FUORI SCENA
In: Volevamo cambiare il mondo, (a cura di Caterina Liotti, Rosangela Pesenti, Angela Remaggi, Delfina Tromboni), Carocci, Roma, 2002
“Le donne dell’Udi”, ancora oggi questa breve locuzione rimanda a poche immagini stereotipate: le militanti di ferro dell’emancipazione nei primi trent’anni dell’Italia repubblicana, le donne tradizionali, che guardano con diffidenza il femminismo delle giovani, negli anni ’70.
Stereotipi nati e cresciuti dentro quella grande area della sinistra italiana che oggi, nel bene e nel male, non esiste più e come sempre accade, la dissoluzione di una grande tradizione porta con sé molti problemi, e non solo politici, ma rappresenta anche un’occasione di rilettura del passato da nuove angolazioni.
Le giovani generazioni di donne, che pongono domande alla storia, guardano ad esempio complessivamente al ‘900, e spesso riuniscono sotto l’appellativo di ‘femministe’ tutte le esperienze politiche autonome delle donne, riconoscendo i tratti comuni tra generazioni che si sono vissute come lontane forse soprattutto per il modo con il quale le contingenze politiche hanno determinato l’interruzione della memoria.
Così, oggi, anche gli stereotipi possono essere interrogati come prodotto di ambienti e persone, di tempi ed esperienze, di relazioni complesse tra generazioni, di rappresentazioni e autorappresentazioni, funzionali alla costruzione di identità politiche e percorsi individuali.
Chi sono quindi le donne dell’Udi? In Emilia Romagna, più che altrove, verrebbe da rispondere cominciando dal dato quantitativo: sono tante ancora oggi che l’associazione non ha più i caratteri cosiddetti ‘di massa’ di un tempo.
Resta da spiegare la scelta di partire dalle interviste, dalla soggettività, quando manca ancora una vera e propria storia dell’Udi, affidata per ora a pubblicazioni di carattere più archivistico che storico, repertori di fonti con riflessioni e commenti spesso a cura delle protagoniste stesse, a cui ha fatto da modello proprio il primo testo di carattere nazionale che infatti si presenta non a caso con il sottotitolo “idee e materiali per una storia”.1
Tra la documentazione messa a disposizione dalle pubblicazioni locali e la raccolta di testimonianze orali, oggetto della presente ricerca, resta un vuoto, quello della storia, che non può essere la somma delle singole esperienze, la memoria fermata nel qui ed ora dell’intervista, mediata dal dialogo, dalla domanda implicita nella presenza stessa dell’intervistatore, e nemmeno l’insieme di tutta la documentazione, muta di per sé, come ogni fonte, senza la soggettività dello storico o della storica.
Ascoltare, leggere testimonianze significa vagare intorno alle possibilità di una storia; come e forse più di altre fonti, la testimonianza fa nascere domande, illumina luoghi oscuri, può essere letta per quello che non dice, riporta fatti, dati, ma anche l’operazione compiuta dalla memoria, propone e talvolta tradisce i suoi modelli narrativi, indica piste di ricerca che le carte non segnalano o viceversa riduce l’importanza di un eccesso retorico dei documenti.
La scelta compiuta dalle Udi dell’Emilia Romagna merita di per sé qualche interrogativo: perché proprio qui, dove ancora oggi, a vent’anni dall’XI Congresso che azzerò l’organizzazione nazionale, il dato organizzativo concorre notevolmente alla visibilità di un’Associazione, che ha ormai perso centralità ma non presenza nella politica delle donne, si è voluto partire dal racconto personale, quasi autobiografico?
Che cosa possono dire le testimoni che già non si sappia?
Si tratta di un bisogno di visibilità che chiede forse alla storia quello che non sa fare con la politica, rigiocando gli stessi soggetti attraverso uno spostamento semantico, quasi cambiando la “destinazione d’uso” da militanti a testimoni?
Sappiamo che l’autenticità del testimone non si traduce automaticamente in verità della storia e che non basta aver attraversato un’esperienza perché nasca miracolosamente la capacità di rielaborarla e restituirla al “senso comune“ di una storia che possa radicarsi nel presente di una memorabilità condivisa.
Se nella memoria collettiva di un mondo, che si riconosceva nell’area della sinistra, nelle sue varianti politiche maschili e femminili, persiste la convinzione di una chiusura dell’Udi in concomitanza con l’XI Congresso, tanto da enunciarla con candida convinzione perfino in presenza di situazioni che dovrebbero consigliare maggiore cautela e perfino qualche curiosità, è possibile che in quella memoria si possa praticare una crepa attraverso la somma, documentata, di un centinaio di storie di donne che testimoniano, attraverso il proprio vissuto, non solo l’esistenza, ma forme tutto sommato inedite di persistenza dell’associazione stessa per più di cinquant’anni?
E ancora, c’è davvero una storia comune tra queste donne al di là di un nome collettivo che forse riesce ad essere tale solo nei documenti?
A complicare il possibile uso di queste testimonianze c’è proprio la domanda di fondo che ha guidato ogni dialogo: non si tratta di una domanda relativa ad un evento, a un luogo, a un tempo, ma che comprende tutti questi aspetti, in quanto l’Udi è insieme luoghi, tempi, esperienze, a cui va aggiunta, in questo nome citato ormai solo con il suo acronimo, l’evocazione di un’idea che assume talvolta, nelle interviste stesse, i caratteri di un mito.
L’Udi diventa allora tema unificante di una storia individuale, o parte di una storia che comunque fa coincidere con la periodizzazione politica dell’associazione le tappe di crescita e mutamento della propria vita.
