Una storia d’origine: Sesso e Temperamento di Margaret Mead

Università degli Studi di Bergamo

Dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità

UNA STORIA D’ORIGINE, la mia storia d’origine

Sesso e Temperamento, di Margaret Mead

Elaborato per il corso di Antropologia Culturale   2009

Il problema che io mi pongo è di studiare il condizionamento delle personalità sociali dei due sessi, nella speranza che una simile indagine getti qualche luce sulle differenze dei sessi. Io condividevo l’opinione generale della nostra società, che vi fosse un temperamento sessuale congenito (…) Ero lungi dal sospettare che i temperamenti da noi considerati come congeniti ad un sesso potessero essere invece semplici variazioni del temperamento umano.

New York, gennaio 1935                                                                                                                    Margaret Mead

Nella cultura odierna, complicata da tante alternative, da tanti “se”, la tendenza è di dire: “Margaret Mead non può pretendere all’una e all’altra cosa: se ci dimostra che culture diverse possono formare gli uomini e le donne in modo diverso da quelle che sono per noi  le differenze innate di sesso, allora non può pretendere anche che esistanodifferenze di sesso.”

Per buona sorte dell’umanità, non soltanto si possono avere le due cose, ma se ne possono avere anche più di due.

New York, 26 novembre 1950                                                                                                           Margaret Mead

Dall’epoca in cui questo libro fu scritto ci siamo abituati a considerare l’uomo come una delle possibili specie di esseri viventi, in un universo che può contenere molte altre specie di esseri viventi, magari anche più intelligenti di noi. E ciò sembra aggiungere un nuovo sapore all’indagine delle nostre possibilità in quanto membri di una specie cui è affidata la conservazione di un mondo in pericolo. Ogni differenza è preziosa e deve essere custodita con amore.

New York, 26 novembre 1962                                                                                                          Margaret Mead

INTRODUZIONE

Trent’anni fa ho letto “Sesso e Temperamento” di Margaret Mead, un libro che, insieme ad altri pubblicati in quegli anni, incrociava le tante domande che in quel tempo molte ragazze e donne andavano ponendo sulle questioni cruciali della propria identità e sul mondo.

Libri incontrati fuori dai percorsi di studi canonici, che non contemplavano autrici e nemmeno l’antropologia, inesistente tra le discipline degli esami proposti come complementari alla facoltà di filosofia.

Libri scritti da donne della stessa generazione di mia madre che arrivavano con ritardo nelle librerie e nelle nostre mani per la miopia misogina di editori e mondo accademico.

Un libro importante per la mia formazione se è rimasto, di trasloco in trasloco, sempre a portata di mano, che certo ha contribuito ad articolare in un percorso di vita quella domanda “cos’è una donna?” che si presentava curiosamente inevasa alla mia fame di sapere, a fronte di corpose opere sull’identità dell’uomo, termine onnicomprensivo che fissava l’immagine dell’umanità sullo stereotipo del maschio, adulto bianco benestante sano.

Penso di essermi ispirata a lei, quando, all’inizio della mia carriera scolastica ho ideato un giochino per rispondere all’obiezione, comune ancora oggi, che la parola uomo fosse sinonimo di umanità.

Per dimostrare che la lingua non è neutra, e deposita il sapere sotto forma di immagini che esprimono sinteticamente convinzioni e concetti, [1]invito a disegnare o descrivere con pochi aggettivi un uomo primitivo: da trent’anni raccolgo figure e descrizioni che corrispondono ad un maschio adulto, quasi sempre rozzo, ignorante, violento, qualche volta mite e quindi, chissà perché, mentalmente sottosviluppato, una sola volta dotato di una compagna che teneva per i capelli, a completare la somma di stereotipi che ancora dominano l’immaginario e confermano che l’abitudine linguistica ad utilizzare il termine uomo in qualsiasi contesto non favorisce la visione della complessità dei soggetti, nemmeno maschili, e le tante diversità presenti nell’umano agire.

Margaret Mead indagava allora su quanto del temperamento attribuito biologicamente a maschi e femmine sia in realtà frutto dell’educazione e dell’insieme di aspettative sociali che definiscono la dicotomia dei ruoli nei diversi contesti culturali.

Un tema pressoché sconosciuto all’antropologia che, modellata sulla cultura occidentale trattava le donne come un piccolo gruppo minoritario e marginale che fungeva da connettivo nelle complicate trame parentali e genealogiche delle varie popolazioni.

Altre ricerche sono state fatte, anche grazie ai suoi studi, e oggi possiamo porci domande più raffinate e agire nella concretezza delle vite risposte più adeguate alle inclinazioni individuali, ma la questione del come e perché la differenza dei ruoli riproduttivi si traduca in una disparità di potere e anzi strutturi l’organizzazione stessa dei poteri in una società, spesso a scapito della possibilità di esistenza serena di singoli e singole che si trovano collocati in situazioni sfavorevoli, è una questione ancora aperta.

Dietro l’apparente neutralità della cittadinanza, garantita dall’emancipazione recente delle donne dei paesi occidentali, l’artificiosa divisione tra pubblico e privato, così come la strutturazione del potere politico in funzione dell’economia di produzione, con il relativo asservimento dell’economia della riproduzione, rivelano ancora una divisione di ruoli come subalternità, se non delle donne tout court, di culture e saperi elaborati in modo maggioritario da donne fuori dei canali ufficiali, e di ampie quote di lavoro produttivo e riproduttivo erogato da masse femminili tenute in posizione di sfruttamento dal mercato mondiale.

Osservo che permane l’istituzione matrimoniale come scambio tra il potere riproduttivo, femminile, e quello di accesso alle risorse, maschile. Al di là dei sentimenti (che non sfuggono ovviamente all’influenza della cultura di appartenenza) sia la costruzione simbolica sia i dati confermano la persistenza di una posizione femminile più debole sul mercato del lavoro, che si traduce in una disparità di stipendio all’interno del nucleo famigliare, a fronte di un’erogazione di lavoro domestico maggiore e non riconosciuto socialmente.

Mi sembra un dato interessante che in questo momento la forbice stipendiale, tra donne e uomini, tenda ad aprirsi per tutti i lavori subalterni e a restringersi per quelli dirigenziali.

In un mondo in cui tutto è merce torna in auge il mai interrotto mercato del corpo femminile, sia nella realtà della prostituzione, sia nell’uso dell’ammiccamento sessuale di giovani donne utilizzate nella costruzione d’immagine dei più svariati prodotti.

Ripartire da questo testo dopo trent’anni mi sembra non solo un doveroso omaggio ad una vera pioniera, negli studi e non solo, ora che un’imprevista svolta della vita mi offre l’opportunità di addentrarmi nella riflessione antropologica, ma anche di misurare la distanza, se c’è, tra i suoi interrogativi e il presente, utilizzando questo testo come punto fermo, base sicura, per definire il mio percorso di ricerca.

Lei stessa per quanto descriva e spieghi nei dettagli l’oggetto delle proprie ricerche non smarrisce mai la consapevolezza di appartenere ad un tempo storico e ad una generazione che in quanto tale viene dopo e prima di molte altre. Per Margaret Mead la ricerca della propria realizzazione non sarà mai separata dall’assunzione della responsabilità di sé in quanto adulta nei confronti dei più piccoli, dei più giovani, del futuro.

Lo esplicita come compito nell’ultima pagina della sua autobiografia chiedendosi:

Che cosa resta dunque da fare ai giovani antropologi? In un certo senso, tutto. Il lavoro migliore possibile non è stato ancora fatto. Se oggi avessi 21 anni, sceglierei di entrare a far parte, come antropologa, della rete di questi giovani in comunicazione fra loro in tutto il mondo, I quali si rendono conto dell’urgenza di un mutamento che aiuti la vita.

Ma, anche così, parlo dell’esperienza durata tutta la mia vita di vedere passato e futuro come aspetti del presente. Il sapere unito all’azione – la conoscenza di ciò che l’uomo è stato ed è – può proteggere il futuro. C’è speranza, io credo, che l’avventura umana venga considerata come un tutto e che la conoscenza dell’umanità, perseguita nel rispetto della vita, possa portare vita.[2]

Un augurio attuale di fronte ai rigurgiti di razzismo, sessismo, nazionalismo che fomentano vecchie guerre, persecuzioni, violenze, non solo tra stati, nazioni, popoli, ma fin dentro le pieghe più intime delle relazioni umane dove corrodono la convivenza civile anche nelle moderne democrazie, nel quadro di un rischio planetario per la sopravvivenza umana e di molte altre specie viventi.

UNA RAGAZZA DI “TEMPERAMENTO”
«Questo è il più frainteso dei miei libri e io vorrei dire, dopo aver cercato di spiegarmene il perché, come vedo le cose» scrive Margaret Mead in apertura di prefazione all’edizione del 1950 di Sesso e temperamento.[3]

In poche righe la chiarezza dell’antropologa e i segni di quel temperamento che ha rappresentato per tutta la vita la bussola per un percorso di ricerca sugli esseri umani e su di sé.

Non era semplice nel 1931 affrontare un tema spinoso come quello della differenza tra i sessi, dominato da stereotipi secolari ancora sostenuti dalle istituzioni formali e informali delle società occidentali e snobbato dall’accademia.

Quando Margaret parte, nel 1931, con il dott. Fortune, suo marito, per la spedizione in Nuova Guinea, in Europa dilaga la simpatia per il fascismo italiano, ormai saldamente al potere, negli Stati Uniti l’economia non si è ancora ripresa dalla crisi del ’29 e il contraccolpo in molti paesi più o meno democratici contribuisce all’erosione della cultura liberale delle classi dirigenti e alla sconfitta degli ideali socialisti tra le masse proletarie.

