Adolescenze

Scrivo, cancello, riscrivo, lo schermo del computer torna bianco, incurante dei fogli e foglietti su cui ho appuntato qualche frase nei ritagli di tempo scolastico sottratti alla noia di ripetitivi aggiornamenti e collegi docenti in cui vengono ratificate decisioni ben poco collegiali.
Osservo: il mezzo è il messaggio, il contesto rende decifrabile il contenuto. Per quanti dubbi mi attraversino, se accetto di scrivere su una rivista vuol dire che considero significativi i miei pensieri e se scrivo senza aver niente da dire significa che sono una 
presuntuosa arrogante esibizionista. Come molti della mia specie adulta.
Cerco di guardarmi con i loro occhi, ma è solo mia la severità del giudizio, rimasta inalterata dai quindici anni ad oggi.
Loro invece sono più indulgenti, lo sono con sé stessi, lo sono con noi, ci prendono sul serio, ma con moderazione.
Quella che noi, seduti sul nostro scranno foderato d’ipocrisia, chiamiamo indifferenza, mi sembra solo una straordinaria capacità di adattamento, una sana inerzia opposta al movimento frenetico di adulti e adulte che girano come trottole nel proprio mondo e nei propri pensieri. Loro provano a restare in piedi e a camminare. Noi abbiamo l’ansia della meta, loro sanno già che conta solo la strada.
Cercano di sopravvivere e ci guardano con indulgenza, prendono, giustamente, tutto quello che offriamo, anche quello che non serve e ci perdonano quasi tutto. A tu per tu dovrebbero detestarci e invece ci amano.
Il mio è un osservatorio limitato: una periferia benestante e incolta, dimentica del recente passato contadino e operaio, fin troppo facile preda dei miti borghesi che accompagnano il benessere come i sacchetti di immondizia buttati negli scarsi spazi lasciati alla campagna dalle villotte pretenziose cresciute in giardini recintati come territori militari.
La scuola superiore in cui insegno, né migliore né peggiore di altre, si adegua ai nuovi miti della qualità che impongono l’uniformità e il controllo delle procedure come espressione di quella trasparenza che dovrebbe garantire i diritti degli utenti.
Così, come dietro ogni uniforme, la realtà diventa opaca, si sopravvive nella dissimulazione perché manca il coraggio della ribellione e la pazienza della riflessione. A noi adulti ovviamente, loro ingoiano qualsiasi cosa purchè non faccia troppo male.
Genitori e colleghi hanno ritrovato una smodata passione per le regole e si chiede la severità di verifiche, interrogazioni ed esami come prova di serietà della scuola. 
Noi adulti non siamo disposti a dire la verità su niente e loro hanno già imparato a non fare domande. L’attenzione puntata sull’esame di maturità mi sembra un sintomo eclatante della nostra impotenza, ma perfino l’ultimo repentino cambiamento non ha suscitato sussulti nei ragazzi.
Il re è nudo, ma l’assuefazione ai corpi esposti al macello mediatico ci distoglie perfino dall’idea di pensare se come quando e a chi si tratta di fornire un minimo d’abbigliamento. Se ci pensiamo cominciamo sempre da guanti e cappello, sembrano prosaiche o sconce mutande e magliette.
Non riesco più a togliermi il pensiero che la scuola sia solo un contenitore per il controllo di bambini e adolescenti: la scolarizzazione di massa per ora non ha prodotto più cittadinanza ma solo maggiore adattamento alla società adulta così com’è.
Da giovane ho chiesto a gran voce, insieme a molti miei coetanei, il diritto alla studio per tutti e tutte, ora con un subdolo gioco di parole ci impongono il successo formativo, a un diritto di cittadinanza abbiamo sostituito un imperativo di prestazione.
Adattarsi o rassegnarsi al fallimento: l’unica libertà sembra emergere proprio dai sintomi di disagio che allarmano gli adulti, pronti comunque a invadere anche questo spazio con i propri interventi verbali e pratici.
Come la terra, un tempo libera, oggi interamente colonizzata dalla proprietà (più raramente con annessa responsabilità) anche la realtà sembra rigidamente lottizzata e non c’è spazio per pensare o progettare “oltre”.
I talenti trovano un posto adeguato per crescere solo in minima parte, esattamente come un tempo, ma non c’è più un territorio reale e simbolico in cui pensare una qualche opposizione. Il blocco degli adulti è compatto: ci separiamo su quisquilie, per giunta incomprensibili se rappresentate a livello politico.
Siamo adulti invadenti, presenti sulla scena della vita anche fuori orario, loro non lanciano pomodori, i più audaci al massimo ridacchiano, i più generosi fingono di credere al nostro spettacolo, la maggior parte aspetta in paziente silenzio che ci accorgiamo di essere fuori luogo.
