Collettive: il filo rosso delle donne di Lecco

Lecco è una piccola deliziosa cittadina lombarda dove sono stata invitata per varie iniziative  fin dagli anni ’80 del secolo scorso, quindi conosco molte donne a Lecco.

Mi sono emozionata quando Enrica Bartesaghi e Tita Papini, appena conosciute, sono venute a trovarmi e mi hanno illustrato il loro progetto di ricostruire in una mostra la storia del movimento delle donne a Lecco.

Il filo rosso, l’hanno intitolata e il significato è espresso molto bene dalla presentazione di Enrica nel libro che raccoglie tutti i testi della mostra, per ora rimandata a causa del Covid19. 

Considero un grande riconoscimento che mi abbiano chiesto di scrivere l’introduzione al libro, in attesa della realizzazione della mostra e di poterla commentare in presenza, come si dice ora. Intanto se avete occasione cercate questo libro.

COLLETTIVE 
Introduzione in Il filo rosso, Storie del movimento delle donne a Lecco, 2020

L’incontro collettivo gioioso, ironico, arrabbiato. E profondo, leggero, curioso, straziante, intimo, orizzontale: collettivo. E svelante, diffidente, impegnato, creativo, imprevisto, lungimirante, presente … e sempre collettivo: questo è stato il femminismo degli anni Settanta.
Fu la stagione dei collettivi e per noi la collettività era una visione dell’esistere come donne, una visione che allargava lo spazio angusto delle nostre vite e sosteneva con la sua aura il più piccolo sperduto gruppo che si riuniva nel più piccolo sperduto paese della nostra lunga penisola.
Perché il femminismo di quel momento non fu un fenomeno d’élite, anche se c’erano tra noi straordinarie intellettuali, non fu solo fenomeno cittadino, anche se riempì le piazze delle città. Non eravamo maggioranza, ma una minoranza “egemone”, si potrebbe dire con categoria gramsciana, visibile ovunque, tanto che per un decennio si parlò di femminismo diffuso per definire la condizione di presenza politica delle donne italiane.
Praticavamo la collettività come ambizione, con l’ambizione, più o meno consapevole, più o meno espressa, di diventare soggettività politica e lo siamo state nell’imprevisto del nostro apparire sulle piazze contro il piombo di quegli anni, che feriva la nostra giovane democrazia in continuità con le trame oscure che precedevano la nostra nascita, contro il maschilismo rinnovato nelle formazioni politiche dei giovani che volevano una rivoluzione senza intaccare le relazioni tra i sessi, proseguendo la lunga storia dei padri anche dentro i luoghi che aspiravano al cambiamento.
Una rivolta che era prima di tutto dialogo: continuo, serrato, curioso, incalzante, sfibrante e si esprimeva negli appuntamenti dell’8 marzo con forme inedite di lotta, incomprensibili per la politica.
I girotondi invece della marcia, le mimose invece delle bandiere, l’ironia invece della declamazione, le mani intrecciate, gli abbracci, figli e figlie nel marsupio, tacchi bassi e abiti comodi: fu per noi un modo di essere che faceva lievitare il modo di pensare. Il modo di pensarci nel mondo, il modo di pensare il mondo.
Una soggettività politica che ha reso visibile quella precedente, scoprendo la lunga lotta delle donne prima di noi: le partigiane, le madri costituenti, le donne in corteo negli anni ‘50, arrestate per aver distribuito la mimosa, le sindacaliste, le operaie, le mondariso che avevano resistito al fascismo.
E poi le deportate, politiche, ebree, lo sconcio delle leggi sessiste e razziste del regime fascista che inquinavano ancora la legislazione della Repubblica democratica.
Cominciò allora l’attività di studio e di scavo di una parte di noi che diventò la prima generazione di storiche in Italia, e come non ricordare qui, simbolicamente per tutte, Franca Pieroni Bortolotti, la prima a indagare la storia politica delle donne italiane, riscoperta da Annarita Buttafuoco, giovane brillante storica a cui dobbiamo qualche radicamento della ricerca nei luoghi accademici, precocemente mancata al nostro affetto, ai nostri pensieri e a tutta la cultura di questo paese.
