Bertha von Suttner

“Giù le armi!”: il perentorio, appassionato invito, incisivo ed esplicito come uno slogan, è il titolo del suo romanzo più famoso, pubblicato nel 1889, che non solo le valse fama internazionale, ma rappresentò uno stimolo importante per la realizzazione di iniziative concrete a favore della pace.
Sono gli anni in cui in Europa il dibattito sulla pace si fa via via più intenso e controbatte punto per punto le argomentazioni del nazionalismo e militarismo dilaganti.
Anni in cui la pace sembra una strada ancora concretamente praticabile prima che l’Europa piombi negli orrori della prima guerra mondiale da cui comincerà ad uscire solo trent’anni più tardi.
Quei pochi decenni, segnati da guerre, violenze, restrizioni della libertà, discriminazioni e persecuzioni, basteranno però perché il nome di Bertha von Suttner scompaia dai libri come dalla memoria, insieme a quello di donne e uomini che alla causa pacifista avevano dedicato l’intera vita.
Figlia postuma dell’imperial regio tesoriere e feldmaresciallo Franz Joseph, che muore a 78 anni pochi mesi prima della sua nascita nel 1843 a Praga, e di Sophia Wilhelmine, di 28 anni, Bertha cresce nella Vienna asburgica secondo i dettami che la “buona società” del tempo prescrive per una ragazza, godendo dei benefici culturali che le offre il suo ambiente e delle opportunità di viaggiare al seguito della madre, accanita giocatrice.
La capacità critica affinata dagli studi le sarà utile quando l’assottigliarsi del patrimonio familiare, causato dalla passione materna, la costringerà a cercarsi un lavoro.
L’età, aveva ormai trent’anni, e la mancanza di una dote, precludono nel suo ambiente la strada del matrimonio, ma Bertha, probabilmente sensibile agli stimoli emancipazionisti che respira la sua generazione, non sembra scoraggiarsi.
Diventa così insegnante e accompagnatrice delle figlie della famiglia von Suttner dove s’innamora, ricambiata, del figlio Arthur, di sette anni più giovane.
La relazione non è ben vista dai genitori del ragazzo che preferiscono rinunciare ad una buona insegnante per le figlie e invitano Bertha a cercare un altro lavoro offrendole l’opportunità di rispondere ad un’offerta apparsa su un giornale.
L’inserzione era di Alfred Nobel che cercava una segretaria privata che sapesse parlare diverse lingue, in grado anche di svolgere le mansioni di governante della sua casa.
Bertha resta appena una settimana a Parigi, al servizio di Nobel, perché l’amore porta lei ed Arthur a sposarsi segretamente e fuggire in Caucasia, ma è sufficiente per costruire con l’inventore, già famoso per la scoperta della dinamite, un legame profondo, testimoniato dalla fitta corrispondenza che proseguirà negli anni successivi.
Nobel, che cercava di accreditarsi come pacifista agli occhi di Bertha, sosteneva in quegli anni, ingenuamente, che la potenza degli armamenti poteva diventare un buon deterrente e convincere i governi dell’insensatezza della guerra.
Ma se oggi per noi Nobel è sinonimo di pace e cultura è proprio grazie all’influenza di Bertha von Suttner che esorterà l’inventore della dinamite a devolvere una parte dei proventi guadagnati con la sua scoperta a favore di un premio per la pace.
A lei il premio venne assegnato solo nel 1905, con un ritardo deplorato in tutti gli ambienti pacifisti che ben conoscevano la sua opera, tanto che molti ritenevano dovesse essere la prima vincitrice, perché probabilmente la Commissione considerava degradante assegnare un premio tanto prestigioso ad una donna.[1]
Bertha appariva certamente, agli occhi dei suoi contemporanei, come una donna straordinaria, ma la passione dell’intelligenza che aveva affascinato Nobel da subito, non mancava di suscitare in molti i più bassi e meschini sentimenti misogini.
Il matrimonio, vissuto nei primi tempi nelle ristrettezze economiche (vivevano dando lezioni private, lui di tedesco e lei di musica) diventa da subito l’occasione di sperimentare la condivisione delle convinzioni pacifiste, attraverso l’aiuto per le vittime della guerra tra la Russia e la Turchia.