Più di tutto bisogna ricordare che la guerra mondiale e il decennio successivo avevano spazzato via la cultura e le associazioni che avevano sostenuto i movimenti femminili e femministi e la loro storia, di cui niente sanno le giovani generazioni degli anni ’30 (e resterà sconosciuta fino alle ricerche degli anni ’70) profondamente intrecciata con le istanze più libertarie del socialismo, con le aspirazioni alla giustizia della democrazia liberale, con l’analisi lungimirante sugli intrecci tra economia e guerra del pacifismo.[4]

Quando conclude la sua ricerca, nel 1933, Hitler si prepara ad assumere ogni potere in Germania, forte dell’apparato politico e militare nazista che gli ha consentito di conquistare il consenso delle classi dirigenti e popolari, e al modello femminile della sposa e madre esemplare,[5]propugnata da fascismo e governi affini soprattutto per contadine e proletarie, che hanno il compito di generare e crescere figli per la patria, (donne sconfitte politicamente in Italia dalla miope politica maschilista dei sindacati e partiti socialisti ancor prima che dal rinnovato patriarcato di regime), si accompagna il mito germanico della moderna virago, esempio di emancipazione imitativa, che fornirà al Führer il personale per l’organizzazione dell’obbedienza femminile e poco più tardi per il lavoro di persecuzione e sterminio nei campi.[6]

Lei ha trent’anni e alle spalle l’esperienza di studio delle adolescenti nell’isola di Samoa, che si è già tradotta in un libro di successo, anche grazie al suggerimento di William Morrow, suo primo editore, di aggiungere alla novità della ricerca la riflessione-comparazione con la contemporaneità americana, “una linea che avrebbe seguito per tutta la vita, istituendo non solo il fascino dell’antropologia come descrizione dell’esotico, ma come fonte di auto-conoscenza per la civiltà occidentale”.[7]

Quando era partita  per il suo primo viaggio lei stessa aveva superato l’adolescenza da poco e così scrive infatti introducendo le sue Lettere dal campo:

Nell’estate del 1925, quando salutai la mia famiglia e il mio marito-studente, Luther Cressman, alla stazione ferroviaria ‘B e O’ di Filadelfia e salii sul treno che in cinque giorni mi avrebbe portata a San Francisco, avevo il coraggio dell’ignoranza quasi totale. Avevo letto tutto quello che era stato scritto sulle isole del Pacifico, di cui il mondo occidentale era venuto a conoscenza grazie al viaggio del capitano Cook, ed ero profondamente interessata ai processi di cambiamento. Ma non ero mai stata all’estero o a bordo di una nave, non avevo mai parlato una lingua straniera o dormito in un albergo da sola. A conti fatti, non avevo mai passato da sola nemmeno un giorno della mia vita.[8]

Benché lei pensi che l’età e il fisico («a 23 anni ero alta 1,50 e pesavo Kg 43 ½»[9]) avessero qualcosa a che fare con l’incarico affidatole dal suo professore, Franz Boas, di investigare su quanto le inquietudini dell’adolescenza potessero essere considerate di origine biologica, come allora si pensava, e quanto invece fossero segnate dalla cultura di appartenenza, certo non era sfuggita all’acuto docente la personalità eccezionale dell’allieva.

Scrive infatti Margaret:

Boas aveva raggiunto uno di quegli spartiacque che si presentano nella vita degli scienziati fondatori, i quali tracciano l’intero corso di una disciplina. Sentiva che si era già lavorato abbastanza per dimostrare che i popoli prendevano a prestito qualcosa l’uno dall’altro, che nessuna società si evolveva nell’isolamento […] Concluse perciò che era venuto il momento di affrontare la serie di problemi che mettevano in rapporto lo sviluppo degli individui con ciò che era distintivo della cultura in cui erano cresciuti.[10]

Boas si rendeva conto che cominciava il tempo di quella che oggi definiamo globalizzazione ed era urgente studiare le popolazioni rimaste ancora ai margini delle grandi correnti di comunicazione, ma aveva pochissimi studenti di antropologia a disposizione per i suoi progetti. «Boas doveva tracciare un piano […] piazzare ogni studente nella posizione più strategica, in modo che ogni piccola porzione di ricerca avesse la sua importanza, nulla andasse sprecato e nessun lavoro dovesse poi essere rifatto.»[11] Ma i piani del professore non coincidevano esattamente con quelli della giovane allieva: lui pensava a una ricerca fra gli indiani d’America, in una situazione che potremmo definire protetta, lei voleva studiare il cambiamento di cultura in Polinesia, «ma ero disposta a scendere a compromessi e a studiare la fanciulla adolescente, tanto più che gli strumenti tecnologici con cui avevo sperato di studiare il fenomeno del mutamento culturale si erano dimostrati deludentemente inadeguati.»[12] scriverà in seguito, ammettendo di aver manipolato, al fine di ottenere l’incarico desiderato, sia il professore, sensibile all’accusa di autoritarismo, sia il padre, sollecitandone la rivalità affettiva con il maestro, per ottenere il finanziamento del viaggio.

In questa decisione c’è un tratto importante del suo carattere, quella forza che certo le viene anche dall’educazione, infatti scrive:

Sono sempre stata contenta di essere una femmina. Non ricordo di essermi mai rammaricata di non essere un maschio. Mi sembra che sia stato così per il modo in cui fui trattata dai miei genitori. Ero stata una figlia desiderata, e quando nacqui sentii di essere come i miei mi desideravano. Questa sensazione di soddisfare i propri genitori probabilmente incide molto sulla nostra capacità di accettare noi stessi.[13]

Samoa era l’unica, tra le isole polinesiane meno contaminate, alla quale facesse scalo un vapore ogni tre settimane, condizione grazie alla quale avrà il permesso e l’appoggio di Boas, preoccupato per la sua apparente fragilità, ma costretto suo malgrado a lasciarla partire  per la sua ricerca.

Così aveva cominciato quel lavoro di antropologa scelto a conclusione del periodo universitario dopo aver vagliato le proprie attitudini  in vari campi:

(…) quando ero ancora al college finii per decidere che non avrei scelto la carriera politica. Nello stesso tempo l’esperienza fatta con la pittura e con lo scrivere mi avevano convinta che non avevo quel talento straordinario che in passato forse non sarebbe stato necessario, ma che invece nel mondo contemporaneo era essenziale al successo. (…)

Io volevo dare il mio contributo alla società. Mi sembrò allora – e mi sembra tuttora – che la scienza sia un’attività nella quale c’è spazio per molti livelli (come per molte specie) di capacità naturali. E’ un’attività nella quale ogni individuo, trovato il proprio livello, può fornire un reale contributo. Così scelsi la scienza – e per me scienza non poteva che significare una delle scienze sociali.[14]

La prima esperienza di ricerca conferma certamente la scelta di vita della giovane studiosa. La conclusione porta con sé una risposta importante ed è contemporaneamente un’apertura di nuove piste di lavoro e riflessione:

Siamo andati comparando, punto per punto, la nostra civiltà a quella più semplice di Samoa allo scopo di chiarire i nostri metodi di educazione. Se ora distogliamo lo sguardo dal quadro samoano e consideriamo soltanto la lezione principale che ne abbiamo tratta, cioè che l’adolescenza non è necessariamente un periodo di tensione e di turbamento, ma che diviene tale in conseguenza delle condizioni della civiltà, possiamo dedurre delle conclusioni feconde di bene per l’educazione dei nostri adolescenti?[15]

Come osserva la figlia nell’introdurre la ristampa del 2001, a quel tempo l’osservazione dello sviluppo infantile era solo agli inizi e Margaret Mead è stata tra i primi a studiarlo in un’ottica multiculturale.

Non è un caso che in Italia il libro sia stato rieditato anche nel 2007 dalla casa editrice Giunti nella collana di psicologia.

«Samoa conosce un solo modo di vivere e lo insegna ai suoi bambini. Noi che conosciamo molti modi di vivere perché non dovremmo permettere ai nostri bambini di scegliere liberamente?»[16]

La libertà può essere considerata una delle parole chiave della sua vita, sia privata che professionale, una libertà intrisa di quella responsabilità che fin da piccola ha imparato a declinare in ogni scelta personale.

Libertà come processo di acquisizione della capacità di farsi carico di se stessa e di sperimentare le infinite mediazioni per trovare la propria collocazione nel mondo, dentro le più diverse relazioni umane; trovare spazio per sé e condividere il mondo: è questa la strada tracciata dalla sua vita e dalla sua opera. Appare in questo senso quasi ovvio che dallo studio dei percorsi di crescita delle bambine samoane sia passata alla questione dell’identità sessuale, oggetto rimosso dalla scienza e dalla storia anche se non può mai essere eluso da nessuno, uomo o donna che sia, nella vita.

Già al college Margaret si misura nelle relazioni con donne e uomini rifiutando ogni asservimento a ruoli prestabiliti:

Appartenevamo a una generazione di giovani donne che si sentivano straordinariamente libere – libere dall’esigenza di sposarsi a meno che non volessimo farlo, libere di rimandare il matrimonio mentre facevamo altre cose, libere dalla necessità di venire a patti e a compromessi – tutte cose che avevano pesato sulle donne delle generazioni precedenti e le avevano limitate. (…)

Con gli uomini non venivamo a patti. (…) quello fu uno strano periodo nel quale le ragazze, che erano troppo orgogliose per chiedere un pegno al destino, mettevano a disagio gli uomini che sceglievano di amare.