Va ricordato il richiamo di Luisa Passerini: “Forse ogni tipo di narrazione deve oggi tener conto di trovarsi alla confluenza di questi processi contraddittori; è una delle tipiche ironie della storia che si affacci l’esigenza di narrarsi da parte di tutti, di tutti noi come individui comuni, proprio quando è diventato così difficile farlo in un modo dotato di senso. La storia orale, segno, tra gli altri, delle trasformazioni culturali che presiedono alla pretesa di raccontarsi, si dibatte da tempo nelle difficoltà indotte da un’applicazione ingenua di democrazia narrativa”.2
E ancora, quella testimone, quella donna, ti accoglie spesso in casa sua, ti offre il caffè, lascia che il tuo sguardo vaghi intorno, appena contenuto da una discrezione che si ferma giusto sulla soglia della decenza, ti consegna una narrazione complessa ma quasi sempre compiuta: c’è un inizio, una conclusione, una trama, un filo che tiene con forza tutte le digressioni possibili e alla fine te ne consegna un capo.
Con quel capo in mano noi torniamo a casa, distendiamo il filo e lo tagliamo, piccoli precisi tagli netti per ricavare pezzetti che inseriremo perfettamente in una trama, perché alla fine, nel tessuto variegato del racconto, rigorosamente a caratteri tipografici diversi, quei gruppi di frasi avvalorino e sostengano la storia.
Un’operazione rigorosa e corretta, la stessa che si fa su tutte le fonti, ormai consolidata e legittimata da storici e storiche autorevoli, perché mai dovrei metterla in dubbio?
La risposta mi viene immediata: perché ci sono storie straordinarie che ho ascoltato e che non riesco a tagliare, storie intrecciate in quel vivere quotidiano che non diventa mai evento e che da lì non si possono districare senza romperle, senza lacerarne il senso, storie che ho ascoltato con il cuore in gola senza osare un gesto, ingoiando una commozione che mi sarebbe sembrata retorica di fronte al volto fermo e sereno, al fluire pacato di un discorso che il rigagnolo di qualche lacrima non alterava.
Come ridurre questa storia ad un frammento senza svilirla, senza tradirla? Potrei citare la parte che dice dell’incontro con l’Udi, del modo di stare nell’Udi, del “fare” nell’Udi, ma senza l’antefatto, senza quel dolore conficcato nel “prima” della vita e del racconto, senza l’andirivieni tra la casa e l’Udi e il crescere e il trasformarsi dell’uno e dell’altro luogo cosa resta, se non quello che già sappiamo, di questa storia?
Potrei fare un’operazione diversa, e anche questa sarebbe un’operazione storiografica legittima, tradurre il parlato in una lingua scritta leggibile, ricomponendo in un tessuto narrativo compatto una storia di vita che è anche una “bella storia”, di quelle che vorresti far conoscere alle amiche alle compagne, ma soprattutto a quell’informe gruppo di giovani, ragazze e ragazzi, che spesso attraversano l’anonimato delle aule scolastiche senza trovare parole che lascino un segno nel loro tempo.
Ma anche un repertorio di storie di vita, di belle storie, non agiografiche, non celebrative, non “progressive”, alla fine può diventare ridondante e intrinsecamente muto, alla fine ogni storia diventa un frammento che non riusciamo a collocare, che non ci dà nessuna risposta perché prescinde da ogni domanda.
Se comporre una vita, come recita il bel titolo di un libro di Mary Catherine Bateson,3è quell’operazione di continuo spostamento dello sguardo e dei piedi, dentro un mosaico di compiti differenti e continuamente ridefiniti, tra creatività e confusione, disperate improvvisazioni che diventano importanti conquiste e consolidate certezze che si sbriciolano senza preavviso, e comporne il racconto è quell’operazione precaria con cui scendiamo a patti col tempo stringendolo in un’intelaiatura cronologica la cui fragilità tentiamo di mettere al riparo con la scrittura, com’è possibile sezionare l’una e l’altra, e cosa possono dirci tutte intere, messe vicine come i grani di un rosario?
Per qunto mi riguarda sono convinta che “abbiamo bisogno di osservare una varietà di vite, per poter analizzare e modellare la nostra. (…) Ognuno di questi modelli, così come ogni singola opera d’arte, è un commento sul mondo che sta oltre la cornice. E come il cambiamento ci induce a rintracciare persistenze più astratte, così lo sforzo individuale di comporre una vita, incorniciata dalla nascita e dalla morte e accuratamente costruita a partire dagli elementi più diversi, diventa una dichiarazione sull’unità del vivente. Queste opere d’arte, per quanto incomplete, sono parabole in divenire, metafore viventi di cui ci serviamo per descrivere il mondo.”4
Raccontiamo una storia che non solo ci interessa, c’incuriosisce, ma sempre, in qualche modo, ci riguarda: di questi racconti ascoltati, trascritti, riletti, resta l’emozione profonda, inscritta nella mia vita, in cui il significato delle parole è tutt’uno col suono, il tono, il gesto, il luogo, il tempo, il clima, il ritmo del respiro.
Di quell’emozione che non era solo simpatia ed empatia e nemmeno semplice partecipe solidale gratitudine, so che posso e devo dare conto perché riguarda la mia storia, percorsa per il tempo che già mi è stato dato da una passione politica che ha intrecciato il senso dell’esistere con il senso dell’abitare una socialità alla cui definizione avverto la necessità e insieme la fatica di concorrere.
Il mio sguardo non è neutrale, forse nemmeno collocato alla distanza giusta, ma questo non mi preoccupa se ci saranno, e lo spero, sguardi successivi più lungimiranti proprio perché più distanti, mi preoccupa il fatto di non saper restituire quell’emozione condivisa dentro cui sento che c’è per me la risposta di senso, utile per la comprensione/ricostruzione di una storia collettiva che rappresenta il passato del presente in cui cerco di disegnare/immaginare il futuro.
