Le donne con le donne possono davvero?

Non so se sono pacifista e nonviolenta, so per certo che sono le mie principali “culture di riferimento” insieme a quella femminista, nella mia vita la più radicata, e quella del movimento operaio, che ha segnato la mia crescita politica.
Per culture di riferimento non intendo un decalogo di imperativi o buone azioni, ma la lettura e progressiva crescita mia intorno alle opere che testimoniano le idee e la vita di alcune/molte alcuni/meno autrici e autori, non necessariamente quelle e quelli consacrati dal canone.
Non posso dire di me e delle mie pratiche perché penso che non bastino le dichiarazioni a illuminare le vite e la scrittura è insieme una straordinaria forma di sintesi e quindi di traduzione, un solido ponte per la comunicazione, ma anche un continuo rischio di tradimento, delle intenzioni come della realtà.
Anch’io comunque mi accingo a scrivere perché mi fa piacere poter scambiare pensieri oltre i confini ristretti che sono in grado di percorrere i miei piedi.

Mi piacerebbe venire a Bologna (come a Roma o in altri luoghi) anche solo per incontrare persone con cui scambiare liberamente idee, ma non verrò per alcuni motivi che non riguardano direttamente la proposta.
 
Il primo e più importante motivo è il fatto che alla fine del 2003 ho giurato a me stessa che non sarei mai più andata in giro a mie spese per partecipare ad incontri politici.
Detto così so che è brutale, richiede una spiegazione che, mi dispiace, non può essere breve.
 
Non è sempre facile mettere d’accordo piedi e pensieri e nella sua straordinaria creatività la vita si diverte talvolta/spesso a mettere in gioco risorse curiosamente divergenti, che determinano conflitti interiori difficili da mediare.
Ho cominciato ad essere afflitta dalla passione politica fin da bambina ed ho quindi costretto sempre i miei piedi a seguire i pensieri.
La contraddizione mi è stata presentata due volte e al di là del modo un po’ brutale (ma quando la vita non lo è?) sempre utile.
La prima volta alla fine degli anni ’70, quando la passione politica mi aveva portata a lasciare l’università per lavorare ad un sogno di cambiamento che, avendo scelto il femminismo e le donne, richiedeva un surplus di energie e risorse a motivo del deficit di riconoscimento che otteneva.
Ad un certo punto la bilancia tra le lodi alla mia “bravura” e la diffidenza per la mia schiettezza (di cui ero poco consapevole) non fu più in equilibrio e sopra la diffidenza per i contenuti arrivò il peso di un giudizio sulla forma: probabilmente mi dedicavo alla politica perché non ero in grado di laurearmi e di trovare un lavoro vero.
Si trattava di insinuazioni prevalentemente maschili, ma la contiguità dei luoghi politici riusciva ad arruolare anche un’area femminile più sprovveduta e forse anche più ricattabile.
Cominciava a prendere piede l’idea, giusta in sé, che bisognava prendere i politici direttamente dalla società civile e, meno giusta, dalle professioni di successo, medici avvocati architetti e simili.
Anche tra le donne, davano certamente un’idea di maggiore serietà quelle che avevano utilizzato appieno la vittoria dell’emancipazione per reclamare l’eredità di famiglia o di classe sociale e misurarsi alla pari con gli uomini.
Fu un boccone amaro da ingoiare, soprattutto perché le connotazioni personali mi impedivano di farne una traduzione politica, ma mi fu utile: in cinque anni, 1980-85, ho cominciato ad insegnare e intanto mi sono laureata, ho vinto tre concorsi, messo al mondo due bambini, fatto tre traslochi senza abbandonare il mio ruolo dentro l’Udi, né a livello locale né a quello nazionale, che in quel momento viveva il passaggio storico dell’XI Congresso.
Per i concorsi sono stata fortunata perché ci sono stati, e non prevedevo quello che sarebbe accaduto dopo nella scuola e per la scuola.
 
Ovviamente il modo, insieme ipocrita e brutale, ha lasciato i suoi segni perché a lungo mi sono sentita un’incapace e resto una persona attraversata sempre da dubbi sulle proprie competenze, ma oggi, che ho quasi il doppio dei suoi anni, guardo con ammirazione a quella ragazza che sono stata e grazie a lei ho qualche indulgenza in più per la donna che sono oggi.
 
