Quando la luce ti abbaglia per vedere davvero devi guardare nella penombra.
Questa è la frase emersa nella mia vita in questi giorni, mentre si conclude il 2020 e come ogni anno la luce si fa più breve nella giornata, qui dove abito, mentre noi ci prepariamo a festeggiarla con riti antichi e nuovi.
Siamo abituati da anni alle luci abbaglianti nei luoghi del consumo, luci che ci guidano al consumo disegnando i tracciati di ogni vita in un’apparente uguaglianza tra chi ha potere sulla merce, chi possiede la merce, chi è servizio alla merce, chi è sfruttato dalla merce, chi aspira alla merce.
L’irruzione del Covid 19 ha inceppato gli ingranaggi ma noi siamo ancora accecate e accecati dalla luce che abbaglia.
La frase è una rielaborazione personale, una sorta di aforisma che prendo dal ricordo di un racconto ascoltato dalla voce di Anna Piatti, che ricordava a sua volta le parole pronunciate in un’assemblea da una donna africana di cui non so il nome.
Di donna in donna i racconti sono i piccoli fragili anelli di una catena che ci lega, nel riconoscimento delle storie da cui veniamo e nella responsabilità delle storie che vogliamo trasmettere.
I ricordi sembrano passare davvero da cuore a cuore come dice la parola, emergono e risuonano nella nostra vita senza motivo, senza necessità, senza apparente utilità, ci accompagnano per un tratto adattandosi al ritmo del nostro cuore.
La luce è metafora di una realtà che viviamo, fonte della vita che tentiamo di comprendere con le parole, della filosofia come della scienza, della letteratura come della quotidianità, perché la vita per la specie umana è incessante linguaggio: sonorità e traccia materiale, immagine riprodotta e plasmata con mille tecniche, combinazione di simboli astratti per costruire significati e legami, forzatura di ogni schema mentale per uscire dai confini del piccolo tempo assegnato, cercando il passato che ci soccorre e immaginando il futuro in cui proiettare sogni.
Anna Piatti è stata volontaria laica in Africa, esattamente nella Repubblica Centroafricana, dove è rimasta per trent’anni e poi in contatto fino alla fine della sua vita.
Era partita per l’Africa nel 1966 come animatrice sociale: sarebbe stata poi definita da molti “agitatrice sociale”, come diceva con un lampo furbetto nello smalto azzurro degli occhi; sapeva scrivere ma non era una scrittrice, era invece una straordinaria narratrice, ironica, efficace, accattivante, attraeva l’uditorio con la stessa magistrale intelligenza con cui aveva saputo svolgere il suo lavoro, sostenendo soprattutto le donne nei villaggi senza creare conflitti e usando la sagacia come tranello per i potenti, gli arroganti, i dominanti, gli sfruttatori attivando la sua curiosità, capace di imparare da ogni incontro.
Anna Piatti e Lidia Menapace intrattenevano con i loro racconti la variegata compagnia che ho messo insieme per una decina d’anni la Vigilia di Natale, in un rito laico di convivialità famigliare e non familista, dentro una religiosità della tavola apparecchiata per condividere la profusione di ogni cibo dono risata racconto. Per condividere un frammento di tempo.
Anna se n’è andata l’anno scorso, Lidia pochi giorni fa.
Anna proveniva da una famiglia contadina, aveva fatto la quinta elementare, sperimentato il lavoro della terra e poi della fabbrica prima del percorso che l’avrebbe portata in Africa; Lidia era figlia di una piccola borghesia colta e benestante, era una brillante intellettuale, scriveva con estrema facilità, possedeva una raffinata cultura letteraria ed è stata soprattutto un’instancabile narratrice politica, nel senso più ampio del termine, capace di leggere con giudizi fulminanti le dinamiche dei palazzi e di restituire a chi l’ascoltava la dimensione storica del proprio vivere, le parole per riconoscersi nell’incessante movimento della socialità.
Entrambe sapevano narrare non solo per un talento innato ma perché capaci di ricordare e rielaborare anche la lunghissima tradizione orale presente nelle famiglie, e poi nei tanti luoghi sociali, di quel Novecento che ci siamo ormai lasciati alle spalle da tempo.
Narravano con piacere, senza essere enfatiche o melense o sdolcinate, sempre ironiche e senza finalità manipolatorie, con la consapevolezza educativa che sollecita il pensiero di chi ascolta e restituisce la responsabilità del fare, pensando che è il fondamento della società civile, dell’essere insieme cercando quello che astrattamente definiamo bene comune.