Mi viene da pensare, parafrasando Hannah Arendt, che la persistenza degli stereotipi sull’Udi e le sue donne, è dovuta ad una perdita, all’incapacità/impossibilità di tradurre in parole quell’imprevisto dell’esperienza che ha rappresentato il ‘tesoro’, per chi l’ha vissuta, di cui ha potuto alimentare tutta l’esistenza, ma che sembra impossibile ora trasmettere e intorno al quale ci affaccendiamo invano.
“Così il tesoro non si è perduto per le circostanze storiche o per l’urto con la realtà avversa, bensì perché il suo apparire e il suo esistere non erano stati previsti da una tradizione, perché il tesoro stesso non era stato legato da un testamento. Comunque la perdita (forse inevitabile in termini di realtà politica) fu dovuta all’oblio, a una lacuna della memoria che non colpì soltanto gli eredi, ma anche, si vorrebbe dire, gli attori, i testimoni, quanti, per un attimo fugace avevano avuto il tesoro tra le mani, insomma quelli che l’avevano vissuto. Infatti, la memoria non è che una sola delle forme del pensiero, seppure una delle più importanti, e perde ogni potere se avulsa da un contesto prestabilito: solo in rarissimi casi la mente umana è capace di ritenere una cosa priva di connessioni con qualunque altra. I primi a non ricordare come fosse fatto il tesoro furono dunque proprio quanti lo avevano posseduto e lo avevano trovato così strano da non saper neppure dargli un nome.”5
L’Udi come la rivoluzione allora, luogo di un’esperienza della libertà che nel ricordo si perde nell’alone di un sogno? Se il paragone è possibile, non è troppo azzardato: tutto sommato il terreno resta quello della politica e l’imprevisto dell’Udi è proprio quello di collocarsi nella politica ignorando i rigidi confini che ne definiscono il territorio come ‘pubblico’ alzando alte mura contro improvvide invasioni del ‘privato’.
Il racconto delle donne dell’Udi resta indecifrabile se restiamo al puro tessuto narrativo che descrive con minuziosa precisione un fare in cui scorrono anni, volti, azioni, di cui le parole non riescono a fornire la connessione con un’emozione ricondotta al puro enunciato, come un’intercalare nella conversazione che potremmo definire un sintomo, se non fosse ancora così presente, tanto che ne avvertiamo la potenza proprio e solo nella fisicità dell’incontro.
L’Udi resta l’esperienza di una passione di cui si parla con entusiasmo o scoraggiamento, nostalgia o rabbia, spesso con un orgoglio venato di sentimenti filiali e materni, mai con distacco, neppure da parte di quelle donne per le quali sarebbe giustificato dalla distanza reale del tempo che la riconduce ad esperienza ampiamente conclusa.
Per una donna che ha lasciato l’Udi, per le circostanze della vita o perfino che ha scelto di andarsene con precise motivazioni politiche, magari dopo l’XI Congresso, si tratta di un’esperienza che può dichiararsi conclusa nei fatti, in quell’agire concreto che sembra essere la cifra della militanza, ma in realtà non si è mai chiusa del tutto nei sentimenti ed è perfino improprio chiamare nostalgia quella sorta di piccolo, vitale, ribollire profondo dei pensieri che anche una semplice intervista può rimettere in moto.
Cos’altro può dare un’emozione così duratura se non l’esperienza, talvolta perfino più intuita che vissuta, della possibilità di una sperimentazione di sé in spazi, tempi, relazioni inedite, di un agire concreto dentro coordinate reali quasi solo perché immaginate insieme.
Dentro forme organizzative anche molto tradizionali, perché mutuate dalla tradizione di altri luoghi, si sperimenta un vissuto di libertà che quasi non ha nome nel diventare parte di quell’impasto curioso che si realizza poi nella singolarità individuale.
Non si tratta dell’affermazione di un’astratta ‘libertà da’ vincoli, forme, condizioni, da molte sperimentata come oggetto della battaglia politica di partito che definisce i soggetti dell’agire a prescindere dalla connotazione di sesso, ma di avere a disposizione un luogo fisico in cui sperimentare concretamente la ‘libertà di’ agire la proprio individualità nelle forme e nei modi che di volta in volta appaiono più congeniali all’affermazione di un sé che potrà poi trovare anche altrove una collocazione adeguata e in sintonia con i propri desideri; uno spazio per quell’agire pubblico che, superando la scotomizzazione del privato, dà conto più ampiamente del modo di interpretare la cittadinanza da parte delle donne.
Così se è certamente vero che la presenza nell’Udi assume per le donne caratteri diversi nei cinquant’anni di storia che abbiamo attraversato con le interviste e sui significati di questa presenza “agisce il tempo dell’economia, agisce il tempo della politica, ma agisce anche il tempo della legislazione paritaria e, ancora, il tempo dei comportamenti privati e delle soggettività, insieme con quello delle rappresentazioni simboliche delle identità sessuali, dei significati attribuiti a un sesso e all’altro e alle relative attività”6 è anche vero che alcuni caratteri comuni che si rilevano nelle interviste non possono essere attribuiti solo alla contemporaneità delle stesse e rimandano invece ad analogie più profonde tra le esperienze a cominciare probabilmente dal fatto che appartengono a generazioni diverse che le vissero però nell’età della giovinezza, che conserva caratteri riconoscibili con il passare dei secoli e perfino nel confronto tra diverse culture.
Distante e diversa appare la generazione del femminismo, quella delle giovani donne che si entusiasmarono e si scontrarono con e intorno all’XI Congresso, dalle ragazze della Resistenza e forse perfino più distante e diversa dalle donne che formano e guidano l’associazione negli anni ’50 e ’60, eppure non sembrano sufficienti ad avvalorare distanza e diversità i documenti, i tanti fogli, opuscoli, relazioni che testimoniano dei quasi vent’anni necessari a legittimare la parola emancipazione, stigmatizzata all’inizio come borghese o equivoca, che appena dieci anni dopo sembrerà un retaggio stantio di fronte alla nuova bandiera della liberazione.