Arthur trova poi lavoro scrivendo sulla guerra per i giornali austriaci e Bertha non vuole essere da meno: non le si addice il ruolo ambiguo di angelo del focolare all’ombra e a sostegno dell’uomo amato.
Il suo amore per Arthur può vivere felicemente solo nella completa parità, che si esprime già di fatto nella condivisione delle vita come delle idee: Bertha perciò comincia a scrivere romanzi e articoli usando diversi pseudonimi per non vedersi precludere il successo a causa del sessismo della cultura in cui vive.
Sarà proprio il successo dei suoi romanzi, prima “L’era delle macchine” all’inizio del 1899 che contiene già la critica all’esasperato nazionalismo e la corsa agli armamenti, e “Giù le armi!” alla fine dello stesso anno, che la spingerà ad intervenire in pubblico, esperienza poco consueta per una donna di quel tempo, e ad impegnarsi direttamente a sostegno delle iniziative a favore della pace sia in Europa che negli Stati Uniti fino alla fine della sua vita.
Il suo primo intervento, tenuto a Roma in Campidoglio, in occasione della terza Conferenza per la pace nel 1891, viene accolto con calore dal pubblico in sala, anche se non manca poi l’acredine nei commenti dei giornali romani per quella donna che osa esporsi come oratrice e su un tema come la guerra considerato lontano dall’esperienza femminile.
La guerra infatti è ancora considerata banco di prova della virilità, che il nazionalismo sposta dalle virtù individuali all’ambito di quelle patriottiche, unendo l’esaltazione della forza ai miti contemporanei del progresso tecnico e scientifico.
Alle critiche Bertha era comunque già abituata perché al successo del suo libro si erano accompagnati non pochi inviti a tacere ed occuparsi di cose da donne, ma lei aveva prontamente risposto ad un suo denigratore “Le donne non staranno zitte, professor Dahn. Noi scriveremo, terremo discorsi, lavoreremo, agiremo. Le donne cambieranno la società e loro stesse”[2]dimostrando quanto forte fosse la consapevolezza di essere lei stessa testimone prima di tutto del proprio cambiamento rispetto all’educazione ricevuta e all’appartenenza di classe.
Sono infatti le pur scarne notizie sulla sua biografia che rivelano l’intreccio tra vita e pensiero, la coscienza, espressa senza reticenze, di essere a un tempo donna e pacifista  e il profondo nesso politico che lega questi due termini in un momento in cui la richiesta del diritto di voto da parte delle donne ripropone il dibattito sui fondamenti della cittadinanza.
Proprio il coinvolgimento personale, la capacità di misurare continuamente la propria esistenza con le condizioni storiche in cui si trova a vivere, la spingono ad indagare ogni aspetto, ad occuparsi di ogni evento che rappresenti un sostegno alla guerra ed è proprio perché donna che Bertha coglie la pervasività della cultura militarista che cresce in ogni ambiente e la pericolosità dei discorsi che altri tendono a sottovalutare.
A proposito di un Congresso medico internazionale, ad esempio, Bertha coglie molto acutamente la contraddizione tra le relazioni sulle malattie, che riguardano la ricerca di rimedi efficaci, e quella sulle ferite procurate dalle nuove armi da guerra, denunciando esplicitamente come complicità il silenzio sull’unica possibilità di rimedio, la pace.
Proprio attraverso il silenzio la ricerca scientifica si rende complice della guerra, così come l’economia, che non può essere considerata neutrale se investe negli armamenti.
La guerra non nasce da sé, in modo “naturale” come qualcuno sostiene e Bertha non si limita a denunciare l’aumento della produzione di armi, ma stigmatizza con ironia il mercato internazionale delle armi stesse, per cui le nazioni si faranno guerra utilizzando armi prodotte addirittura dalle medesime ditte fabbricanti e verranno uccisi come soldati gli operai che hanno prodotto le armi per il nemico.
Appaiono in questo senso particolarmente odiose le forme di connivenza dei governi e Bertha trova che l’uso della frase di origine latina “se vuoi la pace prepara la guerra” da parte di uomini politici liberali, per giustificare la corsa agli armamenti pretendendo di presentarsi contemporaneamente come sostenitori della pace, va smascherata nella sua intrinseca ipocrisia che rischia di diffondere una legittimazione del militarismo.
