Né veline né vestali

“Donne manifeste”
per la manifestazione SE NON ORA QUANDO
in NOI DONNE, marzo 2011

Chi convoca una manifestazione ha generalmente il potere di farlo e cioè, al minimo, un luogo da utilizzare liberamente per un primo confronto di idee, mezzi per renderlo visibile e un potenziale consenso, dato dalla posizione sociale che occupa e dalla rilevanza politica che ne deriva.
Sono contenta che esistano donne autorevoli e che alcune di queste donne abbiano proposto a tutte di manifestare, dicendo implicitamente che da sole non ce la fanno, che senza di noi, visibili, nelle piazze e ovunque, le loro parole sono deboli, la cittadinanza dei loro pensieri più incerta, la loro visibilità più occultabile anche se vivono carriere di onesta raggiunta parità ai livelli più alti di responsabilità e accesso alle risorse.
L’adesione di moltissime donne, me compresa, non è tanto condivisione di un appello, che dice il minimo e poco l’indispensabile, ma l’urgenza di rendere visibile una rabbia dentro cui stanno ragioni così grandi e gravi che nessun luogo chiuso può più contenerle.
Ha superato ogni misura questo governo nei confronti delle donne, a cominciare dalla ferocia nei confronti di Eluana Englaro fino alle leggi contro l’autodeterminazione, dal peggioramento delle condizioni di lavoro alla persecuzione delle migranti.
Possiamo dire che oggi è svelato e sotto gli occhi di tutte e tutti, anche di chi non voleva vedere o faceva finta, quello che molte di noi hanno capito con chiarezza già molto prima del 1994,  con l’attacco al femminismo della fine anni ’80, la proposta del rampantismo ai giovani, il successo come parola d’ordine entrata anche nella scuola al posto del diritto, l’esaltazione dell’evasione fiscale a sostegno di un benessere rapace nei confronti del territorio, l’abito firmato come divisa di un esercito votato al disprezzo del lavoro manuale, il corpo modellato da fantasie erotiche malate come elemento decorativo e componente fondamentale dell’accesso a beni e carriere, la mortificazione del lavoro, l’introduzione della schiavitù, la dilapidazione dei beni comuni, la legittimazione della delinquenza, la violenza su donne, minori e chiunque possa essere definito inferiore, il femminicidio, l’esaltazione della famiglia ipocrita, l’attacco all’autodeterminazione delle donne, la proprietà privata dei figli, l’invenzione dello straniero attraverso definizioni emarginanti e leggi liberticide, la falsificazione della storia, il razzismo di Stato, la vergognosa omofobia, l’ostentazione della ricchezza, la mortificazione della sobrietà e dell’onestà, il disprezzo del servizio pubblico, la rilegittimazione della scuola come veicolo e copertura delle gerarchie sociali, la manipolazione delle parole come nel caso del federalismo, l’attacco ai principi fondamentali della costituzione.   Potrei continuare a lungo e di ogni elemento qui confusamente elencato, portare le prove, i fatti, il sistema delle collusioni, la rete delle connivenze di un intero paese nel quale il degrado della politica ha cancellato qualsiasi immagine di futuro.
Possiamo dire? Possiamo davvero farlo in questo Paese dove l’accesso all’informazione è blindato e intere generazioni di giornalisti sono vendute o asservite, perfino in buona fede, che è peggio, al degrado di un potere che ha messo in ginocchio la democrazia con leggi e provvedimenti sessisti e classisti a cominciare dalla legge elettorale?
Possiamo farlo noi che non facciamo mai notizia per tutte le cose ordinarie e straordinarie che facciamo? Noi che siamo conteggiate solo nelle statistiche, politicamente cancellate quando non derise o deformate per la buona pace dei benpensanti?

