A che punto è l’alfabetizzazione nel nostro Paese? Sembra una domanda stupida visto che dalla fine degli anni Settanta è cominciata la scolarizzazione di massa e un numero crescente di studenti è entrato anche all’università.
Questo per quanto riguarda l’alfabetizzazione tradizionale, perché per i nuovi linguaggi le giovani generazioni sembrano crescere sapendo padroneggiare video e computer, cellulari e navigatori.
Cosa significa quindi oggi essere alfabetizzati?
Come in tutti i tempi possedere la chiave d’accesso ai codici che costruiscono i messaggi e quindi avere consapevolezza anche dei mezzi che li veicolano. Sappiamo ormai che l’intero mondo può essere visto come un sistema di comunicazione nel quale siamo immersi e del quale facciamo parte.
Se torniamo alla scuola, ad esempio, possiamo vedere che non è stata solo un luogo dove imparare a leggere la realtà e avere accesso alla forma istituzionalizzata del sapere, ma anche un sistema di indicatori che designano la collocazione sociale, costruiscono le posture dei corpi, gli atteggiamenti, le regole non scritte degli scambi, l’attribuzione di valore agli alfabeti stessi distinguendo gerarchicamente forme espressive, arti e mestieri. Non a caso oggi aumentano le iscrizioni ai licei, visti quasi come beni-rifugio da famiglie che ancora pensano alla laurea come opportunità di fare il salto sociale e che sperano di collocare i figli in una professione socialmente più prestigiosa e quindi meglio retribuita.
Come diceva McLuhan il mezzo è il messaggio.
Scriveva Massimo Gramellini su La Stampa del 3 settembre che mancano i fornai e per cinque posti da vigile urbano si presentano in ventimila, perché non esiste più la considerazione sociale di certi mestieri mentre, riassumo, si può benissimo essere dei laureati cretini e fare il barbiere leggendo Umberto Eco.
Vero, ma si dà il caso che giornalisti, medici, avvocati, docenti universitari non pensano mai che i propri figli e figlie possano fare il panettiere o l’estetista e l’invito, non esplicito, è rivolto a quelle che un tempo si chiamavano classi subalterne il cui compito era, ed è, di riprodurre anche il lavoro e le sue condizioni secondo i dettami dei padroni del vapore (oggi ridotti a spesso a meri speculatori).
Perché fare il panettiere non è solo un lavoro faticoso, ma, come moltissimi lavori poco ambiti, si mangia tutto il tuo tempo e se c’è una cosa che ragazze e ragazzi hanno capito, senza che la scuola l’abbia insegnato, è che il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo.
Qui, nella Repubblica democratica, che tante speranze di giustizia sociale ed uguaglianza ha suscitato in quelle classi, ha fallito proprio l’alfabetizzazione scolastica, diventata per le ultime generazioni solo la corsa a tappe di un addestramento al sapere codificato nelle forme richieste per diplomi e lauree, in nessun caso, se non casualmente, legato allo sviluppo dei talenti personali e ancora meno delle competenze sociali e civili, unicamente finalizzato ad avere un posto migliore nella società. Speranza ormai ampiamente disattesa e in realtà pochissimo realizzata anche nel passato.
Al linguaggio gerarchico che struttura l’immagine profonda della scuola, che ancora non è riuscita ad affrancarsi dalle sue origini, che fossero i collegi militari o la ratio studiorum dei gesuiti, visibile nella prossemica degli arredamenti come nei modelli burocratici di relazione tra i soggetti (dai registri in su e in giù) si è sovrapposta una rigida scansione industriale dei ritmi, attraverso la segmentazione temporale delle discipline e delle attività, oggi sempre più accelerata.
Il ritmo del tempo, che organizza la struttura emotiva profonda e consente ad ognuno l’apprendistato della vita, è ingabbiato a scuola nella successione seriale (e casuale) delle discipline il cui senso viene mortificato e ridotto a mera funzione misurabile dell’apprendimento.