L’equilibrio del terrore non può essere contrabbandato per una politica a favore della pace perché si fonda sulla costruzione dell’altro come nemico, incitando “all’odio per l’estraneo, al desiderio di conquista, all’ambizione per le promozioni”[3]scrive Bertha.
Lei segue con grande attenzione l’enfasi con cui vengono annunciate le nuove armi, come i proiettili di cui ha richiesto il brevetto l’inventore della melinite o l’invenzione del dirigibile e dell’aeroplano, dei quali è stato immediatamente pensato l’uso bellico e proprio in occasione dell’annuncio del volo di un dirigibile sottolinea l’insensatezza del ricondurre alla guerra ogni nuova invenzione perché “Seguendo questa logica, uno stato potrebbe anche porre l’interdetto sulla scoperta di un siero; giacchè anche la salute si annovera fra quelle qualità che fanno un esercito più pronto al combattimento; sarebbe perciò antipatriottico rendere accessibile questo prodotto ad eserciti stranieri.”[4]
Per questo, insieme all’industria bellica, Bertha non manca di denunciare il ruolo della stampa nella formazione di un’opinione pubblica favorevole al conflitto armato: sono i due potenti gruppi che lavorano a sostegno degli ambienti militari.
“Anche la cosiddetta stampa liberale, moderata, favorisce il sistema militarista, in modo più passivo, ma non per questo meno efficace. (…) questa specie di stampa evita, sì, di aizzare direttamente alla guerra e di pronunciarsi apertamente a favore del potenziamento degli armamenti, ma tratta tutto il vigente sistema della pace armata come qualcosa di immutabile, di naturale.(…)”[5]scrive Bertha ancora nel 1909 e osserva con amarezza come sia censurata con disprezzo ogni voce che si leva a favore della pace da parte di singoli o associazioni e venga costruito un clima di sospetto se realistiche proposte di pace vengono da altri governi, come nel caso delle proposte inglesi di moratoria degli armamenti o l’appello dello zar che promuove la prima Conferenza internazionale tenuta all’Aia nel 1899.
Non manca sulla stampa, che fornisce sulle associazioni pacifiste rare quanto distorte e svalutanti informazioni, un improvviso interesse nell’imminenza dei conflitti e Bertha ne sa cogliere bene la malafede “Cosa fanno le associazioni per la pace? Cosa dicono i pacifisti? Questi interrogativi imperversano intorno a noi (…) Ci vogliono incoraggiare, con queste domande, ad azioni di salvezza, o ci vogliono semplicemente schernire? Tutte e due le cose sono fuori luogo. Dal momento che azioni incisive nelle quotidiane controversie politiche sono al di fuori della nostra sfera giuridica”. Allora come oggi le concrete proposte dei pacifisti per dare “un altro fondamento all’intero sistema di rapporti fra i popoli”[6]vengono ignorate e si chiede loro un’azione concreta quando i governi hanno già scelto la guerra.
Se Bertha in ogni suo testo è capace di cogliere con straordinaria incisività l’errore nell’argomentazione dell’avversario, di denunciare con estremo coraggio ogni passo avanti fatto in direzione della guerra è proprio nel romanzo “Giù le armi” che trova la forma più efficace per sottolineare la rete di complicità che indirizza tutta la società, a partire dall’educazione di bambini e bambine, verso l’esaltazione della guerra.
Dai giochi, che riempiono il tempo libero dei bambini di soldatini non innocenti, alle parate dove i giovani maschi mettono in scena il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in un rito collettivo in cui sperimentano il protagonismo individuale nella dimensione della sicurezzza insita nella condivisione collettiva, si costruisce abilmente il mito di una virilità che solo nella guerra sembra trovare il compimento naturale della propria maturità.