Assistiamo all’erosione dei diritti come alla volgarità delle dichiarazioni pubbliche: gli uomini si esibiscono tra arroganza, ignoranza e paternalismo, ma noi sappiamo che il patriarcato non vince senza le nostre piccole/grandi quotidiane complicità, senza i nostri silenzi, le nostre omissioni, la nostra accondiscendenza, il nostro rinchiuderci nel piccolo orizzonte delle sopravvivenze personali, delle necessità di accudimento famigliare, dei piccoli privilegi faticosamente raggiunti, o di quelli grandi semplicemente ereditati, del perbenismo, della rassegnazione, della stanchezza.

Quando le donne rinunciano a pensare alla propria esistenza libera come luogo di costruzione di un processo pacifico di giustizia sociale, di pari opportunità per le generazioni successive (e non solo per i propri bambini e bambine), quando si chiudono dentro le piccole strategie di conquista del proprio microterritorio, (che sia una casa o una carriera) il patriarcato vince su tutte e i diritti vengono corrosi ad ogni livello.
Dovremmo ricordare che il patriarcato è una struttura mentale, oltre che sociale, molto antica, sostenuta dalle religioni e dai vari sistemi di potere, trasmessa dal conformismo educativo di genere, amplificato oggi dalla pubblicità e dai media.

La differenza non è tra le puttane e le altre, quelle mogli, madri, figlie, sorelle, che gli uomini considerano proprietà di famiglia, perché la questione fondamentale è l’autonomia di ogni donna, la possibilità di autodeterminazione nelle scelte di vita, il mutamento profondo delle categorie economiche che occultano l’economia della riproduzione imponendo lo sfruttamento del lavoro femminile a tutti i livelli.

La parità giuridica è il minimo, ma non è raggiunta senza la rappresentanza nelle istituzioni di quel Paese reale di cui le donne sono la maggioranza.

La cancellazione della storia politica delle donne è il più grande problema democratico di questo paese, cancellazione per la quale vengono arruolate le donne stesse, la cui storia di miseria sociale, di dipendenza personale dagli uomini, è troppo recente perché non incida ancora nel presente.

Resta comunque un fatto: che sono ancora donne quelle che, anche involontariamente come nel caso delle prostitute di Arcore, rivelano che il re è nudo, e non solo il presidente del Consiglio, ma il sistema del potere costruito sul nesso tra patriarcato e mercato, di cui vedo complici gli uomini da sempre.

Hanno svelato la prostituzione, diffusa a tutti i livelli grazie ad autorevoli connivenze, della quale, loro che vendono sesso, sono solo l’ultimo infimo gradino.

Questo sistema di potere è ingiusto con la maggioranza della popolazione, iniquo nei confronti delle donne, un vero e proprio reato, di furto del futuro, nei confronti di bambine e bambini, ragazze e ragazzi, di cui abbiamo collettivamente responsabilità.