Li definiamo fragili, forse sono la prima generazione a cui vengono continuamente sbattute in faccia la  grandi paure che noi adulti non riusciamo a controllare. Vecchiaia, malattia, morte, sono camuffate, esorcizzate, nascoste: utilizziamo tutto ciò che l’invenzione umana ha prodotto con imperizia, imprudenza, incoscienza. Noi adulti siamo fragili perché incapaci di sopportare la responsabilità del nostro agire, individuale e collettivo, loro per ora stanno a guardare e possiamo solo sperare che utilizzino i nostri errori per fare di meglio.
Spaventati dalla realtà del nostro essere soggetti al tempo rinunciamo all’unico protagonismo davvero possibile, quello della nostra coscienza, rincorrendo e proponendo traguardi che generano ansia individuale e mortalità sociale.
Come in tutti i momenti di cambiamento i cosiddetti grandi valori proclamati solo pochi anni prima mostrano il rovescio e spesso, come in un abito mal rifinito, non è un bello spettacolo da vedere.
Noi adulti indossiamo l’abito dal “diritto”, con i nostri panni addosso ci riconosciamo nella reciprocità degli specchi in un’immagine che ci è abituale, quando li passiamo ai giovani i nostri abiti mostrano anche il rovescio, che rappresenta la realtà della confezione e ne denuncia la tenuta.
Sono tornate di moda vecchie parole, dio patria famiglia, ma il dio è sempre quello degli eserciti, la patria innalza frontiere e filo spinato, dire famiglia è spesso un modo per cancellare e distorcere la realtà delle relazioni umane, oggi più che mai straordinariamente complesse e perfino, nei percorsi quotidiani sconosciuti all’universo mediatico, positivamente tali.
Siamo quotidianamente attori di un film agghiacciante: la sera mentre celebriamo i nostri riti famigliari da mulino bianco fuori dal cerchio dei nostri vacui sorrisi appaiono, e spariscono subito, i volti dei pochi “salvati” che approdano ai nostri campi di concentramento come all’ultima occasione di salvezza, lo sguardo fisso nel ricordo dei molti “sommersi” di cui noi non chiederemo il nome; in questo film i giovani per ora fungono solo da comparse.
Queste, che attraversano la scuola oggi, sono le prime generazioni che condividono lo stesso modello educativo dall’infanzia alla giovinezza (anagraficamente oltre la maggiore età), il mondo degli adulti è straordinariamente compatto nel sostenerlo, come se fosse l’unico possibile, e renderlo tale attraverso ferree regole sociali, ma l’omertà è totale sul fatto che le possibilità della cosiddetta riuscita restano per pochi e, come un tempo, decise dalla fortuna o dall’appartenenza famigliare.
La parola uguaglianza è caduta in disuso e le differenze non sono mai davvero indagate, quando gli adulti parlano di solidarietà intendono quella carità pelosa che amministra le briciole dei patrimoni e non interroga il patto di cittadinanza.
Quando ho cominciato ad insegnare, trent’anni fa, per qualche strano motivo la scuola era una piccola oasi di libertà in un mondo che andava rapidamente ripristinando le gerarchie della ricchezza e l’arroganza del potere, navigavamo su un vascello fragile, noi e loro, accomunati dalla speranza di trovare una rotta verso il futuro, non c’era confusione di ruoli, ma era bello sedersi insieme ad aspettare che il cielo svelasse i suoi misteri, sapevamo che le tempeste preparano gli arcobaleni e quando il buio della notte si fa più fitto si vedono le stelle più lontane.
Ora cerco di esercitare ogni giorno tutta la mia capacità di accogliere e la virtù è resistere alla tentazione di tacere, di assecondare, di obbedire.
Il momento di svolta è stato il 1991, la prima guerra del golfo, i miei alunni in piazza convinti di poterla fermare, stavo accanto a loro in silenzio, nel cuore il peso della mia adulta impotenza. Alcuni sono diventati insegnanti, attoniti per un cambiamento che è stato più repentino nella loro vita che nella mia. Per quella guerra avevamo fermato l’attività didattica, ora sono troppe le guerre che viviamo ed è stata ritualizzata anche l’indignazione, inglobata nei progetti non deve e non può disturbare. 
Di loro, dei giovani, in fondo non so dire niente, a scuola e nel mio lavoro di counselor cerco solo di camminare un passo avanti, non perché penso di poter indicare una strada, ma per insegnare a riconoscere le asperità del cammino. Insomma che abbiano almeno le scarpe della misura giusta, visto che strade e mappe sono quasi tutte inutilizzabili.

Settembre 2006