Nello stesso tempo stabilimmo con fermezza uno stile di rapporti con le altre donne. “Mai mancare a un appuntamento con una ragazza per un uomo” fu uno dei nostri motti, e ciò in un’epoca in cui la lealtà delle donne nei confronti delle donne era – come solitamente lo è ancora – subordinata a loro eventuali rapporti con gli uomini. Imparammo a conoscere la lealtà verso le donne, il piacere di conversare con le donne, e la gioia di vivere in un modo nel quale ci completavamo a vicenda sulla base delle nostre diversità di carattere, che trovavamo non meno interessanti della complementarità derivante dalla differenza di sesso. Lungo il corso di carriere estremamente diverse, abbiamo continuato a trarre motivo di gioia l’una dall’altra e, sebbene l’incontrarsi si faccia sempre più difficile, perché andando in pensione ci disperdiamo chi qua chi là, continuiamo a vederci e a godere reciprocamente dei nostri scambi di idee.[17]

Alla forza che le proviene dall’educazione Margaret aggiungerà perciò quella che proviene dalle relazioni umane liberamente scelte soprattutto quelle tra donne che rappresentano una base sicura per tutta la vita.

Forse non è un caso se la figlia Mary Catherine Bateson scriverà il suo libro più significativo proprio su un gruppo di amiche, mettendo a frutto l’eredità materna e trovando le parole per restituire una lettura delle vite femminili come sedimentazione di una capacità creativa utile per tutta l’umanità futura:

In virtù delle mie particolari condizioni di vita ho dovuto imparare qualcosa che i miei colleghi accademici non sembrano conoscere, e cioè che la continuità è l’eccezione nell’America del ventesimo secolo, e che il problema di adattarsi alla discontinuità non è una mia idiosincrasia ma il problema emergente della nostra epoca . (…)

Ho scelto di esplorare queste tematiche attraverso l’osservazione di cinque vite: la mia e quella di quattro amiche. Ognuna di noi ha affrontato le discontinuità e diviso le energie, eppure tutte abbiamo avuto una vita ricca di realizzazioni professionali e di rapporti personali, in amore e nel lavoro. (…)

Quando si sia cominciato a percepire queste vite, fatte di molteplici impegni e di molteplici inizi, come un modello emergente invece che come un’aberrazione, basterà uno sguardo per scoprire da ogni lato i modelli su cui reinventarsi, per individuare gli agenti di una visione che non sia precostituita ma si evolva giorno dopo giorno. Ognuno di questi modelli, così come ogni singola opera d’arte, è un commento sul mondo che sta oltre la cornice. E come il cambiamento ci induce a rintracciare persistenze più astratte, così lo sforzo individuale di comporre una vita, incorniciata dalla nascita e dalla morte e accuratamente costruita a partire dagli elementi più diversi, diventa una dichiarazione sull’unità del vivente. Queste opere d’arte, per quanto incomplete, sono parabole in divenire, metafore viventi di cui ci serviamo per descrivere il mondo.[18]

Questa metafora visiva della vita come opera d’arte, quadro che illuminandoci su un frammento di realtà ce la rende tutta più intelligibile, s’adatta perfettamente anche al modo con cui Margaret ha raccontato le tante vite incontrate nei suoi viaggi di studio, non con l’occhio dell’entomologo, ideale di una scienza caduta nel mito dell’oggettività, ma con la partecipata passione di chi sa che conoscere l’altro significa prima di tutto conoscere se stessi.

LA RICERCA IN NUOVA GUINEA: Arapesh, Mundugumor, Ciambuli
Margaret Mead parte con il marito, Reo Fortune, da New York, nel settembre del 1931.

La questione che intende indagare, cioè il rapporto tra sesso e temperamento, è un tema emergente nel dibattito scientifico che sembra, soprattutto in campo psicologico, voler frenare o ingabbiare la spinta al cambiamento determinata dai processi di emancipazione, soprattutto nel campo dell’istruzione, per le ragazze delle classi elevate.

Tutte le discussioni sullo stato delle donne, sul carattere e il temperamento delle donne, sulla sottomissione o l’emancipazione delle donne, fanno perdere di vista il fatto fondamentale, e cioè che le parti dei due sessi sono concepite secondo la trama culturale che sta alla base dei rapporti umani e che il fanciullo che cresce è modellato, altrettanto inesorabilmente come la fanciulla, secondo un canone particolare e ben definito. (…)

Quando riteniamo che basti rovesciare le posizioni (se un aspetto della vita sociale non è specificamente sacro, allora deve essere specificamente profano; se gli uomini sono forti, allora le donne devono essere deboli) dimentichiamo che le culture compiono ben altri arbitri nello scegliere gli aspetti della vita umana da minimizzare o da esagerare o da ignorare.[19]

Il progetto iniziale è quello di lavorare presso la popolazione delle Pianure, ma i portatori si rifiutano di trasportare i bagagli oltre il villaggio di Alitoa ed è così che la ricerca comincia presso gli Arapesh della montagna.

E così ci trovammo tra le mani una cultura estremamente semplice, che stilizzava la personalità e i ruoli degli uomini e delle donne in maniera simile, come genitori, affettuosi e moderatamente sessuati.

Per la seconda parte del viaggio decidemmo di risalire il fiume Sepik e di scegliere il primo gruppo che avessimo incontrato (…) Risultò essere il gruppo sul fiume Yuat che noi chiamammo Mundugumor, sul quale mancavamo assolutamente di informazioni etnografiche. Malgrado fossero stati sottomessi solo di recente al controllo del governo, la loro cultura era già in frantumi. Fornivano però un buon contrasto con gli Arapesh della Montagna perché gli uomini e le donne, pur presentando tratti della personalità simili, erano fieri e aggressivi, fortemente sessuati, e duri verso i bambini.[20]

Due popolazioni specularmene diverse, i miti Arapesh e i violenti Mundugumor, ma per entrambe la divisione dei ruoli sessuali non corrisponde a differenze di temperamento e si configura per i due sessi secondo i valori identitari della società stessa.

A questo punto mi sembrava che la mia ricerca principale non stesse facendo nessun progresso (…) Fortunatamente avevamo ancora fondi sufficienti per parecchi mesi di lavoro e alla fine scegliemmo una località sul lago Ciambuli, dove ho trovato un interessante rovesciamento della personalità dei due sessi. Le donne erano svelte, pratiche e cooperative e facevano fare toilette agli uomini e ai bambini, gli uomini erano felini, esibizionisti e si occupavano di preferenza di attività decorative e artistiche.

Gregory Bateson stava lavorando nel villaggio Iatmul di Kankanamun e, saltuariamente, ad Aibaum sul lago Ciambuli. Gli uomini Iatmul erano attivi, dominatori e fieri, mentre le donne erano timide, miti e sensibili.[21]

In poche righe riassume il carattere, il senso e l’esito della ricerca che l’ha impegnata per tre anni e ha poi descritto e rielaborato in un volume di più di trecento pagine.

Nel libro la descrizione delle tre popolazioni occupa un numero di pagine diverso, proporzionale probabilmente all’andamento della ricerca stessa: dedica infatti più di 120 pagine agli Arapesh della Montagna, descrivendone le caratteristiche di società cooperativa e dettagliatamente la nascita,  le prime influenze e la crescita di bambini e bambine, fino all’iniziazione e al fidanzamento, seguendo vicende individuali e di gruppo nella vita di lavoro e relazioni quotidiane, nelle feste e cerimonie, nei rapporti tra villaggi e con le straniere popolazioni della costa; ai fieri e bellicosi Mundugumor, cacciatori di teste e litigiosi nella vita sociale e famigliare, dedica una sessantina di pagine e la metà, una trentina, ai Ciambuli, popolo su cui ripiegano dopo la rinuncia  ai Washkuk, peraltro molto simili agli Arapesh, in quel momento occupati in una grande battuta di caccia che sarebbe stata annullata dalla presenza degli ospiti. «E fu così che ci recammo nella zona dei Ciambuli, sapendo di questo popolo soltanto che si trattava di abitatori delle sponde di un lago e che possedevano un’arte bella e viva»[22]così scrive infatti nella terza parte del libro, concludendo la breve introduzione sulla motivazione della scelta.

Nella prima lettera, scritta nel gennaio 1932, sembra molto contenta di essersi fermata presso gli Arapesh:

Sarà un posto ottimo per studiare la genesi della “coscienza dei generi” (espressione coniata da una giornalista di Sidney), perché l’enfasi sulla differenza dei sessi si comincia a farla fin dalla culla: le neonate vengono adornate di orecchini e di collanine, mentre i ragazzi non portano ornamenti fino a età quasi adulta. Le donne portano i pesi, sarchiano, cuociono e, a quanto sembra, hanno una vita dura, ma sono attraenti, sono apprezzate e sanno di essere apprezzate. Tagliate fuori dalla religione, dalla magia e dalla vita sociale degli uomini, sembrano mantenere tuttavia un forte senso della loro importanza, ed è uno spettacolo degno di essere visto quello di una giovane donna che incede attraverso la piazza del villaggio, alla presenza degli anziani intenti a discutere importanti affari di stato.[23]

Al suo sguardo di acuta osservatrice non sfugge la complessità delle relazioni tra i generi che solo una definizione rozza e imprecisa potrebbe ridurre dentro il confine della subalternità e/o dell’oppressione delle donne.