Dieci anni fa ho raccontato questa storia, in forma poetica, in un libro di nessun successo, di cui però le due edizioni, esaurite nell’anno stesso di pubblicazione, ancora circolano di mano in mano con mia sorpresa e piacere.
 
Vengo alla seconda volta. Nel fermento politico di quegli anni all’Udi, tra le tante parole dette, mi aveva colpito la frase di una compagna “Se le donne vogliono sostenere l’associazione e venire a Roma basta che rinuncino a un maglioncino e riescono. L’autonomia è una scelta”.
Giusto mi sono detta e l’ho fatto, anche se non ero così sprovveduta da non capire che chi aveva parlato di rinunciare ai maglioncini ne aveva una scorta, e anche se nel mio caso le rinunce erano a ben altro che un maglioncino.
Non ho rimpianti, ho creduto alla possibilità di partire dai luoghi delle donne per sperimentare quella metà di pensiero e pratica che manca all’attuale democrazia.
Purtroppo, in questo Paese, le condizioni economiche dei lavoratori a stipendio fisso (come siamo io e il mio compagno) non sono migliorate negli anni e non è bastato nemmeno il fatto che insieme alla politica io abbia mantenuto come secondo lavoro (serale) la formazione, per arrotondare le entrate.
Quando si è trattato di occuparmi di un altro Congresso con responsabilità nazionali ho posto la questione del “rimborsospeseviaggio”, al momento accettata senza problemi.
L’entusiasmo, ancora dopo tanti anni, cancellava l’accumulo di fatiche, finché, a Congresso ormai quasi concluso, una compagna molto responsabile non mi ha detto chiaramente che l’Udi non era in grado di sostenere i costi della mia presenza
Il boccone è stato ancora più amaro da ingoiare, ma mi sono ritirata in buon ordine senza dire niente più dell’essenziale che, nella sua brevità, è stato facilmente rimosso.
Ho accettato che, senza la mia presenza, le forme politiche alle quali tenevo, perché mi sembravano l’elemento di vera discontinuità dell’associazione rispetto ad altri luoghi della politica, e non solo maschile, venissero accantonate senza rimpianti.
Posso parlarne ora perché sono grata a quella compagna e alla sua schiettezza, è vero che l’associazione non aveva nessun bisogno di me e altre potevano degnamente sostituirmi e l’hanno fatto anche meglio e a minor costo perché residenti a Roma, ma soprattutto, nonostante avessi dedicato a quel luogo esattamente metà della mia vita, dai 25 ai 50 anni, io in quel luogo ero ormai nella scomoda posizione di parvenu, non era più il mio posto.
Nella deriva gerarchica e sessista del nostro Paese, in cui la libertà delle donne è stata in ogni modo mortificata, un’associazione di donne, a cui è stato negato l’accesso alle risorse pubbliche, non può che applicare con rigore le regole della democrazia formale per sopravvivere. E l’applicazione della democrazia paritaria formale è il livello massimo che possono chiedere le donne in questo momento.
Ho capito di colpo perché ho apprezzato il fatto che l’Udi abbia liberato, dalla clandestinità dei nostri sogni e della nostra impotenza, la proposta del 50&50, ma non sono riuscita a scrivere niente a favore più di un ovvio consenso e sostegno.
Perché so che in quel 50&50 io non ci sono e non ci potrò mai essere finché i luoghi della democrazia formale non prenderanno seriamente in considerazione le questioni di quella democrazia sostanziale su cui l’Occidente implode, con danni spaventosi, ormai da più di due secoli.
Il 50&50 resta oggi per noi, nelle condizioni date, una meta imprescindibile, ma la democrazia non è solo questione di numeri e le donne non sono semplicemente la metà della popolazione, ma una storia altra che ha già cominciato da tempo la propria elaborazione politica a favore di tutte e tutti.
Non mi sono più pagata un viaggio per andare all’Udi e non lo farò per nessun’altra occasione politica, a meno che non senta di essere portatrice di qualche proposta o pratica straordinariamente utile, e non è il mio caso in questo momento, o che vi sia un aumento significativo degli stipendi e delle pensioni, anche questo caso molto se non assolutamente improbabile.
So che il denaro è il grande tabù e che non è elegante esporre le proprie condizioni come mi è stato detto in molte occasioni, tanto tabù che né il cinema né la letteratura riescono degnamente ad indagare al di sotto di quel tetto di cristallo che ammutolisce la maggioranza della popolazione e soprattutto le donne; non sono nemmeno una fautrice dell’esposizione delle budella o dell’autocoscienza a tutti i costi e ovunque, ma per quanto mi riguarda pratico la discrezione sui sentimenti e penso che le concrete condizioni di vita siano invece parte di quel privato politico che molte donne hanno cominciato coraggiosamente a scoperchiare tanti anni fa, resistendo ad ogni facile ironia sulla felice sintesi di questo slogan.
Ovviamente le questioni che pongo non si risolvono con qualcuno che mi regala il viaggio, perché sarebbe come accettare denaro in cambio di prestazioni che non sono meno fisiche solo perché non si configurano nel senso classico.
Quindi non metterò la mia ghinea per venire a Bologna.
 