Ragazze e ragazzi sembrano analfabeti di quella lingua della comunicazione su cui pure si fonda la scuola, impermeabili alle persone come ai sentimenti, a cui oppongono un’ottusa passività, in prevalenza le ragazze, e un ribellismo vuoto e fiacco, in prevalenza i ragazzi.
Si difendono come possono da noi, dagli adulti impastati di ipocrisia o di impotenza, e sono poi straordinariamente lucidi nel giudicarci, forse proprio perché vanno oltre le parole e ascoltano quello che arriva alla pelle e fin dentro al cuore.
Sono analfabeti perché il mondo intorno, quello della TV come quello parentale, parla una lingua insieme deprivata e ridondante in cui operano, come se fossero nuove regole sintattiche, la generalizzazione degli stereotipi, la deformazione dei sentimenti, la cancellazione dei dati di realtà, un linguaggio di parole e immagini in cui niente è ciò che appare e i significati diventano inesorabilmente ambigui fino all’impraticabilità.
Hanno il cellulare, i giubbotti alla moda, il computer, ma sembrano deprivati della parola perché mancano di quel “prima e dopo” che è l’ossatura di ogni possibile narrazione di sé.
L’eterno presente del tempo seriale che la scuola impone, dall’età in cui l’idea di sé ha bisogno di ripercorrere il piccolo passato alle spalle per misurare la solidità di un terreno sul quale si sa che misteriosamente correrà il futuro, rappresenta una costrizione alla cattiva abitudine di considerare le persone solo nella loro funzionalità produttiva.
L’idea che l’acquisizione delle competenze umane sia programmabile a imitazione della confezione dei prodotti è una forma di genocidio delle intelligenze e delle sensibilità.
Non conta la loro età in crescita e quel tempo di sedimentazione che serve, diverso per ognuno, per sapere e sapere di sé, come non conta l’età “matura”, quel mestiere acquisito con l’età che ti consente di leggere sul loro viso come in un libro aperto, di cogliere l’atmosfera di una classe nell’attimo in cui entri in aula e saper partire sempre da dove loro sono, e non dai tuoi pensieri, per aprire qualche altra porta, indicare qualche sentiero.
Il modello sociale proposto dal capitalismo non è certo quello di sviluppare i propri talenti, accedere a tutti gli alfabeti, svolgere un lavoro adeguato alle proprie attitudini e, soprattutto, avere tempo per sviluppare i propri interessi liberamente secondo la propria inclinazione.
Il modello è: arraffa più soldi che puoi in qualsiasi modo per accedere ai consumi che il mercato fa brillare sotto i tuoi occhi negli involucri che celano la realtà, spesso miserrima, del contenuto.
Loro, ragazzi e ragazze, lo fanno e moltissimi in modo tutto sommato più dignitoso rispetto alla volgarità dell’offerta sociale di precarietà senza diritti. Si impegnano nella scuola, le ragazze soprattutto, che appartengono al genere giunto da poco più di trent’anni al diritto all’istruzione, si impegnano a proseguire la propria formazione, hanno fame di cultura e di un mondo in cui esprimere le proprie potenzialità.
Qual è la risposta? Non solo la riesumazione di una terribile parola: selezione, per giunta accompagnata dalla presa in giro del merito, ad occultare il fatto che il sistema non ha previsto che davvero si realizzassero le promesse di uguaglianza e libertà, ma anche un mondo inospitale: la bruttezza impera ovunque, dietro la facciata dei ristoranti alla moda, nei laboratori dove si confezionano gli abiti, sul retro delle discoteche che assomigliano alle discariche, intorno ai capannoni e agli snodi stradali che hanno cementificato il territorio e, ovviamente, nelle scuole in disfacimento dove gli insegnanti sopravvivono ai propri stessi talenti, mortificati da una propaganda finalizzata alla scomparsa della scuola pubblica e dalla ferocia dei tagli alle risorse, compresi gli stipendi.