Ci definivamo femministe, in continuità, senza saperlo, con le donne che avevano fatto l’Italia e ne erano state escluse come cittadine, perseguitate come corpi femminili, sottoposte a dominio in ogni ambito, famigliare e istituzionale.
La parola femminista suscitava ancora diffidenza, c’era dietro di noi una storia sconosciuta di serrato dibattito politico tra suffragiste borghesi e proletarie socialiste, per dirla in modo rozzo e sintetico. Per noi era una sconosciuta Annamaria Mozzoni, femminista e socialista, le cui istanze, portate alla nostra lettura proprio da Franca Pieroni Bortolotti, riallacciavano una continuità ferocemente interrotta dal fascismo.
Eppure il nostro giovane e ignaro entusiasmo favorì scoperte e contaminazioni, ci consentì di saltare quel giovanilismo che amano spesso i maschi e sempre i dittatori, per cercare invece quell’esistere insieme come donne che portava nelle assemblee e nelle piazze insieme a noi le antifasciste uscite dalle carceri del ventennio, le giovani partigiane che avevano l’età delle nostre madri e tutte insieme di qualsiasi condizione sociale: casalinghe, dottoresse, insegnanti, deputate, operaie, studentesse, precarie nella vita e nel lavoro come da sempre le donne.
L’UDI, la storica associazione delle donne nata nella Resistenza, promotrice nel dopoguerra delle lotte per la pace, la pensione alle casalinghe, il riconoscimento degli stupri di guerra, gli asili nido, la scuola democratica, e molto molto altro, diventò per tante di noi una casa da abitare, oltre che una preziosa alleanza insieme ad altre sigle che costituivano il Movimento delle donne.
Il X Congresso dell’UDI nel 1978 segnò l’apertura ufficiale al femminismo, ai modi del femminismo che era orizzontale, assembleare, amicale.
Invitata a quel Congresso come femminista incontrai la storia politica delle donne italiane guardando Camilla Ravera che attraversava lenta i nostri applausi commossi. Poi scoprii tutte le altre, le donne che alla Costituente e anche dopo avevano saputo fare patti per il nostro futuro ignorando e superando le diffidenze dei partiti di appartenenza.
Una storia che ancora sto scoprendo e studiando, consapevole che l’UDI resta anche il luogo della più lunga difficile e straordinaria sperimentazione femminista della democrazia in un’associazione nazionale: una storia complessa e affascinante, che ancora non è stata portata alla scrittura.
C’è tanto nella mostra: un percorso documentato e preciso col quale scopriamo che veniamo da lontano e abbiamo appena cominciato, un percorso che sa raccontare ma anche evocare quello che non c’è per mancanza di spazio e indicando strade per quella ricerca che nella vita di ogni donna può essere il filo rosso a cui tenersi per non perdersi.
Leggiamo gli slogan, che dovevano essere sintetici ed efficaci, ma poi nei dibattiti, nell’autocoscienza, nelle assemblee “spaccavamo il capello in quattro”, sezionavamo e indagavamo al microscopio le nostre vite, le connessioni con la vita di tutte e con la storia, con la cultura, che ci avevano rimosse come donne legittimando la persecuzione delle leggi, lo sfruttamento economico, la discriminazione ovunque e la violenza nelle relazioni intime.
Vivevamo una sorellanza solidale più praticata che declamata, sapendo di dover rispondere con la concretezza ai nostri bisogni più urgenti, ai problemi che si presentavano come ostacoli insormontabili, attivando le conoscenze che diventavano quella rete di contatti preziosa e da riannodare continuamente, costitutiva di una trama politica di impegno gratuito e senza enfasi.