Le strategie della soggettività sembrano rimescolare le carte e proprio nel tempo in cui emerge dai documenti un “noi” chiaro, solido e condiviso, un’identità collettiva che si racconta nell’agire concreto in tutti i livelli dell’organizzazione, lì più forte sembra poi in realtà la spinta individuale alla propria realizzazione e l’Udi è il luogo dell’opportunità, talvolta passaggio obbligato, quando è il partito7 ad assegnarlo come settore d’intervento, talvolta incontro fortuito e fortunato che aiuta o consente nuove aperture della propria vita, sempre comunque luogo di un prezioso apprendistato che non riguarda solo la politica, ma la vita stessa e rende per questo politicamente più accorte o comunque ‘differenti’ tanto che la differenza è perfino segnalata a livello di partito quando si distingue tra le comuniste e le comuniste dell’Udi.
Opportunità diverse trovano nell’Udi le contadine, le operaie, le ‘donne del popolo’ come vengono definite prima che il termine casalinga appiattisca, attraverso l’ideologia, appartenenza e collocazione, rispetto a quelle delle dirigenti locali e nazionali, ma identica è l’accortezza con cui vengono intuite, la creativa cura con cui vengono coltivate e la tenacia con cui vengono praticate.
L’Udi è spesso luogo di passaggio, da un incarico di partito a una responsabilità nelle amministrazioni locali, nel sindacato, in enti e cooperative, o viceversa; fino agli anni sessanta, e spesso nel tessuto delle relazioni personali ancora dopo, è forte la contiguità tra l’Udi e le varie forme politiche in cui si esprime la sinistra e soprattutto l’area comunista, ma il passaggio nell’Udi determina sempre un mutamento nel proprio modo di guardare la politica, soprattutto nel modo di pensarsi nella politica.
L’Udi resta un punto di riferimento, un luogo a cui si guarda anche quando diventa incomprensibile o invisibile; nei racconti delle donne che hanno trasferito altrove il proprio impegno politico non c’è il senso di aver lasciato un vuoto andandosene, solo la nostalgia per quei modi della socialità che non si trovano in altri luoghi, segnati dal genere maschile, e soprattutto la consapevolezza di un ‘pieno’ che si porta via, di un bagaglio utile per gli impegni successivi: si tratta quasi di un ‘uso’ dell’Udi, che trova legittimità proprio guardando ad un contesto storico in cui i vissuti di queste donne presentano tali elementi di novità da configurarsi come vere e proprie prove di emancipazione.
In una democrazia giovane sono tutti ai primi passi e le donne camminano in bilico su piani diversi: conquistare la cittadinanza e conquistare la propria vita.
Si sperimenta la costruzione della propria vita e l’Udi diventa anche il luogo della messa a punto delle proprie risorse, delle strategie con cui verranno pensati, progettati, realizzati i tasselli necessari, senza i quali il mosaico della vita resta monco e il futuro immaginato, impossibile.
È una ‘scuola’ l’Udi, a cui si torna, anche solo con il pensiero, o attraverso legami d’amicizia, quando l’impegno chiama altrove, perché le esperienze vissute in quel luogo, che è anche una sede precisa, sono un ‘deposito’ in cui si può pescare a lungo.
Così la politica è funzionale alla soggettività e quanto più l’esperienza pubblica vuole essere collettiva, ed è rigorosamente tale nella firma dei documenti, tanto più vediamo emergere nei racconti le singole individualità che rappresentano anche ‘modelli’ nuovi a cui guardare.
Sono diverse le opportunità, ma analoghe le strategie per la costruzione di una vita che consente di allontanarsi dai modelli familiari e sociali precedenti, e proprio in Emilia Romagna dove l’Udi, profondamente radicata sul territorio, porta avanti, insieme alle battaglie più generali di livello nazionale, anche quelle per la concreta conquista di tutti quei servizi sociali che ancora oggi caratterizzano la qualità della vita della regione, e dove quindi sembra più facile poter raccontare una storia dell’organizzazione, proprio qui possiamo leggere nei racconti delle donne, quei gesti di affermazione di sé, dentro le occasioni e gli eventi più diversi, che rendono difficile incastrare l’organizzazione stessa dentro una periodizzazione definita dalle categorie politiche ormai entrate in uso per la storia delle donne.
Sappiamo che il significato delle parole ‘emancipazione’ e ‘femminismo’ è reso complicato dai contesti e dai movimenti che le hanno prodotte ed utilizzate per definire pensieri, desideri e azioni, ma anche restando alla versione più corrente che attribuisce all’emancipazionismo le battaglie per la piena cittadinanza e al femminismo l’affermazione della soggettività libera e autonoma di una donna, non possiamo dividere cronologicamente la storia dell’Udi utilizzando questi due termini.
Lo stesso conflitto con il femminismo, che molte raccontano come scontro reale con gruppi e donne, soprattutto per i modi e le forme con cui le femministe si rendono visibili pubblicamente, sembra essere generato da una sorta di invidia per la capacità di queste giovani donne di mettere in scena la propria vita liberamente, più che da divergenze sui contenuti politici, che diventano una sorta di linguaggio in codice per dire altro.
La differenza non stava tanto nei vissuti quanto nella rottura di un tabù linguistico che li relegava nel silenzio del privato: le giovani si erano prese una libertà di dire che sembrava tutt’uno con la libertà di fare e di essere.
Allora sembrò, e in parte lo era, uno scontro generazionale che determinava una frattura insanabile, in realtà non ci vollero molti anni per arrivare a quel riconoscimento reciproco che svelava il primato dei vissuti sulle parole stesse che pure sono un veicolo privilegiato della loro rappresentazione.