Ho parlato di me perché la mia condizione ha qualche tratto singolare, ma per molti aspetti è del tutto analoga a quella di qualche migliaio di donne tra quelle incontrate negli anni della mia limitata esperienza, e certo anche molte più di quante si immagini.
 
Se anche decidessi di superare le due difficoltà citate, (sono comunque una donna disposta a ricredermi e cambiare, e la compagnia m’invoglia) c’è un secondo grande motivo di impedimento.
Non sono più in grado di discutere una giornata intera, tornare in treno la sera (con i rischi che conosciamo dato il disastro delle ferrovie) e la mattina dopo affrontare sei ore di lavoro a scuola, cinque in classe e una “buca” che occupo spesso a chiacchierare con colleghe/i, bidelle o alunne/i.
Anche su questo ho avuto negli anni molti buoni consigli e perfino esempi: “programma un compito, magari una verifica, così stai tranquilla”, oppure “io non mi fermo a scuola un minuto di più, faccio il mio dovere e basta, perfino troppo per lo stipendio che prendo”.
Sono buoni suggerimenti tutto sommato, e comunque all’interno della legalità, ma io non riesco proprio a metterli in pratica, in classe perché sento il dovere e spesso anche il piacere di confrontarmi con allieve e allievi dando il meglio di me, nei corridoi e in sala professori perché oggi più che mai, nella mortificazione delle intelligenze e delle coscienze favorita dalle molte stupidità organizzative, favorire il dialogo con tutti e tra tutti è l’unico modo per conservare alla scuola la dignità di scuola.
La scuola è cambiata in peggio da quando ho cominciato ad insegnare e per ora non c’è altro da fare che opporre una tenace creativa nonviolenta ironica e laboriosa resistenza a tutto ciò che scompostamente e malauguratamente ci piove addosso.
Su questo non mi dilungo perché non c’è mediazione che tenga.
 
Visto che ho preso la parola dico qualcosa anche sull’oggetto della convocazione: liste e candidature.
Dal mio punto di vista, mi sembra preferibile cercare di utilizzare questo tempo incerto per trovare modi utili al dialogo tra le varie forme politiche che definisco per brevità a sinistra del PD. Dialogo difficile, ma credo inevitabile se stiamo davvero nel qui ed ora della situazione.
Può darsi che il mio punto di vista sia inficiato dal mio orizzonte limitato e comunque non mi sento di fare affermazioni nette perché davvero non ho proposte generali su come favorire, oggi e nel prossimo parlamento, l’affermazione politica delle culture di cui sopra e avviare un cambiamento della sensibilità quotidiana dei singoli cittadine e cittadini.
Ho solo una serie di pratiche quotidiane minute relative a scuola, casalingato, relazioni umane tra età diverse e cose affine sulle quali sono in grado anche di produrre qualche riflessione “teorica”, ma niente di più.
 
Ho qualche idea più chiara invece sulle candidature delle donne.
 