Il problema di questo Paese è fatto a cipolla: le vicende di un vecchio sporcaccione che fa pena coprono la sua corte prezzolata che procede con gli slogans populisti, sotto stanno nascosti i loschi affari di un governo a cui non manca il fedele sostegno della chiesa e della borghesia, la prima incapace di fede, la seconda incompetente di opere, entrambe in vendita per quei privilegi con i quali l’una atrofizza ancora le coscienze e l’altra mortifica il lavoro svendendo l’economia.
C’è una questione politica che riguarda specificamente le donne e il modo con il quale stanno dentro i luoghi, anche quelli politici e istituzionali, dove si giocano le relazioni storiche tra i generi molto più di quanto l’astrattezza dei ruoli possa uniformare e nascondere.
Ci sono posizioni politiche che vanno esplicitate, personalmente non mi sento rappresentata dalle “veline”, quelle donne che svolgono il ruolo di  “ripetelle” del leader di turno, arruolate alla difesa ubbidiente, educata o sguaiata che sia, né dalle “governanti”, quelle assunte per un casalingato di lusso a pieno servizio, addette a una fedeltà un po’ meschina come nei matrimoni convenienti, ma non apprezzo nemmeno le “vestali”, donne che mortificano la propria intelligenza presidiando i valori che altri provvedono a dissipare, immolate al sacro fuoco mentre gli “uomini di Roma” da un lato gozzovigliano e dall’altro balbettano, e intanto si affonda nel fango.
Con queste parole non giudico donne, quel mistero della vita di cui ognuna sa di sé nel profondo, ma un modo di essere sociale, un insieme di comportamenti e di scelte in cui si finisce per cadere, perfino controvoglia, nei luoghi in cui la presenza femminile è così esigua, come il Parlamento, o la forma dell’istituzione patriarcale così potente (come la scuola) che la soggettività politica delle donne, nei modi in cui si è articolata e dispiegata nella storia, viene totalmente cancellata.
Riuscire a renderci “manifeste” in tante nelle piazze aiuta sempre ognuna nei luoghi che abita e oggi ha significato cominciare a contrastare la dittatura dell’immaginario mediatico che ci mortifica, ma soprattutto documentare la multiforme esistenza delle donne per le giovani generazioni di ragazze e ragazzi, cresciuti nell’ignoranza e perfino disprezzo della storia di questo Paese.
Siamo sempre noi, tornate il giorno dopo alla fatica quotidiana, alle incertezze del futuro, ai pensieri e luoghi dove siamo diversamente occupate o precarie o disoccupate, ma la visibilità collettiva di un giorno ci rende oggi più visibili anche a noi stesse, apre scenari che non riuscivamo più a immaginare, ci consente di porre alla politica questioni su cui abbiamo a lungo lavorato coinvolgendo altre donne.
Sono grata alle donne dello spettacolo che si sono esposte in prima persona in questa manifestazione (e loro più di tante dipendono da un mercato del lavoro feroce) e sono grata alle donne del sindacato e anche dei partiti perché so quanto sia difficile esistere come donna in luoghi costruiti al maschile, soprattutto perché di questi luoghi di appartenenza hanno correttamente usato il potere degli strumenti che maneggiano, ma si sono presentate sulla scena come donne, richiamandosi ad un’appartenenza politica che va oltre le tessere, le associazioni, le carriere, le condizioni, fondata nella propria storia individuale perché consapevolmente legata al cammino della soggettività politica femminile che sta capovolgendo pacificamente e in modo irreversibile le relazioni umane ovunque.
Per un lungo momento nelle piazze abbiamo sentito il respiro di quella grande storia e di quel respiro ci siamo commosse, perché sappiamo che ci ha fatto fare un passo avanti rispetto alle tante meschinità del vivere, alle quali oggi torniamo con accresciuta capacità di lotta e resistenza, forse capaci perfino di spostare qualche equilibrio in una classe politica nella quale si fa fatica a discernere differenze rilevanti di programmi e comunque interamente complice del degrado presente.
In piazza, a Bergamo, ho detto che questo parlamento non mi rappresenta perché le donne sono più della metà della popolazione e i meccanismi politici le costringono in percentuali irrisorie, ma le donne sono anche per la maggior parte lavoratrici dipendenti, nelle aziende private e nei servizi pubblici, sono più povere, più disoccupate, più precarie, più sfruttate nel lavoro domestico, più perseguitate, più vittime di violenza, e in parlamento sono rappresentate soprattutto le libere professioni, le carriere dirigenti, le appartenenze famigliari alle classi più ricche, l’abitudine al privilegio, la servitù al denaro. 
