Non si tratta solo di linguaggio

Salgono sull’autobus spintonandosi, si interpellano usando insulti che mi fanno rabbrividire, e ridono; alla fermata uno ha scatarrato e sputato per terra, come facevano alcuni uomini nella mia infanzia (severamente ripresi e stigmatizzati dalle donne come sporcaccioni), alla fermata successiva i due maschi cercano di impedire la salita a una signora anziana, mentre le ragazze li incitano “dai lascia giù la vecchia”, e ridono. La signora riesce a salire e resta contro la porta chiusa, schiacciata dal muro delle loro schiene; li invito a spostarsi nel miglior modo possibile, come se non si trattasse di un’azione consapevolmente agita, fanno finta di non sentire, cerco i loro occhi e sorrido, abbassano i loro. Non provo rabbia, solo preoccupazione, un sentimento che li imbarazza; lasciano un po’ d’aria alla signora e riprendono con gli insulti reciproci come per tenersi in contatto e continuare a far muro contro il resto del mondo; una ragazza tace, mi guarda di sottecchi, ma non osa sottrarsi e fa una mezza risata, che le riesce malissimo.
Non si tratta solo di linguaggio in senso stretto, ma più in generale di comunicazione.
Il turpiloquio e l’insulto sono diventati, nella lingua parlata adolescente (e non solo) una funzione di contatto, una sorta di eloquio criptato i cui significati non sono governati dai soggetti stessi che li usano.
Maschi e femmine, senza distinzione, cresciuti insieme nell’uguaglianza neutra (e quindi maschilista) della scuola e nelle attribuzioni stereotipate di genere propugnate dai media, si parlano con epiteti che solo pochi anni fa circolavano solo nei litigi più feroci.
Un linguaggio paritariamente sessista e omofobo, spesso razzista, praticato da maschi e femmine collocati a vari gradi di stratificazione di potere nel gruppo dei pari. Chi non possiede questo linguaggio, per educazione, o perché ne è vittima, spesso resta in silenzio o partecipa con sorrisini imbarazzati e posture goffe, a segnalare una sconfitta personale che è solo il sintomo di accadimenti sociali di cui non hanno (almeno non ancora) responsabilità.
Per vent’anni le trasmissioni pomeridiane della TV hanno modellato la socialità di donne e uomini a basso tasso di consapevolezza di sé e di adolescenti incapaci di sopportare quel tanto di noia che consente di guardarsi intorno e trovare ciò che davvero interessa.
Quando mi capita di ascoltare gruppi di adolescenti all’uscita da scuola per un attimo penso di assistere a conflitti feroci. Il linguaggio infatti modella la postura e i gesti. I corpi sembrano armati, chiusi dentro un abbigliamento con poche sfumature cromatiche, aderente al corpo o insensatamente abbondante, gli zainetti come protuberanze che reclamano di stare al mondo occupando e travolgendo spazi altrui.
Tutto in loro esprime un rabbioso conflitto, ma non si sa con chi o che cosa, se non gli esseri che occasionalmente attraversano il loro spazio vitale.
Vitale è perfino una parola inadatta, perché trattano il mondo e le altre persone come oggetti, merci di scarto per il loro immaginario interamente colonizzato dal mercato.
Solo fino agli anni ‘60 in Italia si parlava prevalentemente il dialetto, il linguaggio delle classi popolari era colorito, ma anche intriso di tutti gli elementi del rapporto tra i generi fondato sulla subalternità delle donne e quella violenza che oggi finalmente cominciamo a denunciare. Le donne tacevano, assumevano atteggiamenti di implicita disapprovazione, rimbrottavano a mezza voce trattenendo la rabbia, rimproveravano apertamente o stavano al gioco ridendo dei doppi sensi e degli apprezzamenti pesanti. Attraverso il linguaggio scurrile passavano il riconoscimento del sistema di potere e le pratiche di contrattazione-condiscendenza-seduzione-adattamento a cui le donne si assoggettavano.
L’intonazione era parte integrante del messaggio, che diventava davvero comprensibile, nell’intenzione comunicativa, solo nel contesto e tra chi ne era partecipe, che sapeva benissimo di che cosa si stava parlando.
L’uso del turpiloquio e dell’insulto negli scambi comunicativi correnti tra giovani sembra invece avere una pura funzione di contatto, segnalando l’acritica adesione a un sistema di significanti di cui non padroneggiano in nessun modo il significato ma, al contrario, da cui vengono padroneggiati.
Come se ci fosse la messa in scena di un conflitto di cui non si conosce l’oggetto, che quindi può essere catturato, in modo del tutto occasionale, dalle circostanze e dalle persone che transitano dentro questo limitato orizzonte.
La comunicazione passa per l’80% circa dal non verbale, ci hanno insegnato, perciò tra il linguaggio parlato, la mimica facciale, la postura, i gesti, la prossemica disegnata dal corpo dentro l’ambiente, vi è un continuo processo che definirei di osmosi, che informa e definisce la nostra reazione percettiva agli oggetti e alle persone.
Il linguaggio è diventato insignificante rozzo e violento anche perché quello imparato a scuola, l’elenco infinito di nozioni e ragionamenti preconfezionati, gira a vuoto senza far presa sul mondo, che diventa quindi incomprensibile, letteralmente: non si può prendere, né accarezzare del resto, o ascoltare, intuire, utilizzare, odorare, aspettare, pensare…
L’incapacità di com-prendere il mondo diventa l’interdizione ad abitarlo, percepirlo, manutenerlo, amarlo, sentirlo dentro quella contiguità dei sensi che imparano a ricreare le condizioni di accoglienza per il corpo-pensiero che lo abita.
Cresciuti in una scuola che espelle la dimensione affettiva e sensitiva del vivere ed è diventata il terminale del mercato, nella distribuzione del sapere come nei modelli relazionali, costringendo i corpi in forme gerarchiche e uniformi dell’abitare, esprimono in forma abbrutita la bruttezza in cui vivono.
Possiamo esprimere i sentimenti con la musica o la pittura, coprire il mondo con i deliri architettonici dell’immaginazione, descrivere la conoscenza con i simboli matematici, ma la parola, e le convenzioni linguistiche che ne hanno sedimentato l’uso, sono indispensabili alle relazioni umane.
Deprivare le parole del loro significato, farne delle armi pericolose e pericolosamente camuffate, è un modo per costruire una moderna Babele, non più fondata sulle differenze linguistiche ma sull’insignificanza delle lingue ai fini della comunicazione.
La deprivazione linguistica oggi non è la mancanza di vocaboli, la differenza quantitativa che costruiva la subalternità degli operai nei confronti dei padroni, di cui parlava Don Milani, ma la mancanza di un vocabolario adeguato ad esprimere la propria posizione nel mondo.
Gli/le adolescenti passano senza soluzione di continuità dal turpiloquio alle confidenze più intime utilizzando sempre i modelli dei talk show e sono incapaci di definire la propria condizione sociale, avere coscienza dell’origine del denaro e dei servizi di cui fanno uso, delle scelte politiche che passo dopo passo hanno deciso il presente, con tutte le storture che passivamente subiscono.
Non hanno le parole per dirsi perché non ne conoscono l’uso: tutta una parte di cultura e di storia viene costantemente censurata deformata e interdetta all’uso, come in un nuovo medioevo che impone la sua “scolastica” distruggendo e sacralizzando.
 