Posta la necessità storica del 50&50 non si tratta certo di candidare solo sulla base del sesso anagrafico, magari operando abilmente e rozzamente in modo da escludere l’esperienza politica autonoma delle donne.
Sarebbe come se in Italia avessero escluso dalle candidature alla Costituente tutti coloro che avevano vissuto e guidato la Resistenza.  Di fatto c’è stata un’esclusione delle donne, presenti in piccolo numero, ma, senza assolvere nessuno, dato che i conti storici sono ancora da fare, possiamo dire che a ridosso della fine della guerra le donne non si erano ancora organizzate o, quelle che lo erano, non avevano ancora forza contrattuale, visto che gli stessi attori della resistenza faticavano a riconoscere appieno la dimensione del protagonismo femminile.
Su questo e altro l’elaborazione collettiva della memoria è ancora deficitaria.
Qualsiasi donna può essere candidata e considero stupido avanzare richieste di preparazione intelligenza o altro che non vengono avanzate per gli uomini, oltretutto con i risultati che tutti conosciamo.
Ma non è vero che qualsiasi donna va bene o una vale l’altra.
Trovo anche volgare che si scopra una donna come possibile candidata quando è “balzata” agli onori della cronaca perché le hanno ammazzato il marito, il fratello, il padre, il figlio.
Che poi queste donne siano brave, spesso bravissime, e mostrino un volto femminile nel quale finalmente possiamo tutte riconoscerci, proprio a partire dalla capacità di gestire l’emergenza tragica di cui si trovano di colpo protagoniste, non stupisce, dato che nella vita normale la più sprovveduta delle casalinghe è comunque capace di far fronte a problemi nuovi con competenza e buon senso sconosciuti alla maggior parte dei politici.
La questione però resta, perché queste donne, bravissime e che voterei a quattro mani, sono lì perché sollecitano il consenso attraverso l’appello, ovviamente mai esplicitamente dichiarato, a sentimenti arcaici, per i quali le donne si presentano in pubblico solo in quanto madri, mogli, figlie e sorelle.
È ancora difficile essere semplicemente una donna se “pubblica” e gli insulti a Rita Levi Montalcini, che fanno vergogna all’intero Paese, sono solo uno dei tanti segnali di un patriarcato greve che perduta la maschera del buon padre di famiglia sragiona in modo violento e scomposto.
Le donne pubbliche sono il gradino più basso dell’asservimento degli esseri umani, spesso al confine o coincidente con la schiavitù, significato esattamente agli antipodi, e quindi forse speculare, di quell’uomo pubblico che come tale è al servizio del bene comune.
La questione resta perché anche quando le donne arrivano per meriti propri, secondo le regole della democrazia borghese, dalle professioni cosiddette liberali a connotazione prevalentemente maschile o, per esempio, dal sindacato (sempre luogo maschile, ma con qualche apertura “di classe”), devono comunque passare per le forche caudine di incarichi inadeguati alla loro preparazione e spesso in quei settori considerati tradizionalmente femminili di cui magari non sanno legittimamente nulla, con spreco della loro intelligenza e poco vantaggio per i settori che già navigano in cattive acque.
Alle donne è sempre chiesto un di più: di preparazione, di successo professionale, di esposizione mediatica, meglio se a motivo di una tragedia famigliare, o almeno di obbedienza e di fedeltà alle decisioni dei vertici di partito, atteggiamento che non è quasi mai di bieco opportunismo, ma semplicemente dovuto alla storia femminile interiorizzata per cui le donne, conoscendo i costi umani del raccogliere i cocci, tendono ad essere conservatrici, attuando molto prima che avesse questo nome la pratica della riduzione del danno, anche in contesti in cui sarebbe più utile qualche ribellione o almeno una moderata discontinuità.
 
Le candidature delle donne andrebbero discusse tra le donne, prima che contrattate con le segreterie dei partiti, tenendo conto che le donne, emarginate dalla politica istituzionale e spesso estranee alla casta, sono quella gran parte di società che agisce la politica nel quotidiano, in una miriade di associazioni di un volontariato che sopperisce purtroppo e per fortuna alle deficienze delle cosiddette politiche sociali.
 