Ci sono donne che possono permettersi di non andare in piazza perché hanno la possibilità di far sentire comunque la loro voce, io sto con quelle che non hanno mai “voce in capitolo” e con quelle che sanno utilizzare la propria posizione per ristabilire condizioni di pari opportunità per tutte. 
Ho imparato, proprio in una grande associazione di donne come l’Udi, ad ascoltare una donna, le sue parole, a studiare le donne e i loro pensieri, ma anche a chiedermi sempre chi è questa donna, da dove viene, di che cosa vive e come, qual è il rapporto tra la sua vita e le sue parole perché so che questo conta e fa la differenza, la fa ancora per me che pure ho avuto il privilegio dell’istruzione in un momento in cui non era ancora diritto per la mia famiglia e la mia classe. Differenze che contano per tutte, ma ancora di più per le donne che accudiscono le nostre case, i nostri figli, i nostri vecchi, lavoratrici a cui la repubblica fondata sul lavoro nega la cittadinanza: molte erano in piazza con noi e insieme abbiamo parlato per tutte.
Non penso che sarà facile, penso solo che si può fare, basta che lo vogliamo in tante, facendo tutte un passo avanti, ogni giorno, ma preparandoci a fare anche qualche passo indietro per fare posto ad altre donne e nuovi pensieri. E non è solo questione di generazione o di età, ma di visioni del mondo, proposte politiche, pensieri e della capacità di interpretarli, diffonderli, crescerli e praticarli a beneficio di tutte.
So che si fa un passo per volta, ma allora perché non condividere questo passo quando è proposto da altre?
In vent’anni tutto è peggiorato, ma la condizione delle donne italiane è precipitata e una politica misogina ha aggredito quella piccola possibilità di giustizia e democrazia che ci eravamo faticosamente conquistate, così è difficile che donne senza privilegi o che non si vendono, arrivino ad essere presenti nel dibattito o nelle istituzioni, anche se i nuovi mezzi di comunicazione possono essere d’aiuto e la capacità delle donne di andare oltre le proprie possibilità ci può sempre felicemente sorprendere.
Vedo molte associazioni, e non solo di donne, che faticano a costruire opportunità di espressione democratica interna, anche perché vivono di scarse risorse, mortificate da leggi che volutamente escludono l’associazionismo politico dal sostegno pubblico.
Tanti anni fa abbiamo detto che non ci serviva denaro, ci basterebbero sedi con affitto simbolico, spazi gratuiti per le iniziative, agevolazioni per i viaggi, permessi per chi lavora, altrimenti inevitabilmente anche la politica delle donne è affidata a chi gode di qualche privilegio, perfino piccolo e onestamente ottenuto, che consente però di avere tempo libero, tempo per sé.
Ho citato l’Udi perché è l’associazione in cui sono cresciuta politicamente e oggi la guardo, da semplice iscritta, con molta perplessità.
Nell’associazione si diceva spesso “siamo donne Udi” più che “dell’Udi”, e quella preposizione articolata, che saltava nella conversazione, diceva molto di un’associazione cresciuta e vissuta, soprattutto negli ultimi trent’anni, nel corpo a corpo tra donne più che attraverso il documento cartaceo delle tessere, peraltro assente a livello nazionale per molto tempo, o i comunicati ufficiali. Un’associazione fatta, in fondo, come sono fatte le donne, che porta iscritto nella sua storia il cammino politico delle donne italiane e non solo quello delle battaglie e delle campagne vittoriose, delle manifestazioni e delle dichiarazioni, ma anche quello più minuto e invisibile, e infinitamente più importante per la democrazia, della costruzione di luoghi d’incontro, case e sedi, aperti a molti attraversamenti e consapevoli residenzialità.
L’Udi è la prima associazione di donne, nata dentro la lotta di liberazione dal fascismo, che porta scritti nel proprio DNA la Repubblica e la democrazia, l’antifascismo e la parità tra i sessi, uniti ad una ininterrotta vocazione a praticare nella vita quotidiana la passione politica.