Eravamo una generazione che aspirava a fare la storia rivendicando il diritto ad avere una storia, quella cancellata dai libri, ignorata dalle istituzioni culturali, rimossa dalla politica; a quella generazione si appartenne quasi subito per scelta, non per età, dentro un tempo comune e condiviso che ci univa come donne cancellando le definizioni familiste nelle quali eravamo state troppo a lungo ingabbiate, liberando lo sguardo che ci inchiodava alla condizione del corpo, scoprendo vicinanze inedite e insperate.
Non cercavamo l’uniformità ma abbiamo saputo praticare quella contrattazione tra differenze che realizzò un Movimento delle donne capace di ottenere leggi decisive per la vita di tutte e tutti, politicamente capace di formare un comitato promotore per raccogliere le firme e portare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale nel 1979.
Poi, verso la metà degli anni Ottanta, i collettivi si sciolsero, rifluendo e confluendo in altre forme di impegno, e negli anni Novanta ognuna andò per la sua strada, occupate nel lavoro, con figlie e figli, carriera o nuove precarietà, con la capacità/possibilità di rivendicare legittimamente i capitali economici, culturali e sociali della propria famiglia, della propria classe (che intanto veniva cancellata come criterio di comprensione del mondo e di lettura del lavoro), del proprio territorio.
Le rivendicazioni individuali, pur legittime, ci hanno divise.
Il diritto civile all’inviolabilità del corpo è stato riconosciuto nella legge solo nel 1996, quando il reato di stupro è stato spostato dai delitti contro la morale ai delitti contro la persona, quindi dopo i diritti sociali, salute istruzione lavoro, e quelli politici conquistati insieme alla Repubblica democratica.
Non credo sia un caso se cominciò proprio in quegli anni il rilancio della mercificazione del corpo femminile attraverso il sistema mediatico sostenuto dall’arroganza dei potenti di turno, al fine di ricolonizzare l’immaginario collettivo con vecchi e rinnovati stereotipi.
Ma questa è la storia del dopo e questa mostra può diventare l’occasione di parlarne di nuovo tra noi.
La realizzazione di questa mostra ci racconta anche quante di noi sono rimaste “collettive” e quanto di noi vive ancora nell’impegno collettivo in un mondo dove si parla di gender gap più per le carriere che per le vite reali delle donne, consolidando divisioni che ci impoveriscono tutte.
Quando usiamo la metafora del tetto di cristallo da sfondare, dovremmo ricordare che il cristallo sfondato lascia frammenti da raccogliere e ci si può far male.
Forse non è l’altezza a cui vale la pena aspirare, se c’è un tetto, tra l’altro così scomodo da pulire come quello di cristallo, noi possiamo abbandonare l’edificio e riprenderci strade e piazze, facendo casa dove i tetti veri sono riparo e diritto di tutte.
Da quel tempo collettivo ci viene un sapere della lingua che ne indaga le trappole e i tradimenti, e ci insegna a diffidare anche delle metafore apparentemente progressiste e delle loro mete illusorie.
Questa mostra ricorda quindi un tempo, un attimo delle nostre vite, sottratto al rischio di diventare scarto della memoria, vaga nebulosa agiografica, mito senza tempo o, peggio, immaginetta stereotipata da scartare con altezzosa superficiale subalternità all’esistente.
Invece il lavoro prezioso, attento, paziente, intelligente di Enrica e Giacinta ci restituisce la densità storica, la realtà delle nostre tante vite, la passione che resta come brace viva sotto cenere e può sempre divampare, acqua che scava la roccia come fiume carsico e riemerge dove non te l’aspetti, perché noi donne continuiamo ad essere, ancora, nel bene e nel male, l’imprevisto della storia.
Grazie per avermi legata con il vostro filo a questa storia di noi tutte.
 
Rosangela Pesenti, femminista dell’UDI