Manca ancora un’adeguata fioritura di studi sulla storia politica delle donne italiane per la quale sarebbe necessaria anche una lettura sociologica delle generazioni e poi dei gruppi fino alle singole personalità collocate dentro le reti di relazioni e il contesto storico del proprio tempo, ma credo che per comprenderne le linee di fondo non sia indifferente la materia, anche caotica e difficilmente catalogabile che ci portano queste fonti orali.
La soddisfazione per il fatto di essere conosciuta da tutte con il proprio nome, senza neppure l’aggiunta del cognome, e non essere più ‘la figlia di’, ‘la moglie di’, l’orgoglio per essere riconosciuta come ‘una donna intelligente’, per aver riscattato da sola la bambina emarginata dal paese bigotto per la precoce autonomia, la ragazzina timidissima che diventa rappresentante sindacale già alla prima esperienza in fabbrica, l’aver conquistato con le proprie forze il diritto ad andare a scuola: la narrazione radica spesso nel tempo dell’infanzia una consapevolezza di sé che nasce dal vissuto familiare, dalle prime esperienze sociali, uno sguardo sul mondo che si traduce poi in un susseguirsi di piccole grandi scelte che talvolta si confondono sul piano cronologico.
Spesso è proprio nell’infanzia e nella prima adolescenza che si assorbe una prima lezione di vita dalla madre, dalle donne della famiglia, dentro l’ambiente più generale della politica e del paese: una lezione che non si impara, se non in parte, dalle parole, ma che è frutto della propria capacità di decodificare i segni che stanno intorno. Tra questi segni c’è spesso il giornale ‘Noi donne’ che ha valore come mezzo di alfabetizzazione culturale rispetto alla propria identità di donna, ma rappresenta anche il medium di un codice gestuale intrinsecamente politico nei vari passaggi della distribuzione capillare.
L’Udi poi diventa quasi il naturale approdo dei gesti, del corpo, prima ancora che cominci una riflessione su quel ‘fare’ politica proposto dall’associazione di cui si ricordano puntualmente tutte le grandi tappe pubbliche.
Una narrazione che cura il legame di senso tra tempi e vicende anche quando si disperde in numerose digressioni e arriva però sempre, alla fine, ad una domanda sul presente, perfino quando è da molto tempo conclusa la parte vissuta nell’Udi, una domanda talvolta generale sulla contemporaneità, talvolta più precisa, tesa ad indagare il senso a cui si consegna il proprio racconto.
Una domanda di senso che si allarga immediatamente dal progetto ‘storiografico’ al progetto politico, al futuro possibile dell’Udi.
Spesso alla fine, anche dopo alcune ore di esposizione fitta e di ascolto attento, emerge una sorta di insoddisfazione per l’incompiutezza che si avverte in quel racconto che è stato invece profondo e dettagliato, e spesso si attribuisce alla propria scarsa cultura, ad un’incapacità di parlare che non ha rispondenza nella realtà.
La questione dell’avere o non avere ‘cultura’ attraversa i vissuti della maggior parte delle donne dell’Udi, come se la presa di parola politica, che pure sanno esercitare con chiarezza, rigore e attenzione ai contesti, mancasse sempre di qualcosa, fosse semplice emanazione di quel ‘fare’ che sembra la cifra identitaria dell’essere Udi e contemporaneamente così scarna da mortificarlo.
A determinare questo sentimento gioca senz’altro l’estrazione sociale, che ha significato per molte, comprese qelle che un tempo erano le dirigenti e oggi sono comunque considerate ‘guide’ autorevoli, una faticosa conquista della scolarità, talvolta avvenuta in età adulta, ma gioca anche il confronto, ormai più che ventennale con un femminismo che, chiusa la fase dell’autocoscienza e delle battaglie condivise anche con l’Udi, ha trovato continuità ed espressione in elaborazioni teoriche che hanno sempre più assunto il modello accademico.
Per molto tempo il ‘fare’ è diventato lo scrivere e pubblicare, la parola vissuta, propria della dimensione politica, ha perso il suo primato a favore di quella scritta in cui si sono sovrapposte, e talvolta confuse, le esigenze della ‘letteratura’ con quelle di un’elaborazione teorica davvero nuova o con la concretezza richiesta dalla politica.
Di fronte al fiorire di ‘belle lettere’ le donne dell’Udi sono rimaste spiazzate nel senso più concreto del temine: fuori dalla piazza, confinate in un altrove della politica che, senza riconoscimento, è scivolato nell’invisibilità e quindi nell’impossibilità.
Nell’amarezza che traspare in molte, che ricavo dal racconto dettagliato delle vicende con cui si gira ancora intorno all’XI Congresso, c’è anche questo e molto di più.
Lo spartiacque della storia dell’Udi, che debitamente collocato nella storia politica del nostro paese mostra caratteri insieme di novità e lungimiranza, nelle narrazioni individuali è ancora un groviglio poco dipanato, anche per quelle che furono entusiaste sostenitrici.
Se molte donne dell’Emilia Romagna furono contrarie perché temevano che la scomparsa dell’organizzazione determinasse anche la scomparsa dell’associazione, molte altre videro nell’azzeramento della struttura gerarchica e del funzionariato, una possibilità di liberazione delle energie individuali e la fine di una subalternità al nazionale anche attraverso lo svelamento di un neppure troppo occulto sistema di cooptazioni che non rispondeva più alla realtà dell’associazione stessa.
Un’associazione che in quel momento era tutt’uno con la tumultuante esistenza della generazione di donne che praticava con forza lo slogan magico ‘io sono mia’ a tutto campo nella propria vita.