Sono entrata in un’Udi, nel 1978, in cui le dirigenti visibili a livello nazionale erano molte, una caratteristica che è rimasta spesso nelle Udi locali con esiti positivi. Erano donne diverse tra loro, con posizioni politiche talvolta contrastanti e perfino opposte: l’associazione non ne soffriva, anzi, ne traeva alimento e opportunità di crescita, ma erano anche donne cresciute dentro un modello organizzativo di cui tutte, loro per prime, avvertivano ormai i limiti.
Nel 1982 l’XI Congresso ha simbolicamente azzerato l’organizzazione verticale gerarchica e la struttura modellata su quella dei partiti, rompendo anche il modesto legame economico di dipendenza dal PCI, concludendo così il percorso dell’emancipazione con una parità che in quegli anni sembrava la possibilità, aperta a tutte, di raggiungere l’autonomia economica che avrebbe consentito il processo di liberazione individuale dai lacci del patriarcato familista e dell’economia misogina.
Un’operazione simbolica dirompente in un mondo politico poco lungimirante che ancora non prevedeva la frana del sistema di potere democristiano e la diaspora confusa del partito comunista.
Si trattò allora di una scelta a lungo dibattuta e sofferta per le dirigenti storiche dell’Udi, che avevano avviato da anni un confronto serrato con il femminismo al quale, non dimentichiamolo, proprio le sedi dell’associazione facevano, talvolta o spesso, da supporto logistico, offrendo ospitalità di spazi e attrezzature.
Un’operazione simbolica forte, in sintonia con l’esperienza più dirompente del femminismo che per quasi dieci anni era stato presente sulla scena politica con l’orizzontalità diffusa dei collettivi, in sintonia soprattutto con noi, giovani donne arrivate all’Udi proprio dall’esperienza femminista, che ci sembrava, di quella vecchia solenne e matronale associazione, la continuità naturale.
La pratica fu diversa poi nei vari luoghi e richiese, soprattutto a livello nazionale, una capacità d’invenzione e sperimentazione politica per molti versi inedita nel panorama circostante, che mobilitò le nostre energie intorno alla possibilità di far emergere una rappresentazione di noi che uscisse dalle strettoie, avvertite da tutte, di una rappresentanza costruita, come ovunque, sulla cooptazione.
La scommessa fu quella di riuscire a liberare le autorevolezze dai ruoli, consentendo a più donne di svolgerli, a rotazione, sperimentandosi nella responsabilità. 
La scelta fu quella di avere sempre responsabilità condivise per rendere visibile il rifiuto della pratica verticistica e liberare potenzialità e intelligenze senza costruire inamovibili rendite di potere.
La scommessa era quella di aprire a qualsiasi donna la possibilità di assumere responsabilità nazionali, oltre che locali, senza discriminazioni di età, provenienza, condizione sociale.
Propositi ambiziosi certo, ma profondamente giusti e anche se non sono stati tempi facili, hanno sedimentato in molte di noi competenze politiche che abbiamo saputo praticare ovunque.
Propositi fondamentali anche per l’agenda politica che vogliamo costruire oggi.
Alle tante campagne di lotta, che l’Udi ha sempre condotto e continua a promuovere, si è aggiunta in quegli anni una libertà e qualità del dibattito che ha generato riflessioni politiche utili per il presente, una per tutte proprio quella “gestione politica delle differenze teoricamente incomponibili” che Lidia Menapace propose all’Udi e che ancora oggi può essere un’indicazione utile per tutte le donne in movimento.
Ne parlo perché la questione non è solo dell’Udi, ma di tutte le associazioni vecchie e nuove che si propongano di andare oltre la cerchia delle amiche, e investe direttamente tutte le donne che si chiedono oggi come far vivere nella pratica politica tutto ciò che abbiamo visto di noi e tra noi il 13 febbraio, in una manifestazione che ha dato alle ragazze la possibilità di esserci e a noi di riconoscere anche in loro le tante lotte vinte della nostra storia.
Ne parlo perché la storia dell’Udi è storia di tutte, un patrimonio dentro cui guardare e soprattutto da utilizzare come bene comune con il rispetto che oggi chiediamo per l’acqua, la terra, l’aria che respiriamo. Il bene comune di una storia nella quale ognuna può trovare le sue risorse proprio perché nessuna ne è proprietaria.

E’ tempo di fare un passo avanti: tocca a noi donne presentare un’agenda politica credibile. Una manifestazione è solo l’inizio.


Rosangela Pesenti
Cresciuta nei luoghi in cui le donne s’incontrano, della Rivista Marea, del Gruppo Sconfinate di Romano di Lombardia, dell’Udi Monteverde, del 13 febbraio 2011

(testo pubblicato su Noi Donne di marzo)