebbe salvarsi, e le auguro di salvarsi come persona, del resto ci sono sia donne che uomini capaci di salvarsi dentro i più grandi disastri, ma temo che non fermerà distruzioni già avviate, quelle che molti e molte abitano con cupa rassegnazione, triste livore e inconsapevole adesione.
Non è un caso che la prima donna presidente del Consiglio appartenga a una formazione di destra.
L’affermazione delle donne italiane nella storia della Repubblica, leggibile nella sequenza di leggi che hanno costruito, passo dopo passo, lotta dopo lotta, la democrazia in Italia, è stata combattuta in ogni modo da trent’anni a questa parte, e le leggi elettorali sono state uno strumento di distorsione del consenso che, di fatto, ha penalizzato soprattutto quella democrazia delle donne che avevamo appena cominciato a costruire.
Una democrazia che disegna spazi di agibilità politica e condivisione abitabili da tutte e tutti.
Penso che vadano studiate le donne, come in tutta la storia, perché le donne sono un intero genere discriminato, prima dalle leggi e ancora oggi da ordinamenti e consuetudini,  sono comunque metà o più della popolazione, sono ovunque “fattore riproduttivo” non solo nella funzione biologica, sempre centrale nelle politiche di ogni forma statuale, ma anche nella più vasta e articolata capacità riproduttiva dell’esistenza in tutte le sue forme, comprese quelle istituzionali.
Il dettaglio del maschile mette Meloni, pur con la sua personale vittoria, nella più generale temporanea sconfitta politica del femminismo e quindi delle donne tutte.
Temporanea perché so come si muovono le donne, che appartengono più alla lunga storia delle potenti correnti sotterranee che al breve accadere degli eventi.
Ho studiato le donne fasciste e anche le naziste a cominciare dal libro di Maria Antonietta Macciocchi del 1976[1] e da allora parlo della necessità di studiare le donne e le forme del consenso femminile per capire la politica, ogni politica. Mai sottovalutare le idee che avversiamo, vanno conosciute anche per capire se per caso e involontariamente non le stiamo praticando e sostenendo, oltre che per affrontarle con cognizione di causa.
Senza dimenticare che la vittoria parlamentare della destra è dovuta a una legge-truffa voluta dalla cosiddetta sinistra, favorendo oggi le forze che, diverse ma analoghe, erano state sconfitte nel 1953.
Sono convinta che vadano sciolte tutte le organizzazioni politiche fasciste e che il fascismo sia stato una forma di Stato criminale avendo a proprio fondamento quelli che in democrazia consideriamo crimini, anche se siamo ancora molto lontane e lontani da un ordinamento mondiale condiviso che affermi i diritti umani e ne garantisca la tutela in ogni luogo e condizione (compreso il diritto di libera circolazione, ma su questo non mi dilungo). Questo però non è stato fatto, sempre non a caso, e contro la democrazia abbiamo visto trame di tutti i tipi con larghe complicità collusioni connivenze anche istituzionali.
Che fare quindi?
Per fare è indispensabile l’attenzione ai contesti e alla qualità delle relazioni, ripensare l’economia di scambio simbolico del valore che attraversa l’accumulazione delle ricchezze e lo sfruttamento di chi lavora per la concretezza della vita, che è sempre materialmente culturale.
Come scriveva dieci anni fa Lidia Menapace, camminando sulle tracce lasciate dalle ultime intuizioni di Rosa Luxemburg, “(…) si palesa impellente il compito di preparare almeno una cultura diffusa che ci spinga a fare lotte, costruire relazioni, ridisegnare la vita quotidiana, insomma a preparare un’alternativa, un antagonismo, che non può essere nemmeno più fatto di grandi o grandissime lotte disarticolate, bensì di un tessuto socioculturale che si incomincia a tessere nelle relazioni, nelle occasioni che si storicizzano memorizzandole, costruendo perciò una teoria concreta, per le occasioni storiche da cui prende il via, e di prospettiva perché misura la propria gittata verso il futuro”.[2]
E sempre lei: “C’è lavoro e gloria per tutte e tutti”.
 

[1] Maria Antonietta Macciocchi, La donna nera, Feltrinelli, Milano, 1976
[2] Lidia Menapace, … A furor di popolo, Suppl. a Marea 4/2012, p. 21-22