Una generazione politica più che anagrafica, legata da quegli interrogativi radicali su di sé e sul mondo che sembravano consentire quasi ogni scelta.
In molti racconti, più o meno esplicitamente, l’azzeramento della gerarchia nazionale-locale significa anche, finalmente, l’affermazione di un’uguaglianza politica tra donne, collocate prima su piani diversi nell’associazione anche perché, quasi inevitabilmente, appartenenti a classi sociali diverse e spesso molto lontane.
Il dato di classe, che certamente non è determinante per la comprensione dei vissuti delle donne, accomunate da un simbolico stereotipato, che continua, persino oggi, a minacciare i percorsi delle singole individualità e l’espressione di una soggettività politica femminile, è comunque un elemento presente per chi guarda il mondo misurando lucidamente le proprie e altrui opportunità.
Non c’è un sentimento di invidia personale, sul quale prevale l’orgoglio per una strada compiuta grazie alle proprie capacità, ma il senso profondo del proprio diritto ad agire politicamente su quel piano di parità che rappresenta uno dei fondamenti della cittadinanza.
E il dato di classe diventa irrilevante infatti se la ‘dirigente’ è diventata tale non per cooptazione, ma grazie al concreto lavoro nell’associazione.
Anche la differenza di cultura è un ‘di più’ che queste donne riconoscono volentieri al gruppo dirigente nazionale che guida lo storico Congresso, anche quando non sono d’accordo con la scelta politica e il modo ‘verticistico’ con cui è stata praticata.
L’amarezza arriva più tardi, quando nasce la sensazione che quel gruppo, lievemente variabile nella definizione della sua composizione, anche dal punto di vista territoriale, sembra vergognarsi dell’appartenenza Udi, quando frequenta altri luoghi del femminismo, molti dei quali si sono dati nel frattempo quelle norme organizzative, tranquillamente mutuate dalla tradizione politica, certamente non femminile, sulle quali il dibattito nell’Udi è stato lacerante per anni e certo non senza conseguenze sulla sua visibilità politica.
Anzi sembra proprio un paradosso della politica delle donne che proprio quel ventennale dibattito dell’Udi sulle forme, che ha prodotto anche alcune non disprezzabili sperimentazioni, sulla differenza tra autoproposizione e mandato, sulla capacità di autoconvocazione, sulla gestione ‘collegiale’, sull’avvicendamento delle responsabilità e altro, renda l’Udi invisibile e ininfluente sui processi di mutamento interni alle varie espressioni del movimento.
Sarebbe ‘eccessivo’ pensare ad uno snobismo intellettuale, politicamente miope, che perpetua anche tra le donne, di quello che si chiamava ‘movimento’, la soggezione, più o meno compiacente, alle convenienze/convivenze che regolano ancora molta parte del nostro mondo accademico, politico ed economico, pure l’insignificanza in cui cade l’Udi dopo l’XI Congresso, a cui s’accompagna quella di molte donne che restano, ostinatamente, per usare un termine che segnò il XII Congresso, legate all’Udi nel suo ‘fare’, meriterebbe qualche riflessione.
Anche perché sembrano non pagare lo stesso prezzo di insignificanza alcune delle donne che restano presenti al rito nazionale dell’autoconvocazione, ma spendono nei luoghi più prestigiosi del femminismo competenze, autorevolezza e storia acquisite nei tempi gloriosi dell’organizzazione.
Le donne dell’Emilia Romagna continuano tenacemente a ‘fare’, e l’Udi resta un nome, un’idea, forse un mito, ma soprattutto un luogo concreto – spesso una bella sede accogliente – centrale per quel fiorire di attività, servizi e anche associazioni nuove che altrove hanno significato una dispersione feconda delle competenze apprese, ma anche una cancellazione dell’associazione, nei confronti della quale ci si scorda perfino di avere un debito di gratitudine.
In Emilia Romagna, dopo l’XI Congresso, ognuna sembra sperimentarsi come sa e come può: alcune continuano, senza modificarla sostanzialmente, la propria pratica politica, segno di autonomia rispetto all’appassionato dibattito che si snoda con fasi alterne all’autoconvocazione nazionale, con le tappe intermedie di altri due congressi, al quale approda saltuariamente per curiosità o per occasionali evenienze, ma questa nuova ‘autarchia’ del locale diventa spesso povera politicamente, quasi connotata da una pura sopravvivenza, garantita, non a caso, praticamente e simbolicamente da un’archivio in cui è racchiusa la storia passata.
Molte donne s’impegnano creativamente a praticare l’esito politico di libertà ‘del fare e del pensare’ che rappresenta l’eredità davvero spendibile di quel Congresso e la sede dell’Udi diventa luogo di attività fitta rivolta a quel sociale che costituisce da sempre il terreno privilegiato su cui costruire le condizioni di vita che possono consentire alle donne l’approdo a quel primo gradino fondamentale della cittadinanza che è l’esercizio del diritto.
Non mancano i conflitti, perché tra la posizione di chi riproduce la sopravvivenza ‘vuota’ dell’associazione e l’attivismo frenetico di chi è impegnata a tenere in piedi l’invenzione quotidiana, compreso il legame con l’autoconvocazione nazionale, di cui sente o intuisce comunque la necessità, anche per quel nome comune ancora condiviso da tante, ci sono le strategie individuali di chi cerca una strada per sé, che nella sua Udi locale non sente praticabile.
Legami che si spezzano o si rinsaldano, rancori difficilmente decifrabili se non li leggiamo sullo sfondo di quella che viene magari ampiamente raccontata come ricchezza, ma che si avverte oscuramente anche come perdita concreta di esperienze ed opportunità.