Mi piace ricordarle insieme mentre aspettiamo il passaggio rituale dell’anno, che sarà per molte persone elaborazione del lutto e quindi festa del ricordo nel suo essere bagaglio di vita e insegnamento che illumina un pezzetto di strada, anche se non sappiamo ancora quale.
Siamo in lutto, anche se negli auguri prevale la speranza che ci venga restituita la nostra vita.
Non torneranno le persone che se ne sono andate e noi non siamo le stesse persone di prima.
Il Covid19 ci ha messe e messi alla prova, esasperando le differenze tra scelte, sentimenti, relazioni, nel bene e nel male, come si dice. Forse ci ha tolto maschere, ipocrisie, facili menzogne e ci misuriamo con ciò che siamo, ciò che vogliamo.
Il virus che ha cambiato in parte le nostre vite è anche un sistema comunicativo, ogni virus lo è ma noi abbiamo ignorato quelli che si diffondevano in paesi lontani, tra persone che abbiamo emarginate racchiudendole in categorie variamente identitarie, li abbiamo evocati per costruire muri di diffidenza e arroganza e poi è arrivato questo Covid19 che si è spalmato sull’intero pianeta, come una cartina al tornasole che ha evidenziato, in ogni nicchia narrativa autoreferenziale, la nostra comune esistenza umana, assoggettata all’ambiente che riproduciamo materialmente e culturalmente, esposta alla malattia, vivente come processo di degenerazione e rigenerazione in equilibrio variabile e asimmetrico fino alla vecchiaia e alla morte.
Abbiamo scoperto il Noi umane e umani, proprio noi che enunciamo questo pronome con mille distinguo e confini e attributi e definizioni e certificazioni e medaglie e appartenenze e distanze.
Balbettiamo vecchie parole con significati nuovi e imprecisi, da qualche millennio avevamo sempre più perfezionate invenzioni per uccidere in modo regolare e discriminato, prontamente incanalato nelle notizie favorevoli e contrarie, sapevamo di essere uomini e donne pericolosi e feroci per discrimine dentro la nostra stessa specie, per non parlare delle altre, specie animali asservite a bisogni inventati, inventate nel loro esistere senza sentimenti, manipolate per i nostri deliri insieme alla terra stessa vista come sostrato inerte, soggiogato dalla potenza tecnologica.
Sapevamo anche di poter essere donne e uomini soccorrevoli, compassionevoli, aperte/i alla speranza, consapevoli degli accadimenti peggiori e creativamente sempre in azione per contrastarli, nonostante tutto.
Ora il Covid 19 ha inserito dentro il nostro personale e familiare Noi il rischio, il pericolo, il contagio, è stata messa in ombra la vita vincente competitiva suprematista e nell’ombra abbiamo visto meglio la connessione continua e imprescindibile, mentre la distanza fisica è cambiamento di comportamenti, gestualità, disegna una prossemica più faticosa ma ci spinge a potenziare i legami, conferma la convenienza della cooperazione, come quella di scienziate e scienziati che lavorano trovando le forme adeguate per ignorare ogni confine.
Le contraddizioni non sono scomparse ma sono più visibili e la ricchezza non si esibisce, non può reclamare potere, esaltare furbizie e corruzioni ma cerca di camuffarsi e questa è già una novità.
Chi esaltava la competizione senza regole, il dominio del mercato puro (il proprio ovviamente), l’accesso ai servizi per censo, la privatizzazione di ogni bene e la trasformazione dei diritti in privilegi, ora ha bisogno della sanità pubblica, dei trasporti pubblici, della scuola pubblica, dello Stato come garante e perfino ristoratore di un’economia dei consumi drogata per anni da egoismi identitari che ora non regge più.
Adesso speriamo nel contagio solidale, nella giustizia diffusa, nella salvezza come diritto; allo Stato, che volevano difensore dei ricchi e forti, garante del privato in tutte le sue forme di accumulazione del profitto e conquista del territorio, si chiede di essere quel patto fra donne e uomini che nella libertà e giustizia lavorano per il bene comune, si sostengono nelle difficoltà, diffondono bellezza e gioia, garantiscono una buona vita e una buona morte.
La cooperazione e la giustizia ridiventano convenienti. L’altra strada è l’autodistruzione.