Il luogo risulta ottimo per studiare anche perché «E’ senza dubbio il posto più piacevole per lavorare in cui sia mai stata. Più fresco che a Samoa. Più fresco e con gente più simpatica che a Manus o tra gli Omaha.», scrive a febbraio[24]e il sentimento di delusione con cui lascia gli Arapesh riguarda unicamente la sua ricerca «non vi avevo trovato alcuna differenza tra i sessi, né studiando le loro credenze culturali né osservando individualmente le persone. La conclusione che potevo trarne era che queste differenze fossero nient’altro che una questione di cultura (…) Lasciai dunque gli Arapesh allietata dal temperamento di quel popolo e interessata dalla loro notevole consistenza culturale, ma con pochi elementi nuovi per lo studio del mio problema».[25]

Un caso fortunato la porta presso i Mundugumor che, pur presentando molte condizioni economiche e sociali simili a quelle degli Arapesh, vivono secondo valori e comportamenti totalmente opposti.

Utilizzando le coordinate sociali che definivano (e in parte ancora definiscono) le differenze di temperamento tra i sessi nella nostra cultura osserva che

Mentre gli Arapesh hanno cristallizzato la personalità dei loro uomini e delle loro donne in un modello che, secondo il nostro metro, non può essere definito che materno, femminile, svirilizzato, i Mundugumor sono andati all’estremo opposto e, ignorando anch’essi il sesso come base delle differenze di temperamento, hanno cristallizzato il comportamento dei loro uomini e delle loro donne in un modello attivamente maschile, virile, senza alcuno di quei caratteri più dolci che noi consideriamo come retaggio inalienabile della donna.[26]

Se nel caso degli Arapesh, la riproduzione e la sopravvivenza dei figli rappresentano l’interesse centrale di padri e madri che concorrono con lo stesso atteggiamento affettuoso a strutturare le differenti competenze, lavori e ruoli, presso i Mundugumor l’interesse per i figli è il motivo che struttura la conflittualità tra i sessi, a cominciare proprio dai ruoli oppositivi di padre e madre, che concorrono con lo stesso astioso temperamento a costruire una società per la quale i valori di forza e durezza si traducono in caratteristiche delle personalità maschili come di quelle femminili.

Se è più breve la parte del testo dedicato ai Ciambuli, vi troviamo però una delle più belle descrizioni paesaggistiche tra le tante che illustrano le sue ricerche, lettere e racconti. La visione del lago è un’emozione dettagliata che testimonia una sensibilità visiva, una competenza visuale e una capacità di registrazione “cinematografica” che certo non saranno estranee alla scelta di utilizzare ampiamente la fotografia e poi la cinepresa come strumenti del racconto etnografico.

L’acqua del lago è così intensamente colorata dal bruno-scuro della torba da apparire, in superficie, nera, di un nero che, quando non soffia il vento, ha la lucentezza dello smalto. Nei periodi di calma, su questa superficie smaltata si stendono a migliaia e migliaia le foglie del loto rosa e del loto bianco e di un giacinto d’acqua, più piccolo, color blu intenso. Tra questi fiori, sul far del mattino, si danno convegno le bianche ossifraghe e gli aironi azzurri, completando l’effetto decorativo in modo apparentemente così studiato da non sembrare reale. Quando il vento, soffiando, increspa la superficie nera traendone freddi scintillii blu, le foglie di loto, che giacevano inerti e spesse sullo smalto dell’acqua, si arruffano, si sollevano lungo gli steli e improvvisamente si rivelano non già monotonamente verdi, ma cangianti di rosa e verd’argento, e delicate nella loro flessibile sottigliezza. Le piccole alture scoscese che sorgono lungo la sponda del lago condensano sulle loro cime nuvolette bianche simili a nevicate, e queste accentuano il brusco emergere delle alture stesse dal piano degli acquitrini.[27]

Poi, quasi bruscamente, comincia a parlare del piccolo popolo dei Ciambuli: numero di persone, lingua, villaggi, inserendoli nel quadro del lago con lo scatto di una felice similitudine sulle «loro case rituali che si ergono su alte palafitte lungo le sponde paludose del lago, simili a trampolieri.»

Uno stile di scrittura che le è valso molte critiche, nonché penalizzazioni nella carriera, forse perché ci restituisce un quadro molto più vivo e complesso rispetto a certe algide diapositive in cui gli individui, presi a distanza, sono ridotti a tipologia, per giunta monosessuata.

Oggi, che sulla scrittura e sulla tipologia del romanzo sono state condotte molte, e divergenti, analisi, pensare che Margaret può essere annoverata tra i grandi romanzieri dell’antropologia è una definizione che suona come merito e non denigrazione.

Se il fine di qualsiasi lavoro di ricerca è quello di ampliare l’orizzonte delle conoscenze umane, proprio il suo modo di scrivere, che ci immette direttamente accanto a lei nei luoghi, tra le persone, dentro le vicende e le emozioni che le animano, possiamo dire che l’ha raggiunto, conservando sempre la consapevolezza del limite delle possibilità individuali, facendo anzi del limite lo spazio di esercizio di un’illimitata passione.

Forse se vogliamo conservare quella ricchezza del molteplice di cui gli antropologi sono andati in cerca in ogni angolo del mondo, proprio la differenza degli sguardi e quindi delle scritture e oggi di tutti gli stili narrativi condotti con i nuovi mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione, possono garantire la multiforme complessità in cui potranno pescare liberamente le generazioni future per comprendere il loro stesso passato.[28]

Tra i Ciambuli, che vivono soprattutto per l’arte, la posizione di potere è detenuta dalle donne, che svolgono l’attività della pesca dalla quale dipende l’alimentazione, anche se il sistema è patrilineare e vige la poligamia.           

Una società contraddittoria, scrive Mead «nella quale gli uomini hanno il predominio teorico, legale, mentre sul piano pratico, fisico, recitano una parte subordinata, condizionata dalla sicurezza data loro dalle donne, e anche sul piano dei rapporti sessuali lasciano alle donne l’iniziativa.»[29]

Proprio questa contraddizione, espressa anche nell’abbigliamento, più sobrio per le donne e più elaborato per gli uomini, contrario quindi anche alle consuetudini delle società occidentali, offre la possibilità di completare efficacemente i dati raccolti.

La quarta parte del libro è dedicata all’esame dei risultati, divisa in due capitoli: il primo, una decina di pagine, dedicato alla standardizzazione del temperamento sessuale, il secondo, più lungo, agli aberranti.

Eludendo in parte la questione del temperamento (ricordiamo lo stato ancora iniziale degli studi psicologici sul comportamento, sulle emozioni, sul funzionamento del cervello), Margaret si limita ad osservare che la ricerca ha dimostrato l’impossibilità di collegare al sesso quegli elementi di temperamento che in occidente venivano tradizionalmente considerati maschili o femminili.

Si è costretti a concludere che la natura umana è incredibilmente malleabile, tale da adattarsi infallantemente, con aspetti contrastanti, a condizioni culturali in contrasto. Le differenze fra individui appartenenti a culture diverse, come le differenze fra individui della stessa cultura, sono da attribuirsi quasi interamente a differenze di condizionamento, soprattutto durante l’infanzia; un condizionamento la cui forma è determinata culturalmente. A quest’ordine di condizionamento appartengono le differenze standardizzate di personalità tra i sessi, differenze che sono creazioni culturali, alle quali tanto le femmine quanto i maschi di ogni generazione sono educati a conformarsi. (…)

Quando si dice che, una volta resisi conto del pieno significato della malleabilità dell’organismo umano e dell’importanza preponderante del condizionamento culturale, rimangono ancora dei problemi da risolvere, dev’essere ben inteso che tali problemi vengono dopola comprensione della forza del condizionamento e non prima.[30]

La prosa lievemente involuta, così diversa dalla chiarezza espositiva prevalente in tutta l’opera, segnala (insieme al “quasi” non ulteriormente giustificato) la difficoltà dovuta alla decisione di non trattare alcune ipotesi lungamente discusse anche con Fortune e Bateson, che è certamente all’origine delle molte critiche (anche se non tutte onestamente fondate) suscitate dalla pubblicazione, così come il corsivo che prescrive la direzione della ricerca è il sintomo di legittime preoccupazioni, legate al contesto storico-politico del tempo e ancora oggi attuali.

Durante le intense discussioni a tre, con Fortune e Bateson, (intensità accentuata dal fatto che Margaret e Gregory si stavano innamorando) durante le quali mettevano a confronto i dati raccolti con l’analisi di sé, erano emerse nuove domande rispetto al rapporto tra sesso e temperamento:

Noi ci chiedevamo: e se ci fossero altre specie di differenze innate – differenze importanti come quelle fra i sessi, ma indipendenti dal sesso? Se fosse possibile dimostrare che gli esseri umani, diversi al momento della nascita per qualità congenite, possono rientrare in tipi caratteriali sistematicamente definiti, e che esistono le versioni maschili e femminili di ciascuno di questi tipi caratteriali?[31]

Discussioni intense favorite dall’apporto fondamentale, e da Margaret pienamente riconosciuto, della formulazione data da Ruth Benedict sul grande arco di personalità potenziale dal quale ogni cultura sceglie i tratti umani da accentuare.

Facendo riferimento anche al quadruplice schema di raggruppamento degli esseri umani come tipi psicologici nell’opera di Jung, da parte di Margaret, e alla competenza biologica di Gregory che conosceva gli schemi formali dell’eredità mendeliana, avevano elaborato un sistema a quattro modelli nel quale avevano inquadrato non solo tutte le culture conosciute, ma la propria stessa personalità in relazione alla cultura d’appartenenza.