Molte raccontano il piacere dei rapporti costruiti, della condivisione di una socialità tra donne che solo nell’Udi resta comunque connotata dal senso della propria autonomia; nella difficoltà di rendere visibile quell’orizzonte più vasto di tensione politica a cui è sempre più difficile dare nome, l’Udi diventa almeno specchio costante che ti affranca dall’essere ricondotta alla casa, al privato e quindi ti rassicura, certificando quasi della tua stessa esistenza.
Tra l’orizzonte limitato di un continuo casalingato sociale che, perfino involontariamente, le donne svolgono nei luoghi misti, che siano un partito, un comitato genitori o un’associazione di volontariato, e la reclusione nei confini stabiliti dall’ordine sociale tra famiglia e ‘carriera’, l’Udi resta il luogo di un’esperienza unica non tanto per il tipo di attività che vi si svolgono quanto per il come si svolgono e soprattutto per il significato che assumono nelle singole vite.
Un significato che non riesce a rendersi visibile nella sfera politica, ma che attiene alla costruzione del tessuto di quella società civile di cui tanto si parla e senza la quale la democrazia diventa puro gioco di potere tra le parti.
Non è un caso che proprio alcune Udi dell’Emilia Romagna cerchino in vario modo di forzare i limiti di una legge che finanziando solo le associazioni di volontariato non solo ha escluso dal finanziamento le associazioni politiche delle donne, ma ha implicitamente legittimato un modello di convivenza che riduce e mortifica proprio quella dimensione di società civile che è in grado di organizzare ed esprimere i bisogni complessi del quotidiano, di cui molto è ancora appannaggio del vissuto delle donne.
Si pratica una sorta di resistenza che intreccia il piano politico a quello privato perché proprio qui, in Emilia Romagna, molte di queste donne sono legate a partiti, sindacati, cooperative, associazioni, istituzioni non solo dalla classica doppia militanza, ma anche attraverso le reti parentali e di fronte ai mutamenti, che poco possono governare, l’Udi diventa il luogo di un’identità forse ‘minore’, ma tutto sommato ‘sicura’.
Gli uomini nei racconti sono presenti, ma restano sullo sfondo, anche quando sono, o sono stati, straordinari e molto amati compagni di strada, così come nei casi in cui hanno rappresentato solo problemi da affrontare e perfino quando sono stati determinanti per alcune scelte perché proprio la loro promozione politica ha costretto la compagna ad un cambiamento di vita non desiderato.
In primo piano resta la consapevolezza del significato di un rapporto che al di là della variabile sentimentale, è comunque stato vissuto e gestito perché non potesse mai configurarsi come un ‘riduttore di opportunità’.
Anche del rapporto con i figli il racconto della fatica e dell’ansia per aver incarnato un modello materno ‘anomalo’ si accompagna ad un vissuto di grande rispetto reciproco, come se il fatto di aver lavorato per la propria libertà avesse consentito di guardare ai figli e alle figlie come soggetti autonomi, accompagnando la loro crescita senza prevaricarne desideri o inclinazioni, anche quando hanno seguito strade non previste o non gradite.
Se queste esperienze sono, per fortuna, comuni a molte donne, qui la riflessione sul proprio quotidiano non prescinde mai da una dimensione politica, che diventa insieme un confine e un orizzonte, e la bussola diventa proprio il confronto costante con le altre con cui si condividono spazi e gesti oltre e più che parole.
In una sede dell’Udi infatti si fanno riunioni, ma anche si accoglie, si organizza la manutenzione quotidiana degli spazi, dei rapporti, delle carte, ma anche si sospende il lavoro, si chiacchiera, si ride, si beve il the e le altre con cui si sta possono essere simili, ma anche molto diverse soprattutto per età.
Se ancora è difficile dire se e come le donne trasmettono patrimoni materiali e ideali, sappiamo da queste storie che nelle sedi dell’Udi si sperimenta direttamente un rapporto tra le generazioni lontano sia dai modelli istituzionali che da quelli familiari.
Dalle ‘ragazze’ della Resistenza, che possono fare riferimento solo alle donne della famiglia o alle poche prestigiose figure di militanti sopravvissute al fascismo, all’ultima generazione che si è avvicinata spesso per un interesse ‘storico’, si snoda un racconto costruito in modo quasi circolare, dove ognuna fa riferimento alle donne più ‘grandi’ a cui ha guardato con ammirazione, rispetto, ma anche lucidità critica, e alle più ‘piccole’, che osserva con curiosità venata sia di condiscendenza che da qualche impazienza.
Un movimento che costringe a fare continuamente i conti con il passato e il futuro, dove l’autorevolezza non è mai un dato tranquillamente acquisito, ma richiede la capacità di ricollocarsi ogni volta nel presente e quello che si impara riguarda l’intera vita.
Molte raccontano la vera e propria fascinazione esercitata da alcune donne di cui ricordano non solo l’intelligenza e la capacità politica, ma anche il gesto, il modo di stare nelle riunioni, lo sguardo, il sorriso, la severità, le confidenze, ma nella consapevolezza di aver appreso molto non c’è mai l’esperienza di una qualche subalternità o dipendenza che abbia determinato limitazioni frustranti.
L’età, l’autorevolezza, il prestigio, tutto ciò che rappresenta un elemento di forza della propria identità, e a cui si è giustamente affezionate, viene spesso rimesso in gioco con leggerezza in gruppi e attività nuove, come se giocando tra conservazione e innovazione sul terreno politico ci si consentisse un fecondo spostamento sul piano individuale.
Così si imparano forme e modi della politica che possono esprimere un piano ‘istituzionale’ senza tradire il proprio modo di essere individuale; lo stare insieme nell’Udi consente una sperimentazione a tutto campo che diventa anche costante ricerca tra intuizioni del ‘sé’ e forme del ‘noi’.