Anch’io ho comunque da spendere, se non le tre ghinee, qualche manciata di ore. Virginia Woolf scriveva in un tempo in cui il denaro era la forma suprema della ricchezza, oggi sappiamo che il tempo è ancora più prezioso.
La prima manciata di ore l’ho spesa l’altra sera andando, a Bergamo, ad un’assemblea promossa dal Coordinamento “La Sinistra. L’Arcobaleno” dopo vent’anni che non partecipavo ad un’assemblea politica “mista”, perché da qualche parte bisogna ricominciare, magari anche da qualche dialogo interrotto.
Una manciata la tengo a disposizione di Lidia Menapace se fosse necessario, spero vivamente di no, rifare il lavoro già fatto per la sua candidatura.
Ho motivato più volte questa scelta, ma voglio aggiungere la ragione che, per me, riguarda specificamente le donne il movimento e le loro associazioni.
Lidia ha praticato da sempre il riconoscimento, di sé come donna, delle altre donne nella loro singolarità e talenti e vite concrete, e di tutte le nostre forme associative, come modo di costruzione di un’espressione politica femminile multiforme, vitale e democratica.
In particolare, pur avendo vissuto nell’Udi alcune significative sconfitte delle sue proposte politiche, Lidia non ha mai sottratto il suo pubblico riconoscimento a questa associazione, favorendone la conoscenza nei moltissimi luoghi del suo vagabondare politico, anche in tempi in cui molte dirigenti storiche non esibivano la propria appartenenza, che appariva forse tradizionale forse retrò, in quei luoghi del femminismo élitario dove si sviscerava di filosofia e i problemi delle donne facevano “miseria”.
Il mondo politico delle donne non è il migliore tra i possibili, ma non si può cancellare e ricominciare da capo. Si può, sempre, segnalare da quali idee e con quali donne ci è più utile ricominciare.
E su questo spero che il dibattito sia aperto.
 
Una manciata, anzi un’intera domenica (se togliamo il tempo dedicato a lavatrici e affini) l’ho spesa oggi per scrivervi e forse ho perfino esagerato, per me e per voi.
A conclusione posso dire che continua a non essere facile mettere d’accordo piedi e pensieri.
Sono convinta che tra conflitti interiori non risolti, o risolti con il soffocamento di una parte, ci sia un continuo rapporto di osmosi con i conflitti sociali e la loro traduzione nelle forme violente e in quella massima forma politica violenta che è la guerra. Ma per ora questo è fuori argomento.
 
Su molte cose ho taciuto a lungo, non perché mi senta di aderire alle regole di quel melmoso bon ton piccolo borghese nel quale ci siamo tutti infognati, ma piuttosto perché in fondo in fondo ero ancora arrabbiata con mia madre, che mi ha voluta a tutti i costi e poi io non sono stata per lei la figlia che avrebbe voluto e lei però mi ha messa in una condizione che io non avrei proprio scelto (non solo luogo e risorse ma anche dotazione genetica).
Poi alla fine lei mi ha accettata, perfino con un certo orgoglio e io ho scoperto la meravigliosa e durissima libertà delle madri.
Perché se anche si potesse, e per fortuna non è possibile, sarebbe terribile per i figlie e le figlie esercitare il diritto a nascere (o addirittura averlo già delegato per legge ad altri) e per fortuna nostra tutte e tutti siamo al mondo per le buone ragioni di una madre. Ragioni che non fanno di lei necessariamente quella buona madre del modello più corrente o quella che a noi piacerebbe tanto. Sono ragioni che ci restano perfino ignote, o sentiamo estranee, o nemmeno condivisibili, ma per questa buona ragione della madre noi siamo al mondo e questa è la prima vera alterità e insieme il limite con cui ci confronteremo per tutta la vita.
In questa “buona ragione” delle madri, in quella che abbiamo chiamato autodeterminazione delle donne in ordine alla procreazione, penso ci sia il nucleo di quel misterioso rapporto tra esistenza e coscienza che tanto spaventa le religioni, sollecita la scienza, circoscrive il terreno della politica.
In una parola, nella potenzialità femminile di diventare madre c’è tutto il mistero delle singole esistenze come della specie, ed è quel mistero che tanto spaventa gli uomini perché sottratto concretamente a tutti i marchingegni tecnici sociali e politici con cui cercano di dispiegare il loro potere, spesso con grandi danni ma invano.
 

Colgo l’occasione dell’invito di Peppe Sini, del Centro di ricerca per la pace di Viterbo, ad intervenire in merito all’appello di M. Di Rienzo, M. Boato, M. Valpiana, per proporre alcune riflessioni anche alle compagne e compagni con cui ho condiviso qualche pezzo di strada e in particolare la mailing list gestita da Luciano Martocchia dall’elezione di Lidia Menapace al Senato.
Rispondo perché ritengo che vadano sostenute in questo momento, almeno con un cenno di riconoscimento, le persone che si muovono a favore di un impegno politico che introduce innovazioni o almeno discontinuità nell’area della molto sgarrupata sinistra, e in particolare in questo caso perché sono grata a Maria per la puntualità dei suoi interventi e traduzioni.