L’abitudine a un linguaggio violento, disaffettivo, che impedisce la libertà espressiva costruendo distanze e solitudini, rende poi ragazze e ragazzi facili prede della gentilezza manipolatoria, del sorriso accattivante, del giovanilismo complice di adulti, donne e uomini, la cui etica si modella sul mercato. 
Se il contatto con gli altri esseri umani ci insegna chi siamo, l’interdizione alla vicinanza generata dal turpiloquio rende tutti più fragili, più esposti, più incapaci di distinguere, di operare scelte, di vivere con speranza e quindi più disposti a mettersi corazze, a confondere l’effetto con la causa, a usare la rabbia per coprire dolore e disagio, a violare e distruggere un mondo che non si sa di poter cambiare.
 
I loro genitori sono quelli che parlano di rendimento scolastico invece che di apprendimento, che rivendicano il merito invece del diritto, che investono su figli e figlie, che pensano al corpo e alla mente (ancora separati) come a capitali in quotazione e alla bellezza come un canone a cui sottostare, prescritto da palestra e botulino, che hanno cancellato la parola invecchiare e rincorrono, rincorrono sempre, non si sa che.
La prima trasformazione violenta delle parole l’hanno sperimentata nell’infanzia, parole in giacca e cravatta, tailleur e tacchi, che hanno introdotto la violenza con il sorriso, come nel migliore dei mondi possibili.
 
Sono figli e figlie della generazione che è cresciuta avvelenata dalla sbornia del tutto e subito, dal disprezzo per il lavoro manuale, rincorrendo il mito dell’immagine e del successo, ragazzi che hanno ripescato in tutte le scorie del passato patriarcale alla ricerca di un look più che di un’identità, ragazze che si sono affrettate a disprezzare il femminismo, di cui stavano beneficiando, mangiando la mela avvelenata di un’emancipazione imitativa che non è durata il tempo di una fiaba, per ritorcersi contro le loro vite senza più diritti e in balia del mercato in cui hanno creduto. Ora sono piombati dentro una crisi di cui non sanno capire la natura e fare i genitori, e le genitrici, è compito arduo se si teme il futuro.
Ovviamente non tutte e tutti rientrano in questa descrizione, non sono così ingenua da spalmare la generalizzazione sulla complessità e singolarità che radica donne e uomini nelle tante variabili storiche dei territori abitati anche in Italia, ma queste sono le immagini che hanno vinto e ammutoliscono tutto il resto, che c’è, ma non riesce a farsi strada e rischia di non avere futuro.
 
Nel 1975 Pasolini scriveva, in Lettere luterane, un libro per molti versi profetico, rivolgendosi a un immaginario ragazzo napoletano, che i figli avrebbero pagato le colpe dei padri, come proclamava il coro nel mito greco.
Concludeva l’introduzione, che merita una lettura attenta e articolata, affermando che la colpa dei padri era quella di “credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese”. Una storia dichiaratamente maschile, chiariva, includendo se stesso tra i padri colpevoli.
 
Le madri allora si erano appena affacciate alla storia, ma oggi anche noi donne possiamo interrogarci e forse con più libertà, visto che la nostra cittadinanza è sempre a rischio, sapendo però che l’ignavia non è meno colpevole e la complicità opportunista non è una strada.
Continuiamo a poter essere l’imprevisto della storia se prendiamo il coraggio di guardare al futuro: potremmo ritrovarci vicine le figlie e i figli che cercano un’altra storia, donne e uomini che già si misurano fiduciosamente con la propria vita.
La possibilità è anche nella costruzione di innovative discontinuità, ricordando che genitori e scuola non possiamo sceglierli, ma possiamo farlo per maestre e maestri, e con piena responsabilità.

in Marea 3/2013