In molte sedi dell’Udi dell’Emilia Romagna non si è mai spezzato il legame tra le generazioni di donne che si sono affacciate sulla scena della politica negli ultimi cinquant’anni e questa esperienza, così importante nei racconti biografici, non può essere completamente irrilevante per una storia politica.
Ma qui rilevanza e irrilevanza storiografica approdano ad un confine labile che si confonde con i pensieri, i sentimenti, i vissuti politici dell’oggi.
Sono stata a lungo recalcitrante, e certo avevo le mie buone ragioni, ad accettare questo incarico di ricerca: era una storia che mi sembrava troppo doloroso guardare e la delimitazione territoriale ad un’Emilia Romagna così lontana e diversa da Bergamo e anche dalla mia, ormai lunga, esperienza del luogo nazionale, non poteva comunque proteggermi da un coinvolgimento che andava oltre i miei desideri e certo non ha favorito la neutralità e ‘professionalità’ dell’approccio.
Pure l’emozione che ancora non mi lascia è forse l’abbaglio di aver visto qualcosa di invisibile perché è sotto gli occhi di tutte e quella visione o abbaglio temo ancora di non aver saputo compiutamente raccontare.
Ancora non ho del tutto messo a fuoco la domanda delle donne che rappresentano la committenza, ho avvertito nella richiesta, dura come un imperativo, l’amarezza per non avere ‘noi dell’Udi’ delle storiche e certo questo è un dato su cui poco può la volontà: il ‘corto circuito’ tra condizione sociale e appartenenza generazionale ha fatto sì che avessero attraversato i luoghi del femminismo, più che l’Udi, le giovani donne che oggi sono valenti storiche. Ma questo per l’Udi poteva essere un vantaggio: non è forse proprio la distanza che consente di vedere con più chiarezza quell’insieme che per chi è interna diventa il confine del suo ‘particolare’?
Perché allora la richiesta rivolta a me che nell’Udi sono quasi da sempre fin troppo coinvolta, perfino quando la guardo a distanza, e non posso comunque definirmi una storica?
Del resto credo che nell’Udi non manchino solo le storiche, ma anche filosofe, letterate e in generale tutta quell’intellighenzia femminile che fa cultura e opinione nell’area di quello che è stato il movimento e/o il femminismo.
Negli archivi dell’Udi c’è la storia, ho detto recentemente in un convegno, di una militanza politica che può essere considerata specchio delle donne italiane nella loro composizione sociale maggioritaria, le donne contadine, operaie, proletarie, insegnanti, impiegate, lavoratrici, appartenenti alle classi subalterne, si diceva un tempo, le donne insomma che fanno la ‘grande storia’ perché determinano i mutamenti nel modo di vivere, di essere, nella mentalità, ma che, appunto, non la scrivono la storia.
Se la domanda di storia è stata per le donne, negli anni ’70 e forse anche per generazioni precedenti, unita al desiderio di ‘essere’ nella storia, potremmo pensare che i tempi sono maturi per separare i due ambiti assegnando la storia alle storiche e la politica alle politiche, ma non sono così sicura del punto in cui siamo davvero.
Le storie che ho ascoltato mi hanno riproposto le urgenze del presente attraverso la lucidità con cui hanno saputo capitalizzare il passato.
Ognuna, nel racconto, ha tenuto saldamente in mano il filo della sua memoria tanto che ora io non so più fare quel lavoro di taglio e cucito che pure mi era stato affidato con tanta fiducia, come se il breve tempo dell’intervista si fosse incastrato tra il mio bisogno di entrare più a fondo per capire e la necessità di fare un passo indietro, di agire una discrezione e una cautela che non mi consentono di lacerare un tessuto narrativo riassunto sulla carta in poche pagine sbobinate, ma dilatato nella mia memoria al sentimento di un’intera vita.
I racconti ascoltati appartengono anche per me a quell’unicità dell’esperienza difficilmente disaggregabile in singole informazioni, ma la storia è sempre guadagno e perdita proprio perché trasformare in scrittura significa operare scelte tra memoria e oblio, perciò non potevo sottrarmi al dovere di azzardare qualche mia parola.
Alle donne che ho ascoltato restituisco l’emozione di una storia irriducibile ad una sintesi di cui non siano interamente titolari, perché dentro quella storia c’è una domanda di visibilità che non mi sento di liquidare con le formule note, ma che preferisco lasciare aperta perché continui ad inquietarmi.
A chi legge vorrei ancora ricordare che proprio al fondo di una storia così personale da non poter prescindere dal soggetto “io” ho ritrovato continuamente il legame di un “noi”, che non è solo quello esplicito dell’azione, ma appartiene ad una più sotterranea, tenace e quasi insaputa condivisione dei sentimenti che sostengono quell’agire; una condivisione che attraversa legami e scontri tra generazioni e relazioni diverse, età, condizioni, origine, stile di vita, collocazione sociale, atteggiamenti, comportamenti, e che non è comunque riducibile ai modi di quell’uso comune dell’acronimo Udi che etichetta l’agire.
Forse è proprio questa l’esperienza che non si riesce interamente a nominare, quell’apparizione del nuovo che resta muta tra le mani degli stessi soggetti che l’hanno vissuta, accantonata perché inagibile politicamente nelle condizioni date o forse perché richiederebbe un’esposizione assolutamente nuova sulla scena pubblica, impossibile senza uno spostamento fisico e semantico delle vite stesse.
Ho pensato che ci fosse in quel ‘noi’ il nocciolo duro di un’esperienza politica sulla quale ho saputo approssimare solo alcune domande, un nocciolo duro di storia che ho visto sbucciando e spolpando quelle storie non della loro multiforme e inesauribile verità, ma dei miei sentimenti stessi, di quell’agire troppo partecipe che pure avevo cercato di ridurre a poche parole di cortesia e pochi gesti, quasi solo quelli di accendere e spegnere il registratore, ringraziare, salutare.