Sia Gregory sia io sentivamo di essere, entro certi limiti, dei devianti, ciascuno entro la propria cultura. Lui non si sentiva per nulla attratto da quelle forme aggressive di comportamento maschile che sono standardizzate nella cultura inglese. Quanto a me il mio interesse per i bambini non si adattava allo stereotipo della donna americana che ha una carriera professionale, né, beninteso, allo stereotipo della moglie e della madre americana possessiva e autoritaria. Era eccitante gettar via gli strati di comportamento ricevuti dalle convenzioni culturali e sentire di sapere finalmente chi si era.[32]

La questione era davvero scottante, soprattutto per quanto riguardava alcune ipotesi, a dire il vero ancora vaghe, sui rapporti tra temperamenti e tipi fisici e non è un caso che Margaret ne parli nella sua autobiografia piuttosto che nei lavori scientifici, come di uno strumento che era stato fecondo di domande in quel contesto e momento particolare della loro vita, ma troppo schematico per essere divulgato in un mondo sempre alla ricerca di semplificazioni razziste e sessiste.

La figlia spiega molto bene la ragione per cui l’insieme delle idee che erano state trascritte nei quadranti non divenne mai una pubblicazione:

Quando Margaret e Reo lasciarono la ricerca sul campo nel 1933, rientrarono in un mondo in cui era sempre più urgente per gli antropologi affermare la potenzialità di tutti gli esseri umani di assimilare qualsiasi modello di umanità culturalmente dato. Questa affermazione di un potenziale comune, indipendentemente dalla razza e dalla genealogia, fu in quegli anni uno dei compiti principali degli antropologi, compito al quale Franz Boas, Ruth Benedict e Margaret si dedicarono a lungo. Esso fu reso sempre più pressante dall’ascesa del nazismo, e richiese una costante applicazione nello sforzo di far fronte al razzismo in America, ancora oggi questo principio è di vitale importanza, nella nostra persistente necessità di renderci conto che le differenze di sesso non sono differenze di ineguaglianza. Margaret rimase sempre dell’idea che la sua singolarità fosse parzialmente genetica, ma per molti anni lasciò intenzionalmente da parte la sua ipotesi che le differenze di personalità o di potenziale intellettivo potessero essere collegate all’eredità genetica dell’individuo, presentendo che qualsiasi sforzo per affrontare questa materia avrebbe dato luogo a distorsioni e sarebbe stato frainteso da coloro che evocano la vecchia, rozza dicotomia fra ereditarietà e influenza culturale e fanno cattivo uso dell’interpretazione biologica per giustificare eventi sociali.[33]

E, sullo stesso tema, mi sembra importante aggiungere il racconto, sempre della figlia, di un’ulteriore discussione, durante uno degli incontri per occasioni professionali dopo il divorzio:

Gregory giudicava contrario a ogni ragionevole apertura mentale in campo scientifico ipotizzare riguardo a una specie come la specie umana, con considerevoli variazioni fra le diverse popolazioni, tutte comunque capaci di incrociarsi, che fra i diversi tipi di variazioni non ci fossero differenze di tipo cognitivo. Margaret argomentava con passione che fin quando la gente tenderà a passare così rapidamente da concetti di diversità a concetti di superiorità, e fino a quando la varianza mentale sarà trattata in termini di una così rozza e culturalmente viziata aggregazione quale il quoziente di intelligenza, questo problema non può e non deve essere approfondito.[34]

Qualunque sia la nostra opinione oggi a proposito di studi e ricerche, non mi sembra che possiamo ancora accantonare l’appassionata preoccupazione di Margaret, e possiamo invece tranquillamente ignorare alcune accuse sul carattere “politico” dei suoi studi, rivolte anche a tutta la scuola boasiana.

Nessuno può dirsi estraneo alla dimensione politica, tanto più se si pone nel ruolo di produttore di un discorso rivolto a un pubblico, che sia di allievi e colleghi o più vasto, e ogni antropologo, come ogni persona, è certamente figlio del suo tempo, che noi, nati dopo, possiamo leggere nella trama della sua vita e non solo dei suoi scritti.

INDIVIDUI ABERRANTI
Lo strumento dei quadranti e il racconto dell’atmosfera costruita dalle discussioni tenute nella camera-zanzariera dai tre ricercatori spiega anche l’interesse per gli individui devianti, quali essi stessi in parte si riconoscevano, anche come ricercatori.

Nel quadro generale delle descrizioni dei sessi e delle loro relazioni le osservazioni più approfondite riguardano certamente i cosiddetti individui aberranti, cioè coloro che si discostano dell’ideale umano perseguito dalla società in cui vivono.

A questo tipo di individui Margaret aveva dedicato un capitolo specifico, e corposo, in ogni sezione della trattazione relativa alle tre popolazioni, utilizzando nei titoli il termine aberrante per i casi che si discostavano dall’ideale Arapesh, deviante per i Mundugumor e non adattati per i Ciambuli, anche se con significato sostanzialmente sinonimico.

Il termine più “forte” è certamente aberrante, il cui significato nel senso comune presenta un’accezione negativa, ma viene utilizzato da Mead con una connotazione puramente descrittiva, come chiarisce con molta precisione nella quarta parte del testo relativa all’esame dei risultati:

Con il termine di “aberrante” intendo chiunque, o per una tendenza naturale, o per un accidente della prima educazione, o per le contraddizioni stesse di una situazione culturale eterogenea, sia diventato culturalmente autonomo e consideri i modelli fondamentali proposti dalla sua società come privi di senso, non reali, insostenibili o addirittura errati. All’uomo ordinario di una società qualsiasi basta guardare dentro il proprio cuore per vedervi il riflesso del mondo che lo circonda. Il delicato processo che ne ha fatto un adulto gli ha in pari tempo conferito questa appartenenza spirituale alla società in cui vive. Non altrettanto può dirsi per l’individuo le cui caratteristiche di temperamento non sono giudicate utili, e neppure tollerate, dalla sua società. (…) Quanto più una società è integrata e definita nei suoi scopi, tanto più facilmente essa condanna alcuni dei suoi membri (che in verità sono suoi membri soltanto per nascita) a estraniarsi da essa. Costoro assumono, nel migliore dei casi, atteggiamenti di incertezza e di perplessità; nel peggiore dei casi, atteggiamenti di ribellione che possono portarli alla pazzia.[35]

Presso gli Arapesh osserva come sia diffusa un’educazione alla mitezza e collaborazione in tutte le attività da parte di padri e madri nei confronti di bambini e bambine.

Margaret individua tre possibilità che possono essere praticate da una cultura per incoraggiare un certo tipo di temperamento: 1. attenuare o accentuare l’espressione di tutta la gamma di differenze di un certo tipo di temperamento; 2. incoraggiare una sola variante e vietare le altre; 3. premiare un’estremità della scala delle differenze e frenare l’altra estremità.

Gli adulti Arapesh usano la prima possibilità quando si tratta di incoraggiare la passività come atteggiamento generale così che tutta la gamma delle differenze rientra sotto una «cappa generale» mentre rientrano nel secondo caso quando premiano solo il bambino altruista e disapprovano qualsiasi comportamento diverso.

Presso gli Arapesh hanno vita difficile gli aggressivi e violenti, sia uomini che donne, ma non essendo personalità contemplate non esistono nemmeno modi per contenere o indirizzare ad una positiva realizzazione di sé individui che presentano questi caratteri, che quindi finiscono col danneggiare se stessi e talvolta la comunità che li circonda con i propri comportamenti, avvolgendosi senza via di scampo nella propria infelicità.

Fra gli Arapesh dunque gli individui aberranti per la loro violenza hanno vita difficile, siano essi uomini o donne. Però non sottostanno alla rigida disciplina che riceverebbero presso altri popoli, più decisi a imbrigliare questi temperamenti. (…) In una società dove non c’è posto per la guerra, per il comando, per le prove individuali di coraggio e di forza, i violenti finiscono per vedersi trattati per poco meno che pazzi. Se sono individui molto intelligenti, il tacito ostracismo della comunità, che non comprende e non riconosce le loro richieste, li fa piombare in crisi di tetraggine regressiva, ne ottenebra la mente, ne indebolisce la memoria, rendendoli sempre più incapaci di comprendere il comportamento della loro gente.[36]

Presso i Mundugumor avviene l’opposto: dove la tenerezza è bandita da ogni relazione e viene esaltata la competizione violenta sono degli spostati i ragazzi che tremano al loro primo omicidio o le ragazze dolci con i bambini, disponibili con tutti.

Ma questi individui, osserva Margaret, lasciati ai margini e sovente disprezzati, costituiscono una risorsa per la coesione sociale e il mantenimento di quei valori e pratiche dai quali sono esclusi, mentre non si può dire lo stesso per gli individui che eccedono nella violenza, il cui comportamento, pur circondato dall’ammirazione, risulta comunque distruttivo e minaccioso per la sopravvivenza della società.

Ma sono proprio questi uomini che rendono possibile la sopravvivenza della società mundugumor. Essi possono vivere accanto agli altri uomini senza litigare continuamente e senza cercare di sedurne le mogli e le figlie. (…) Essi formano le costellazioni che si muovono intorno ai capi, sono gli eterni fratelli minori, gli eterni generi, gli eterni cognati, sempre pronti a collaborare alla costruzione di una casa, ai preparativi di una festa, a una incursione. (…) Senza di essi l’atmosfera di lotta continua sarebbe intollerabile, anzi insostenibile perché tutti scenderebbero in campo l’un contro l’altro armati. E invece di complicare la vita sociale assumendo posizioni ambigue e incomprensibili, come è il caso degli spostati della società arapesh, gli spostati della società mundugumor rendono possibile proprio quella vita violenta di gara e di lotta, che ad essi ripugna.[37]

Sono quindi degli spostati per quanto riguarda la realizzazione di sé, ma non lo sono per la società, nella quale non generano inquietudine o disordine.

