Umano, postumano

Nel momento in cui le donne cominciano a rendere visibile la storia, a lungo rimossa e dimenticata, del proprio genere e vi fondano un agire sociale che ripensa prima di tutto la cittadinanza e poi tutte le relazioni umane nel loro esprimersi privato e politico, il tema dell’identità diventa centrale.

Tra il corpo e la parola si aprono finalmente tutti gli interrogativi che rappresentano possibilità e opportunità inedite, e non solo per le donne, ma che, proprio per questo, toccano tutti i livelli del potere che quasi sempre trova nel determinismo biologico dei ruoli sociali il mito fondativo di  ogni sopraffazione gerarchia violenza.

Il percorso che ha dato visibilità politica e sociale alle donne è stato via via distorto e immeschinito, mentre il dibattito sull’identità ha ricominciato ad esprimersi intorno a un soggetto astratto con forti connotazioni maschili.

Dietro l’enfasi di certi discorsi sull’identità plurima, avvolta nelle nebbie di un futuristico postumano astratto e spesso minaccioso, passa di nuovo la cancellazione del femminile e l’esaltazione di un maschile che ricolonizza l’immaginario contemporaneo con i suoi miti e le sue paure e la realtà delle relazioni umane con la vecchia impronta della violenza privata sulle donne e di quella politica che si chiama guerra.

La lunga storia di ragioni e azioni costruita dalle donne per il riconoscimento della propria soggettività sociale e parità politica ha aperto le gabbie delle identità per tutti gli esseri umani, mostrando i processi di costruzione del genere e del sesso come possibili piste di ricerca affidate alla libertà e responsabilità di ognuno.

Oggi questo lavoro di ricerca di sé nella concretezza del vivere, nell’ascolto dei corpi, simili e diversi, rischia di essere travolto e cancellato: la sovrabbondanza delle immagini impone una martellante propaganda a favore degli stereotipi di genere più arcaici e i meccanismi dell’economia come della politica impongono alle donne condizioni di vita e di lavoro più faticose ed emarginanti di quelle maschili.

Si tratta di un processo che copre la concretezza delle mille piccole e grandi violenze sulle donne con vari livelli di mistificazione e manipolazione dell’immaginario collettivo. Trappola in cui cadono talvolta le donne stesse avvalorando la riedizione in chiave moderna di una antica complice subalternità.

Si tengono corsi per “genitori” come se fossero pacificamente intercambiabili le esperienze dell’essere madre ed essere padre e nel frattempo i ruoli ridiventano rigidi, figli e figlie vengono cancellati in un’indistinta famiglia che impone la sua gabbia ideologica tacitando la realtà delle complesse relazioni tra le generazioni dentro i luoghi della convivenza .

Nella scuola le ragazze sembrano trovarsi in una situazione di assoluta parità con i ragazzi e il raggiungimento di risultati e livelli più elevati in tutti i settori deporrebbe a favore di questa tesi, ma la lingua della comunicazione, della lezione, dei testi, resta rigorosamente sessista, tranne che nei documenti burocratici, (grazie al meritorio lavoro della vecchie commissioni per la parità e pari opportunità, negli ultimi anni debitamente cancellate), e i manuali propongono le figure femminili, poche e in modo superficiale, nelle “riserve indiane” di qualche finestra che non si legge perché non richiesta nella verifica.

L’impianto della storia aggiunge talvolta le donne, ma lo sguardo sul passato non cambia e dall’immobilità della storia discendono anche le altre discipline.

Si tratta di un genocidio simbolico, disse più di quindici anni fa Lidia Menapace. L’affermazione sembrava allora esagerata e nominare donne e uomini, bambini e bambine, un vezzo inutile, da vecchie femministe, in una situazione che ormai veniva definita di libertà femminile.

Alla fine degli anni ’80 apparivano sulla scena politica le donne della destra, convinte che il femminismo fosse ormai inutile e ogni donna libera di seguire i propri desideri, bastava volerlo.

Era il tempo in cui sparivano differenze di classe e di ceto e parlare di privilegi sociali era indice di invidiose incapacità personali, soprattutto tra donne.

Erano già sparite dal protagonismo politico, che aveva diffuso capillarmente sul territorio il femminismo attraverso gruppi di tutti i tipi, le operaie e le casalinghe, riciclatesi spesso in un volontariato di grande utilità sociale, ma di dubbia valenza politica, sia per se stesse, cancellate nella neutralità della definizione, che per gli assistiti, ai quali viene sottratto troppe volte un diritto in cambio di un favore, che assomiglia molto alla vecchia pelosa carità controriformistica.

Dal postmoderno al postumano, le definizioni periodizzanti si riferiscono ad una storia prevalentemente narrata intorno ai mutamenti di lettura del mondo prodotti da un’élite maschile che non trova via d’uscita alle aporie del proprio imperante narcisismo.

Mancano ancora “le parole per dirlo”, infatti se anche la pienezza dell’umano fosse la tensione verso un’armonia dei corpi e delle relazioni che oggi ci è ignota e noi ci trovassimo in realtà in una situazione di pre-umano, basterebbe sottoporre a critica la radice stessa della parola che segnala l’imperialismo maschile sugli esseri viventi a cominciare dalla negazione e cancellazione del due originario attraverso cui si perpetua la nostra specie.