Le ragazze invece non devono sapere niente e l’appassionata protagonista del romanzo, in cui s’identifica certo l’autrice, scandalizza la famiglia intervenendo con veemenza: “(…) Per accadere possono accadere tutte le atrocità, ma non è lecito discorrerne. Di sangue e di escrementi le delicate donne non devono sapere niente, e niente dire, ma i nastri della bandiera che svolazzeranno sul bagno di sangue, quelli sì, li ricamano; le ragazze non hanno il permesso di sapere niente di questo, di come i loro fidanzati possono diventare impotenti di ricevere la ricompensa del loro amore, ma questa ricompensa esse la devono promettere loro per incitarli alla guerra. Morte e uccisione non hanno nulla di scostumato per voi, voi, damine bene educate – ma al puro e semplice rammentare le cose che sono le fonti della vita che si trasmette, dovete guardare altrove arrossendo. È una ben triste morale, la vostra, lo sapete? Triste e vigliacca! Questo guardare altrove – con occhi del corpo e della mente – questo fatto è responsabile del persistere di così tanta miseria e ingiustizia!”[7]
In poche righe, nell’efficacia dei personaggi e dei dialoghi, l’opera di Bertha illustra con semplicità il legame tra guerra, povertà e ruoli di genere costruiti sugli stereotipi di femminilità e virilità. 
Non a caso la biografia di Bertha insieme con i suoi scritti ci consente di ricostruire una parte della storia di quel movimento pacifista che comincia ad organizzarsi nella seconda metà dell’ottocento intrecciando attività e dibattito con gli altri due grandi movimenti portatori di istanze pacifiche di cambiamento della società: quello operaio organizzato nella prima e soprattutto nella seconda Internazionale socialista, e soprattutto quello delle donne espresso dal fitto attivismo delle associazioni emancipazioniste.
Un legame non semplice, soprattutto quello con il movimento operaio, una parte del quale guarda con diffidenza alla presenza borghese nel movimento per la pace e con altrettanta diffidenza al protagonismo delle donne.
Non a caso si afferma con fatica anche il saldo antimilitarismo di Rosa Luxemburg, l’economista più lungimirante e la dirigente politica più generosa della seconda Internazionale.
Nei confronti di Bertha sono molte le invidie e le diffidenze e sarà usata anche l’arma del ridicolo per costruire un muro di ironia intorno a quella sua voce schietta che non smetterà fino alla fine di parlare a favore della pace.
In un tempo in cui molti lacci imprigionavano il corpo e la mente delle donne Bertha ha saputo muoversi con passo lieve e deciso, senza arretrare, senza scoraggiarsi, mostrando sempre e ovunque, al fondo della sua lucida denuncia del presente, un fiducia nel futuro che giunge affettuosa fino a noi e ci commuove.
Quando le operaie di Vienna nel 1911 organizzano una gigantesca manifestazione per il voto alle donne e chiedono la fine degli armamenti e una destinazione civile per i fondi destinati alle spese militari, Bertha scrive: “Politica femminile? No: politica per l’umanità. E il contributo iniziale della metà finora diseredata del genere umano è soltanto uno dei sintomi del fatto che si avvicina il tempo in cui il bene e i diritti dell’umanità saranno considerati come massimo criterio per la politica.”[8]
Protagonista del suo tempo, degna di memoria per il nostro, muore nel giugno del 1914 poco prima che su quell’Europa, che sognava democratica e unita, si abbattesse la tragedia che ancora oggi continua e continua e continua, toccando e sperperando, una ad una, ancora, le nostre vite.


[1]Cfr. U. Jorfald, Bertha von Suttner, Forum Boktrykkeri, Oslo 1962, cit. in Birgit Brock-Utne, La pace è donna, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989, p.70 (titolo originale: Educating for peace. A feminist perspective, 1985 Pergamon Press Inc., New York)
[2]Cfr. U. Jorfald, p. 34, Cit. in Birgit Brock-Utne, Op. cit. p. 67
[3]Bertha von Suttner, Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989,  p. 28 (Titolo originale: Die Waffen nieder! Ausgewählte Texte, 1978 by Pahl – Rugenstein Verlag, Köln)
[4]Bertha von Suttner, Op. cit. p. 56
[5]Bertha von Suttner, Op. cit. p. 9-10
[6]Bertha von Suttner, Op. cit. p. 79
[7]Bertha von Suttner, Op. cit. p. 96-97
[8]Bertha von Suttner, Op. cit. p. 89

In DONNE DISARMANTI (a cura di Monica Lanfranco e Maria Di Rienzo), Ed. Intra Moenia, Napoli 2003