E’ proprio la quantità di osservazioni come queste, basate su una mole enorme di lavoro di ricerca, che fanno del libro una miniera di riflessioni in cui scavare ancora oggi, perché gli interrogativi sul modo migliore di costruire una società a misura del benessere di ogni individuo restano aperti per ogni generazione ad ogni latitudine, così come per ogni individuo nel proprio contesto.

Per i Ciambuli, una società costruita sulla dedizione all’espressione artistica, i ruoli degli uomini e delle donne sono complementari, ma dentro il disegno patrilineare delle relazioni e delle proprietà il potere reale viene esercitato dalle donne. L’educazione è un insieme di prescrizioni alle quali fanno riscontro pratiche contraddittorie nelle quali non è facile orientarsi, soprattutto per i maschi per i quali non è sempre chiaro il predominio della donna sotto forme patriarcali, per questo «Gli spostati più appariscenti sono gli uomini, con le loro forme di nevrastenia e di isterismo, con le loro improvvise crisi di follia. La donna spostata invece, la donna mite, accondiscendente, si mimetizza, di solito, nel gruppo delle altre donne, lasciandosi mettere in ombra da una moglie più giovane e affidandosi alla guida della suocera.»[38]

La questione generalmente affrontata non è quindi quella dell’individuo che viene percepito come diverso per proprie deficienze organiche, ma dell’individuo, maschio o femmina, in disaccordo con i valori della propria società.

Ed è tanto più facile che si trovino individui devianti quanto più sono prescrittive le caratteristiche attribuite ai due sessi.

Anche la questione dell’identificazione con il genitore del proprio sesso o del sesso opposto, tema rilevante nell’analisi psicologica, non può essere considerata come un indicatore di temperamento diverso tra maschi e femmine, visto che in tutte le società «i valori di prestigio sono sempre dalla parte della occupazioni maschili, largamente se non interamente a scapito delle occupazioni femminili.»[39]

Più spinosa da affrontare la questione dell’omosessualità in un periodo in cui non si nomina il lesbismo, si parla ancora di “invertiti” per gli individui che amano persone dello stesso sesso e non esistono categorie per le molte differenze oggi affrontate dagli sudi sul gender e transgender e socialmente legittimate da movimenti politici.

Lei stessa ha relazioni intime sia con donne che con uomini, una condizione vissuta probabilmente con disagio per la necessità di mantenere un riserbo che certo era poco congeniale al suo desiderio di condivisione.

Una scelta di libertà che certo non è estranea alle critiche velenose dei suoi detrattori, valga per tutti il modo subdolo col quale Clifford Geertz[40]utilizza la valorizzazione della figura di Ruth Benedict per metterla in cattiva luce, introducendo una lettura malevola del loro rapporto, sminuendo in questo modo in realtà la stessa personalità della Benedict, e probabilmente solo perché i rapporti tra donne, tradizionalmente vissuti nel silenzio, rompono molti stereotipi sulle relazioni e non solo quelli sulle attribuzioni di genere.

Margaret non elude comunque la questione e osserva che:

Così, in mille modi, il fatto che è necessario sentirsi membro non soltanto di una data società in un dato momento, ma anche di un determinato sesso e non dell’altro, condiziona lo sviluppo del bambino e produce degli spostati. Molti studiosi della personalità attribuiscono alla “omosessualità latente” i molteplici, imponderabili casi di mancato adattamento. Ma questo giudizio deriva dalla nostra concezione bisessuata ed è una diagnosi post hoc, una diagnosi dei risultati, non delle cause. (…)

Se è vero che i tratti di temperamento in contrasto fra loro, considerati dalle varie società come legati al sesso, non hanno invece alcun rapporto con il sesso, ma sono semplicemente delle potenzialità umane specializzate come comportamento di un sesso, allora è inevitabile che in ogni società, nella quale si insista su di un rapporto artificioso tra sesso e coraggio, o tra sesso e coscienza positiva di sé, o fra sesso e preferenza per i rapporti personali, si presentino degli individui aberranti ai quali non è più necessario dare l’etichetta di omosessuali latenti. La mancanza di corrispondenza tra il temperamento originario dei membri dei due sessi e la parte che la cultura assegna loro ha dei riflessi anche sulla vita degli individui nati con il temperamento che la società considera adatto al loro sesso.[41]

L’aberrazione, cioè la difformità di temperamento e comportamento di maschi e femmine rispetto alle aspettative sociali legate ai ruoli di genere, diventa così la condizione dalla quale partire per guardare a tutti i comportamenti sociali e l’esito e la rilevazione di un disagio identitario diffusamente visibile per gli individui di entrambi i sessi nella società americana.

UNA CONCLUSIONE “INTRODUTTIVA”
Fino a che punto fosse difficile per gli americani distinguere fra predisposizioni innate e comportamento acquisito attraverso la cultura risultò evidente dalle recensioni contraddittorie al libro. Le femministe lo esaltarono come la dimostrazione che le donne non amavano “naturalmente” i bambini e raccomandarono di non dare alle ragazzine bambole con cui giocare. I recensori mi accusarono di non voler riconoscere l’esistenza di differenze fra i sessi. Quattordici anni dopo, quando scrissi Male and Female, un libro nel quale mi occupai con estrema diligenza di come le differenze culturali e di temperamento si riflettono nella vita di uomini e donne, e poi discussi le caratteristiche che sembravano essere correlate alle differenze primarie di sesso fra uomo e donna, fui accusata di antifemminismo dalle donne, di femminismo aggressivo dagli uomini e, da parte di individui di entrambi i sessi, di negare la piena bellezza dell’esperienza di essere donna. [42]

Così scriverà Margaret nell’autobiografia, a dimostrazione del fatto che la questione dell’identità sessuale è tanto più centrale nelle culture e nell’organizzazione sociale, quanto più si tenta di eluderla con artificiose definizioni e qualche escamotage paritario.

Nella conclusione a Sesso e Temperamento Margaret non si sottrae al compito di fare il punto e ridefinire i problemi aperti, fornendo indicazioni per una strada di ricerca sulla quale lei stessa si sentiva impegnata e mette in discussione proprio la faciloneria di prescrizioni sociali dell’uno o dell’altro tipo, insidiose quanto le ambiguità educative presenti ormai nella società americana.

La nozione che le personalità dei due sessi sono un prodotto sociale si accorda con tutte le concezioni che tendono a un’ordinata pianificazione della società. È un’arma a doppio taglio, che può servire per ricavare dal corpo dell’umanità la più varia e più duttile delle società che essa abbia mai avute, così come può essere usata semplicemente per tagliarvi dentro una strada stretta e infossata, per la quale un sesso o ambedue i sessi saranno costretti a marciare irreggimentati, senza guardare né a destra né a sinistra.[43]

A questo incipit evocativo dei regimi totalitari, non dimentichiamo che il libro viene pubblicato nel 1935, segue un’analisi puntuale delle ambiguità presenti nella situazione americana nella quale le figlie della generazione delle madri emancipate è cresciuta secondo i canoni di una parità misurata su opportunità e valori un tempo riservati solo ai maschi, con l’esito di non poche confusioni e frustrazioni, non molto diverse da quelle che aveva osservato tra i Ciambuli.

Guardando molte culture diverse non sfugge a Margaret il fatto che la differenza tra i sessi non è solo esclusione e subalternità delle donne, costrizione all’esercizio del potere per gli uomini, ma rappresenta anche un modo di espressione della ricchezza delle possibilità umane, diventa la modalità di elaborazione dell’incontro nel rito, nella festa, nell’espressione artistica.

Non le sfugge il carattere imitativo che può prendere l’emancipazione con l’esito di una valorizzazione ridondante di poche forme di personalità e attività, soprattutto a scapito di tutta la ricchezza culturale elaborata nella separatezza del mondo femminile.

In accordo anche con la linea culturale della scuola boasiana, è certamente più attratta dalla varietà di espressione delle differenze nella vita quotidiana e nell’arte che nelle esperienze oscure della violenza, degli uomini sulle donne, ma anche tra generazioni e nelle famiglie, e se questo è un appunto che possiamo muoverle oggi dobbiamo anche ricordare che la sua esperienza di vita, cresciuta con persone amorevoli e in una condizione di benessere, l’ha tenuta lontana da questo tipo di esperienze nella stessa società di appartenenza.

Ai suoi occhi di antropologa, giovane donna che si misura direttamente sul campo, sono preziose tutte le differenze e forse è in questa sua tensione per il riconoscimento dell’uguaglianza di opportunità per tutti gli individui, maschi e femmine, mai disgiunta dall’attenzione alla salvaguardia di tutte le diverse espressioni dell’umano agire, la radice di alcuni fraintendimenti della sua opera da parte di critici dotati di un pensiero etico meno raffinato.

Se abolire le differenze fra le personalità riconosciute dell’uomo e della donna significa abolire ogni forma di espressione del tipo di personalità che si considerava o esclusivamente femminile o esclusivamente maschile, allora questa soluzione comporta una perdita sociale. Quel che si può dire di una festa, che è resa più lieta e piacevole dal diverso abbigliamento dei due sessi, vale anche per cose meno materiali.(…)

Il membro di una società è tanto più ricco quanto più la sua società promuove forme diverse di personalità, consentendo che un gruppo di età o classe o di sesso persegua scopi negati o ignorati da un altro gruppo. L’arbitrario conferimento di un guardaroba, di un galateo, di un complesso di norme di risposta sociale, a individui appartenenti a una determinata classe o a un dato sesso, o con la pelle di un certo colore, o nati in un determinato giorno della settimana, o con una data costituzione fisica, fa indubbiamente violenza alle doti individuali dei singoli, ma permette il formarsi di una cultura ricca.[44]

L’ago della sua bussola punta sempre verso la possibilità di una convivenza pacifica da parte di individui che devono però avere indistintamente l’accesso a quella felicità che, anche se mai nominata in modo esplicito, per la consapevolezza di quanto sia nelle vite umane un’esperienza non programmabile, rappresenta lo sfondo politico del suo pensiero, profondamente radicato in quel sogno americano che vede la felicità, intesa come benessere, nominata anche nella Costituzione.