La luce che abbagliava si è spenta, stiamo attraversando il buio e il rischio è quello di brancolare con gesti scomposti urtando e calpestando per paura imperizia goffaggine arroganza superficialità abitudine.
Possiamo fare male a qualcuna o qualcuno senza volerlo, senza capirlo, senza pensarlo.
Possiamo farci male senza volerlo, senza capirlo, senza pensarlo, solo per continuare la corsa che abbiamo imparato, solo per credere in una strada che non c’è più, non è davanti a noi ma forse di lato, forse altrove e forse non è ancora una strada.
Al buio sperimentiamo la solitudine dei sensi e del pensiero, impariamo ad ascoltare il respiro, per muoverci dobbiamo reimparare dalle mani, dai piedi, dalla pelle, dobbiamo percepire, immaginare, annusare, ascoltare.
Nuovi alfabeti s’intrecciano ai vecchi, siamo intrecciate/i per un tratto, ne sentiamo la stretta come costrizione e temiamo di perderci se si allenta.
Questo virus ci costringe a confrontarci con la nostra età reale, con le condizioni diverse e spesso gravemente ingiuste di persone dal cui lavoro dipendiamo, con ciò che davvero conta nelle nostre vite, con la verità dei nostri desideri e affetti.
Appare molto ammaccato il giovanilismo imperante che cancella la realtà transitoria della giovinezza, diventa insopportabile l’infantilismo comunicativo che ignora l’infanzia, l’occultamento della vecchiaia ora diventa visibilità dell’emarginazione e precarietà di una condizione che favorisce l’aggressione del virus, che forse non è peggiore di altre aggressioni più subdole per le quali non c’è rimedio scientifico ma solo scelta di volontà umana.
Non ci sono condizioni assolute e i vissuti sono variazioni, e continuamente variabili.
Abbagliate/i dall’individualismo omologante facciamo fatica a vedere le tante differenze dentro la continuità umana. Il racconto dell’umano maschile escludente e dominante è sfibrato e sfibrante, non regge più.
La parola prossimità richiede approfondimenti e sperimentazioni.
Per me che vivo in una casa sicura, ho un reddito certo e onesto, un’età senza doveri e obbligo di progetti, una storia in cui ho sperimentato dolore e lutti, insieme alla gioia, questo è un tempo buono: nel mio angolo, in una pianura che abbiamo ferito ma non uccisa, posso ascoltare il silenzio, che è la voce sommessa del mondo.
Anche a distanza il regalo più grande che possiamo ricevere è l’ascolto, il regalo più grande che possiamo dare è chiedere ascolto.
Chiedere significa anche riconoscere l’altra persona nella sua capacità di dare, riconoscerla nella realtà di ciò che ci può dare.
Il dono è chiedermi di essere ciò che sono perché solo così scopro e rinnovo la scoperta di ciò che sono. E non sono mai la stessa, non posso essere mai identica alla me stessa conosciuta.
Mi rende felice chi mi chiede di raccontare una storia, chi legge le mie storie.
Accettare il disgusto per le mie imperfezioni, l’impotenza del mio agire, l’insipienza delle parole che accolgono i pensieri come un colabrodo, il male che avrò certamente fatto, e peggio se involontariamente, il limite delle mie visioni, la riduzione delle energie e i cedimenti del corpo mi rende però più sicura dei miei sentimenti, di ciò che sento.
Ci sono nella giornata scintille che accendo come le luci sull’albero di Natale e sono queste che voglio condividere con le donne e gli uomini che ho incontrato sulla mia strada.
Ho allestito l’albero di Natale per festeggiare la luce che arriva anche se la casa è vuota, lo dedico alle persone care che se ne sono andate e a chi sarà assente per costrizione sanitaria.
Scegliamo di restare lontani perché ci proteggiamo a vicenda, quindi siamo vicini e stiamo scoprendo quanto.
Chi vuole mantenere un contatto, alimentare un affetto, testimoniare una vicinanza, esprimere una gratitudine, trova sempre il modo di superare gli ostacoli.
Nel buio noi respiriamo insieme, ancora, ed è straordinario perché la chiamiamo vita.
La vita che ci chiama.
Auguri
Ricordo alcuni libri:
Anna Piatti, La moglie del sole, Editrice Missionaria Italiana, 2010
Lidia Menapace, Canta il merlo sul frumento, Manni, 2015
E anche il mio: Come sono diventata femminista, Manni, 2020