L’amplificazione del contenuto del ventre materno, che viene separato dalla realtà di un corpo e dalla sua storia, per essere ridotto a contenitore o addirittura a sfondo evanescente nelle gigantografie del feto, percorre negli ultimi vent’anni un cammino parallelo all’aumento della violenza sulle donne e alla cancellazione di storie, pensieri e presenze femminili ovunque si decide.

Diffusamente presenti non solo nel mondo del lavoro, ma in tutti i luoghi, tempi, situazioni in cui è necessaria un’azione che consenta legami, ponti, passaggi, tra persone come tra informazioni, tra risorse e bisogni, tra grandi e piccoli, sani e malati, emergenze e istituzioni, le donne sono clamorosamente assenti dai luoghi dove si decide la destinazione e la qualità delle risorse, l’uso del territorio, le forme dell’abitare, la struttura dei tempi di vita e di lavoro, la memoria da trasmettere, la ricerca da sostenere.

Costrette alla plusfatica di fare continuamente da cerniera, cucitura, toppa, riparazione, ricamo a un mondo che non sopravvivrebbe senza la cura di questo infinito lavoro femminile, le donne sono oggi espropriate della propria stessa immagine e ingabbiate in un dover essere del corpo che mortifica e riduce le possibilità espressive di quell’identità in cammino che si costruisce nell’individuale singolare viaggio della vita.

Viene dalla cultura e dal pensiero delle donne la critica del genere come costruzione sociale, l’analisi dei meccanismi educativi attraverso i quali si perpetuano disparità, discriminazioni, caratteri e comportamenti che favorendo la conservazione del sistema attuale mortificano le possibilità di ogni nata/nato da donna, ma quest’apertura della ricerca allo sguardo e all’esperienza di nuovi soggetti è stata rapidamente ricondotta agli imperativi del neutro come se rappresentasse una superiore possibilità e non un paradigma obsoleto che riduce ogni libertà.

La differenza, costitutiva del sistema riproduttivo della specie umana, è la molteplice e variegata storia di donne e uomini, cancellarne più della metà non significa solo sottrarre un’enorme straordinaria quantità di risorse di pensiero e azione al futuro, ma forse precludere la possibilità stessa che ci sia un futuro.

Possiamo leggere anche in quest’ottica l’emergenza della crescente sterilità, che nel mondo occidentale segue di pochi anni l’allarme per la denatalità.

Se questa, infatti, rappresentava un giudizio negativo, implicito, ma diffuso e decisivo, delle donne sulla società, nemica dei bambini delle bambine e delle loro mamme, la sterilità annuncia un disagio ancora più acuto che sprofonda nel mutismo dei corpi in-significanti alle ragioni dei governi, della politica, dell’economia.

L’alienazione da sé che ogni donna vive nella riduzione al privato di questioni e vissuti che i grandi numeri definiscono sociali, si traduce in un grave deficit di cittadinanza.

La riduzione fino all’impossibilità di esprimere bisogni e proposte e di pattuire il senso e i modi del vivere, attuata attraverso le mille forme della discriminazione lavorativa e sociale, manipolazione dell’informazione e delle immagini, censura irrisione e violenza, non rappresenta solo una condizione variamente faticosa fino all’invivibilità per le donne, ma anche un problema politico che distorce i meccanismi della democrazia favorendo lo scivolamento verso pratiche autoritarie che non lasceranno indenne nessuno.

La follia che conduce molte donne di ogni età, e ormai anche uomini, ad intervenire sul proprio corpo piegandolo chirurgicamente al potere simbolico di astratti stereotipi di genere, è strategicamente indotto dallo stesso sistema mediatico che copre e dissimula gli interessi di quel mondo economico e politico che sottrae spazio e risorse alle forme della democrazia.

L’illusione che l’esistenza sia dentro il corpo pensante in cui agisce la singola coscienza, a prescindere dalla qualità del mondo abitato, è ciò che ci riduce oggi a inerte massa di manovra che percorre ignara il proprio tragitto vitale alienata da quella dimensione dell’agire nella polis che è l’autentica connotazione dell’essere umani.

L’invito è a rinunciare a progetti di cambiamento del mondo, in cambio di quel microcosmo racchiuso dentro i confini della nostra pelle, che viene dilatato a inedite e insensate possibilità d’azione.

Decodificato e smascherato il linguaggio degli abiti, la manipolazione arriva a deformare il corpo riducendolo ad oggetto di deliranti ossessioni.

 Ma se il mondo appare globale nelle nostre visioni, le percezioni restano parziali, affidate al qui ed ora dei vissuti e alla nostra ricerca di mediazioni espressive che ci rappresentino almeno un po’.

Per questo e per fortuna ogni discorso conosce il suo limite e non può proporsi come esaustivo, ma più sobriamente solo evocativo, nel migliore dei casi, di strade e piste percorribili.

Per questo ogni “noi” può essere solo pattuito, ogni riflessione deve dichiarare la sua origine, il punto di partenza, il corpo a cui appartiene lo sguardo e la parola, l’esperienza in cui si radica.

Dispiace che gli uomini parlino e parlino e parlino, di umano e postumano, di società politica dio e feto, risorse e ambiente e occupino interamente la scena della rappresentazione sociale e politica.

Dispiace che parlino e parlino senza  aver prima letto ascoltato magari rinunciato, senza aver dedicato un’ora o una giornata ad aver cura della porzione di mondo che occupano, senza aver mai sperimentato l’attesa paziente di quella parola “altra” che non arriverà certo da chissà quale mediatico messia, ma da un luogo molto più vicino perfino della porta accanto.