Per questo alle precedenti osservazioni lei stessa obietta:

Noi possiamo riconoscere, sì, il valore della complessità, la bellezza e l’interesse delle parti che una società complessa trae dal fatto casuale della nascita, ma dovremmo in pari tempo chiederci: non è troppo alto il prezzo che l’umanità paga per questo? La bellezza insita nel contrasto e nella complessità non potrebbe essere ottenuta in altro modo e per altre vie? Se l’insistenza sociale sulla differenziazione delle personalità dei due sessi si risolve in tanta confusione, in tanto disorientamento, in tanta infelicità di individui spostati, non sarà proprio possibile immaginare una società che faccia a meno di queste differenziazioni, senza peraltro privarsi dei valori ad esse collegati?[45]

E prosegue osservando come in alcune epoche vi sia stato un «ammorbidimento» della classificazione rigida dei sessi, ma solo per il prevalere della gerarchia sociale, e la posizione egualitaria raggiunta da un piccolo gruppo di donne delle classi superiori non ha mai rappresentato un miglioramento delle condizioni di tutti gli individui, maschi e femmine, della società, che anzi ha irrigidito la gamma dei comportamenti possibili favorendo l’arroganza delle classi alte anche attraverso la prescrizione della remissività per quelle basse.

Questa notazione storica è particolarmente importante oggi e può essere un interessante criterio di lettura per comprendere l’arretramento e la scomparsa dei movimenti femminili e femministi, a fronte di un processo di cooptazione delle donne delle classi sociali che detengono il potere, emancipate ormai da tre generazioni in occidente, nei ranghi delle posizioni di governo, sia economico che culturale e politico, della società.

Si spiegherebbe così il depotenziamento della spinta radicale al cambiamento sociale con il relativo ripiegamento in ruoli subordinati e tradizionali da parte di donne, la maggioranza, che si vedono invece preclusa la mobilità sociale.

L’uguaglianza delle possibilità dovrebbe arricchire la complessità dello sviluppo sia individuale che sociale, non mortificarlo.

È in questo terreno che potrebbero essere poste le fondamenta per costruire una società che a distinzioni arbitrarie sostituisca distinzioni reali. Dobbiamo riconoscere che sotto le classificazioni di sesso o di razza esistono le stesse potenzialità, le quali si ripresentano di generazione in generazione, ma il più delle volte si isteriliscono e muoiono, perché la società non ha posto per esse.

E la conclusione richiama il compito educativo degli adulti ad un impegno a favore delle giovani generazioni che hanno diritto a fruire di tutto il patrimonio culturale per un libero sviluppo della propria personalità.

Forse un’utopia, alla quale Margaret resterà fedele tenacemente per tutta la vita.

Quattordici anni dopo tornerà sullo stesso tema con Maschio e Femmina, e con la scelta di un confronto più esplicito con la società americana, nonostante l’atmosfera degli studi non sia molto cambiata  in quegli anni cinquanta ed anzi, dopo i tempi duri della guerra e l’esaltante spinta al rinnovamento del primo dopoguerra, l’indicazione per tutti, ma soprattutto per le donne, sia quella di un ritorno all’ordine in un clima di restaurazione.

«Cosa debbono pensare gli uomini e le donne della loro mascolinità e della loro femminilità in questo ventesimo secolo nel quale tante delle nostre vecchie idee hanno bisogno di essere rinnovate?».[46]Comincia così la sua elaborazione che tratterà direttamente quell’ambivalenza di vuoto e sovrabbondanza, propri delle categorie di uomo e donna, come verranno acutamente definite più di trent’anni dopo dalla storica Joan Scott. «Vuote perché non hanno un significato definitivo e trascendente; sovrabbondanti perché, anche quando sembrano fisse, continuano a contenere al proprio interno definizioni alternative, negate o soppresse.»[47]

Un solo libro non può che sfiorare un problema così fondamentale per la vita umana. Con quest’opera ho tentato di raggiungere tre scopi. Il primo è di spiegare più chiaramente in che modo la conoscenza del nostro sesso e i rapporti con l’altro siano basati sulle differenze e sulle somiglianze dei corpi umani. Il nostro corpo costituisce un soggetto complesso e difficile da trattare. Siamo troppo abituati a coprirlo, a parlarne indirettamente, con termini convenzionali e metafore, e a nascondere perfino il sesso dei neonati sotto nastri azzurri e rosa. È difficile rendersi conto delle cose che ci riguardano, che sono state e saranno sempre modificate dal nostro pudore e dalla nostra reticenza.[48]

Per certi versi oggi i corpi sembrano fin troppo scoperti, ma anche l’eccesso di esibizione può celare reticenze e occultamenti e sulla questione della sessualità umana, che occupa il confine tra biologia e cultura, siamo ancora agli inizi di molte scoperte anche se non mancano studi interessanti.[49]

E nel concludere la presentazione delle domande, molte delle quali a sessant’anni di distanza restano inevase:

Se ad ogni passo ci domandiamo quali sono i limiti inferiori e i probabili limiti superiori insiti nel fatto che esistono due sessi diversi fra loro, non solo otteniamo risposte sui compiti dei sessi nel mutevole mondo di oggi, ma andiamo oltre, suffragando la convinzione che per ogni problema riguardante gli esseri umani non dobbiamo considerare i soli limiti o le sole aspirazioni e potenzialità ma entrambi gli elementi. Accresceremo così la fiducia nella nostra umanità completa – radicata nell’ascendenza biologica che non possiamo trascurare – capace di tendere ad altezze di cui ogni generazione intravede, nell’ascesa, solo la tappa successiva.[50]

Un approfondimento ulteriore di questo testo esula dalla presente trattazione, ma ho voluto comunque citarlo perché rappresenta l’altro pezzo di cornice, insieme  a L’adolescenza in Samoa, per illuminare e comprendere meglio l’originalità e la centralità di Sesso e Temperamento nelle tematiche successivamente studiate da Margaret Mead e nel modo stesso col quale ha costruito e interpretato la sua professione di antropologa, insieme metodo tematiche e vita.

CONCLUDERE PER COMINCIARE
Sono molte le piste di ricerca possibili, non solo dentro e intorno all’opera di Margaret Mead, ma a questo stesso testo, che può essere attraversato in altri modi, diversi da come io l’ho fatto: dall’analisi dell’uso del concetto di temperamento, e del suo significato nel contesto culturale del tempo, alla questione della ricezione del testo nella cultura americana e negli studi antropologici; dall’elaborazione del metodo, documentato anche dalle lettere e dall’autobiografia, all’individuazione delle osservazioni che verranno riprese nei suoi studi successivi; dalla rete di relazioni dentro le quali comincia a muovere i primi passi della sua ricerca, in particolare lo straordinario sodalizio con Fortune e Bateson (e sullo sfondo, ben visibili, Franz Boas e Ruth Benedict) agli sviluppi di amicizie feconde di molteplici apporti disciplinari, fino a tutte le relazioni intrecciate con le persone con cui ha lavorato; dall’uso della lingua, con la struttura sintattica, la scelta degli aggettivi, la definizione dei concetti, il tessuto delle metafore, la tensione narrativa, alla relazione tra linguaggio verbale e non verbale, con l’utilizzo simultaneo della narrazione linguistica, fotografica, cinematografica, che segnalano la curiosità per l’uso di strumenti decisamente innovativi nel lavoro sul campo; dal riconoscimento della sua opera al disconoscimento, come sintomi di problemi aperti nelle relazioni e nelle culture, fuori e dentro l’accademia, non ultima quella femminista.

Piste che esulano in questo momento dalle mie previsioni di ricerca, ma che danno conto della ricchezza che ho ritrovato in questo testo, ricchezza di osservazioni e sollecitazioni, in un tempo nel quale ho talvolta la sensazione che una certa ridondanza nelle pubblicazioni offuschi questioni essenziali, la cui perdita significa spesso lo smarrimento della possibilità non solo di capire il presente, ma soprattutto di agirlo e non subirlo passivamente.

Alcuni limiti del testo appartengono certamente all’epoca e allo stadio degli studi antropologici, come l’uso del termine primitivi per definire popoli dalle culture diverse da quella cosiddetta occidentale, anche se poi nel suo concreto racconto questo termine non ha mai una valenza gerarchica e spesso il confronto si conclude con un giudizio a favore delle culture altre, di cui evidenzia una maggiore raffinata competenza del vivere rispetto alla società americana.

Parla di uomini e donne, ma si trova ad utilizzare talvolta il termine uomo come sinonimo di specie umana e donna come specificazione della specie, ma ricordiamo che scrive molto prima che la lingua venga analizzata come quel deposito di cultura che registra i rapporti di potere e comunque, su questo terreno, un cambiamento è ben lontano dall’essere acquisito.

Rileggendolo mi sono comunque convinta dell’importanza di questa ricerca per gli sviluppi successivi del lavoro e della riflessione di Margaret Mead e il testo resta, per la chiarezza espositiva, per la quantità di osservazioni e per la centralità delle questioni poste, estremamente attuale e meriterebbe l’inserimento non solo nel piano di studi all’università, ma proposto alla lettura e al dibattito nelle scuole superiori.