Il tempo, questo patrimonio fragile che ci portiamo, affascinante luogo d’attrazione per la ricerca concreta come per la speculazione astratta, difficilmente descrivibile fuori dai vissuti che segnano il nostro modo di guardare al mondo, è l’elemento più “offeso” nella scuola e in quest’offesa c’è molto del dolore che si porta la varia umanità che oggi vi abita.
Il tempo “compresso” a scuola finisce per occupare indebitamente tempi, spazi ed emozioni della vita individuale come un fiume a cui una dissennata politica del territorio ha imposto argini innaturali e impropri, producendo un malessere individuale che deposita nella scuola le scorie di un generale incattivimento dei rapporti interpersonali (visibile nel gusto della piccola pratica prevaricatoria) e l’impoverimento delle pratiche didattiche per le quali non esiste mai un tempo di riflessione adeguato.
Ecco perciò la risposta alla mancanza di panettieri: la fame di tempo per sé che s’innesta sul bisogno di capire e la richiesta di rinnovata possibilità di alfabetizzazione.
Se fai il panettiere non avrai mai tempo per suonare, danzare, contemplare il cielo stellato, ma oggi nemmeno se fai il ricercatore o l’avvocato perché la differenza è sempre più tra i privilegi e da qui nasce la mortificazione del lavoro che diventa solo un mezzo per l’accesso al consumo.
Proprio la distruzione della scuola pubblica è il segno più eclatante che il capitalismo non è riformabile e si può salvare solo tornando indietro, allo sfruttamento servile dei migranti, alla subalternità delle donne relegate nelle case in sostituzione del welfare, alla riproduzione di esseri umani che cercano la propria sopravvivenza contro i propri simili esponendosi a qualsiasi asservimento e mortificazione.
Eppure proprio gli esseri umani rappresentano il potenziale di cambiamento che può sempre agire l’imprevisto della storia e tra questi le donne che ancora governano la vita quotidiana dove si costruisce la resistenza alla colonizzazione dell’immaginario e alla mortificazione dei corpi.
Se il mezzo è il messaggio, i vettori della comunicazione sono sempre retroattivi e l’interazione dei soggetti viventi non può mai essere interamente controllata.
Nel silenzio dei mezzi d’informazione, accanto ai rituali televisivi che rappresentano la politica come teatrino e i corpi in vendita, mentre i mercati distruggono ricchezza e il nostro governo si dissolve al centro, nascono e rinascono ovunque luoghi di partecipazione e ascolto dove s’intrecciano i saperi espulsi dall’accademia e gli alfabeti del vivere in cui si rimescolano le storie e crescono nuovi linguaggi.
Da lì, da questi luoghi disseminati sul territorio, ancora sconosciuti gli uni agli altri, possono nascere le forme del nuovo che è sempre invisibile nel suo stadio iniziale, ma presto potrebbe trovare le parole per dirsi.
Non c’è solo la catastrofe all’orizzonte del futuro, bisogna saper guardare bene e cominciare, nel piccolo, a provarsi in nuove pratiche del vivere, magari cominciando da quelle che sembrano più banali e che costituiscono la qualità della vita quotidiana, perché dalla barbarie non si esce ad opera dei governi e spesso nemmeno seguendo le loro direttive, dei vecchi come dei nuovi, ma solo col desiderio e l’impegno, la consapevolezza e la responsabilità. Si esce dalla barbarie cominciando a resistere all’imbarbarimento delle relazioni umane e dei luoghi.
Le donne hanno dimostrato che si può cambiare il mondo senza avere il potere, soprattutto quel modello di potere che oggi mostra la sua ferocia e insipienza nella soluzione dei problemi umani. E forse oggi potremmo conquistare il potere proprio cambiando il mondo, che è prima di tutto una visione, un modo di pensare, una mentalità, un gesto, un sorriso, un’ironia, uno spostamento, una scelta, un piccolo sfrontato coraggio di essere.