Non penso di esagerare se ritengo in sostanza che dovrebbe far parte del bagaglio di studi di ogni insegnante, maschio o femmina, di qualsiasi ordine di scuola.

Del resto concordo con Busoni quando dice che:

non vi furono altri lavori come quelli di Mead, in cui uomini e donne erano esaminati gli uni in relazione alle altre. L’antropologia, che ha tra le altre scienze sociali una posizione privilegiata riguardo all’analisi delle categorie di sesso/genere per la sua vocazione comparativa tra società e tra culture, tratta con metodi diversi i membri della società che studia e descrive, a seconda che si tratti di uomini o di donne.

Si potrebbe allora dire che se l’antropologia di gran parte del Novecento non “studia” la differenza di sesso/genere, la “applica” – metodologicamente, e in vari altri modi.[51]

Intanto vorrei sottolineare la straordinaria libertà che Margaret Mead ha saputo agire in prima persona proprio occupandosi di donne e bambini, soggetti di solito poco interessanti per la cultura accademica del tempo, riuscendo a proporli non solo alla cerchia ristretta degli studiosi, ma all’opinione pubblica, sottraendosi al timore che occuparsi di donne significasse trattare un oggetto “minore”, per rilanciare invece la questione dell’elaborazione sociale della sessuazione della specie, e quindi della crescita degli individui di entrambi i sessi, come centrale per qualsiasi riflessione sull’essere umano, la sua vita, la sua sopravvivenza futura.

 Ancora oggi, che grazie alla spinta del neofemminismo sono sorti un po’ ovunque gli women’s studies, il rischio nell’occuparsi di donne e genere continua ad essere quello di una ghettizzazione e limitazione della carriera. Contemporaneamente l’ambiguo silenzio di nuovo steso su queste tematiche, come se la parità sociale raggiunta da piccole quote di donne nell’occidente ricco avesse di per sé risolto la complessità dei problemi, già ben documentati negli anni trenta del Novecento proprio da Mead, rischia di oscurare possibilità sia politiche che culturali di trovare strade per uscire dall’impasse dei molti problemi umani che ci stanno di fronte.

Perfino la parola parabola, utilizzata per definire la sua vita nel sottotitolo dell’autobiografia, richiama quel senso del limite che disegna la crescita e decrescita della vita, nella quale quando il tempo si espande inizia contemporaneamente la frammentazione della perdita che ci ricorda come si sopravviva solo nel succedersi delle generazioni, legittime destinatarie quindi della nostra eredità.

E molte delle riflessioni sul temperamento per giustificare l’ineguaglianza (non la differenza) dei sessi potrebbero essere trasferite, ad esempio sul termine merito (oggi tornato in auge) utilizzato da sempre per giustificare l’ineguaglianza sociale e tutte le procedure escogitate per renderla legalmente ineccepibile.

Pur essendomi limitata ad un breve viaggio esplorativo la rilettura di questo testo mi ha aiutata a mettere a fuoco molte domande che mi saranno utili per la definizione della mia ricerca.

Siamo in un momento di reiterazione degli stereotipi di genere nei media e di oscuramento delle biografie reali di donne e uomini che sperimentano strade nuove,  così come del dibattito su sesso e genere.

Il mondo globalizzato sembra arricchire la comunicazione e contemporaneamente mortificare, semplificare, distruggere le differenze: accanto alla tecnologia sempre più sofisticata che consente di contrarre il tempo e lo spazio a vantaggio dell’offerta informativa a livello planetario, gli individui del mondo cosiddetto sviluppato sembrano ridurre le proprie differenze a semplici tratti di personalità stereotipate, nella richiesta del soddisfacimento di bisogni completamente dipendenti dalle merci e dal mercato come se questa fosse la strada maestra della sopravvivenza anche se per molti versi incompatibile con la vita del pianeta.

Tra le tante domande possibili mi chiedo:

Come ha influito sulle generazioni femminili l’accesso a una scuola dove prevalentemente donne trasmettono una cultura prevalentemente maschile non solo nei contenuti, elaborati insieme all’esclusione delle donne attraverso più o meno espliciti giudizi di inferiorità, ma nelle stesse forme istituzionali, profondamente segnate dallo stile dell’organizzazione monosessuata dei collegi militari e del modello della ratio studiorum dei Gesuiti?

Che cosa cambia nelle nostre vite introducendo pensieri diversi, parole nuove con cui possiamo raccontarci, pratiche organizzative e relazionali modellate sui nuovi saperi della complessità?

Cosa sta accadendo al mondo delle donne? Mi chiedo se il silenzio di fronte al fragore “lustrinato” della riproposizione degli stereotipi identitari così come di vecchi miti familistici, non sia una strategia di sopravvivenza per attraversare tempi difficili salvaguardando la sopravvivenza, propria e dei figli.

E cosa sta accadendo al mondo degli uomini? Quale sentimento di sé resta così muto alle parole da trovare espressione solo nella violenza? Quale idea del mondo spinge a sostenere questa economia con la riproposizione della guerra?

Penso che lo studio delle relazioni tra esseri umani, e quindi tra uomini e donne, possa essere una strada feconda per approssimare qualche risposta.

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BIBLIOGRAFIA

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Patrizia Violi, L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Essedue Edizioni, Verona, 1986
INDICE

Introduzione p. 3

Una ragazza di “temperamento” p. 6
La ricerca in Nuova Guinea: Arapesh, Mundugumor, Ciambuli p. 13
Individui aberranti p. 22
Una conclusione “introduttiva” p. 27
Concludere per cominciare p. 32
Bibliografia p. 37
[1]Cfr.: Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Commissione Pari Opportunità presso Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma

[2]Margaret Mead, L’inverno delle more. La parabola della mia vita., Arnoldo Mondatori Editore, Milano, gennaio 1977 (Copyright 1972, Tit. Or. Blackberry Winter ) p. 345-6

[3]Margaret Mead, Sesso e Temperamento, Il Saggiatore, Milano 1967 ( Tit.or. Sex and Temperament, William Morrow & C., New York 1935, 1950, 1963)

[4]Cfr.: Franca Pieroni Bortolotti, Le Donne, la Pace, l’Europa,

[5]Cfr.: Piero Meldini, Sposa e madre esemplare, Guaraldi, Firenze, 1975

[6]Cfr.: Claudia Koonz,, Donne del Terzo Reich, Giunti, Firenze, 1996 (Tit. Or.: Mothers in the fatherland. Women, the Family and Nazi Politics, St Martin’s Press, New York, 1986

[7]Mary Catherine Bateson, Parole per un nuovo secolo, in Margaret Mead, L’adolescenza in Samoa, Giunti, Prato, 2007 (Tit. or. Coming of age in Samoa. Copiright 1928, 1955, 1961. Words for a New Century copyright 2001)

[8]Margaret Mead, Lettere dal campo 1925-1975, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1979 (Tit. Or. Letters from the field, 1977)

[9]M. Mead, Lettere dal campo, Op. cit. p. 27

[10]M. Mead, L’inverno delle more., Op. cit. : p. 147

[11]M. Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 149

[12]M. Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 150-1

[13]Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 287

[14]Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 131

[15]Margaret Mead, L’adolescenza in Samoa, Op. cit. p.193

[16]Margaret Mead, L’adolescenza in Samoa, Op. cit. p.203

[17]M. Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 129

[18]Mary Catherine Bateson, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano 1992 (Ed. Or.: Composing a life, The Atlantic Monthly Press, New York 1989)

[19]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 22-24

[20]M. Mead,  Lettere dal campo, Op. cit. p. 114

[21]M. Mead,  Lettere dal campo, Op. cit. p. 114

[22]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 254

[23]M. Mead,  Lettere dal campo, Op. cit. p. 121

[24]M. Mead,  Lettere dal campo, Op. cit. p. 122

[25]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 185

[26]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 187

[27]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 255-6

[28]Per le critiche a M. Mead cfr.: Mila Busoni, Il genere e Margaret Mead. Una metaetnografia in Genere, Sesso, Cultura, Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma, 2000

[29]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 281

[30]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 297

[31]M. Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 254

[32]M. Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 258

[33]Mary Catherine Bateson, Con occhi di figlia. Ritratto di Margaret Mead e Gregory Bateson, Feltrinelli, Milano 1985 (Ed. Or.: With a daughter’s eye, New York, William Morrow and Company, 1984) p. 136-7

[34]M. C. Bateson, Con occhi di figlia, Op. cit.: p. 137

[35]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 305

[36]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 177-8

[37]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 242

[38]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 291

[39]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 316

[40]Cfr.: Clifford Geertz, Opere e Vite, Il Mulino, 1990

[41]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 318

[42]M. Mead, L’inverno delle more, Op. cit. p. 261

[43]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 323

[44]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 329

[45]M. Mead, Sesso e Temperamento, Op. cit.: p. 330

[46]Margaret Mead, Maschio e Femmina, Il Saggiatore, Milano, 1962 (Tit. Or.: Male and Female, William Morrow & C., New York 1949

[47]Joan Scott, Il “genere”: un’utile categorie di analisi storica in Paola Di Cori (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia, Clueb, Bologna, 1996, p. 345-6

[48]Margaret Mead, Maschio e Femmina, Op. cit.: p. 14

[49]Cfr.: Lynn Margulis, Dorion Sagan, La danza misteriosa. Perché siamo animali sessuali, Arnoldo Mondatori editore, Milano, 1992 (Copyright 1991)

[50]Margaret Mead, Maschio e Femmina, Op. cit.: p. 27

[51]Mila Busoni, Il genere e Margaret Mead. Una metaetnografia Op. cit. p. 96