Storia delle donne: la cittadinanza (2002)

Storia delle donne: la cittadinanza (2002)

Storia delle donne: la cittadinanza, I quaderni della Porta/79, Fondazione Serughetti-La Porta, Bergamo, 2002

Introduzione al corso Autunno 2000 Primavera 2001
Desiderio e diritto: forse è tra queste due parole che va tracciata la storia della cittadinanza femminile, una storia che ancora non si è conclusa se lo spazio considerato è il pianeta e che possiamo immaginare simbolicamente iniziata per tutte con la decapitazione di Olympe De Gouges a Parigi nel 1793.
La sua richiesta di salire con eguale diritto il patibolo e la tribuna viene accolta a metà: il suo appello alla nazione francese, emerso nella storiografia della rivoluzione dopo il 1989, mette in scena l’intrinseca parzialità e ingiustizia che segna l’atto di nascita della cittadinanza.
Per le donne italiane questa storia sembra chiudersi con la Costituzione repubblicana e il diritto di voto, ma ci vorranno altri decenni, e altre storie, perché uguaglianza, parità, pari opportunità, diventino realtà, almeno nelle leggi che rendono operativo il patto sociale.
L’accesso a tutte le carriere, la condanna di ogni discriminazione, il riconoscimento dell’inviolabilità del corpo femminile sono diritti recentemente acquisiti e non sappiamo ancora bene quanto socialmente consolidati.
Ci è sembrato utile in questo momento ripercorrere le tappe di questa storia non solo per ricordare una sorta di elenco progressivo delle conquiste, ma soprattutto per indagarne le condizioni di realizzazione, i modi, le forme, le circostanze del dibattito, le relazioni e le organizzazioni che hanno saputo vincere le resistenze, per far luce anche su lati oscuri, desideri inevasi, opportunità precarie, ambiguità persistenti tra rappresentanza e cooptazione, schermi, censure, deformazioni, sulla possibilità di un’autorappresentazione sociale che si possa tradurre in aperta presenza politica
Ciò che nel presente ci appare talvolta ovvio è in realtà il frutto di una lunga e spesso misconosciuta tenacia, per questo abbiamo scelto di ripercorrere il tempo che abbiamo lasciato alle spalle riaprendo un dialogo con le donne di cui troppo spesso ci resta solo qualche immagine oleografica e sbiadita.
Restituire voce alle donne del passato anche per trovare una misura e un confronto con le nostre parole, o i nostri silenzi, di oggi.
Gli incontri hanno rispettato, nella prima fase, la successione cronologica degli eventi, dalla Rivoluzione Francese, appunto, alla cittadinanza “piena” del secondo dopoguerra, anche se i temi riguardano questioni di ben più lunga durata e l’intento è stato quello di indagarne lo “spessore” dentro la complessità delle relazioni sociali tra i sessi e le forme della loro rappresentazione anche e soprattutto politica.
Dal dopoguerra ad oggi molte questioni cambiano e diventa centrale la “qualità” della cittadinanza, in un tempo che vede una vera e propria rivoluzione, l’unica che non si studia a scuola, come recita una famosa vignetta di Pat Carra.
Una rivoluzione pacifica, ma profonda, che modifica il tessuto sociale, le biografie individuali, le relazioni tra i sessi, le identità, le leggi.
In trent’anni le donne italiane rompono le segregazioni legislative e culturali e si misurano con la scuola e tutte le professioni, smentendo consolidati stereotipi che oggi appaiono finalmente alle giovani come reperti, o relitti, d’antiquariato.
Resta clamorosamente chiusa la cittadella della politica, mentre gli scenari delle scelte si allargano all’intero pianeta.
Per questo abbiamo pensato di ripercorrere la storia di questi cinquant’anni attraverso la mappa delle parole chiave in cui si è mosso, è cresciuto e cambiato il movimento delle donne e attraverso il percorso delle leggi che hanno rappresentato il terreno più visibile della contrattazione politica di una cittadinanza della quale ancora non siamo appagate.
Abbiamo cercato di rispondere all’esigenza, prima di tutto nostra, di trovare una distanza “utile” che ci consentisse di non sovrapporre criteri e letture, di non sbiadire i contesti nei quali i soggetti hanno agito, di non appiattire il passato in un presente astorico in cui le singole, e diverse, individualità si confondono in miti e stereotipi astratti.
Ci sembra infatti che la storia più recente, quella degli anni settanta e del presente, quella in cui siamo ancora invischiate, richieda metodologie diverse, anche a partire dal fatto che le narrazioni sono poche e frammentate, le fonti spesso disperse, sconosciute o poco frequentate.
La parola femminismo suscita ancora sentimenti forti e spesso di opposta natura e cosa significa cittadinanza, oggi, se a Pechino nel 1995 è stato necessario riaffermare che i diritti delle donne sono diritti umani?
Uno sguardo sul presente infatti non poteva prescindere da quello scenario mondiale che ha visto proprio nell’appuntamento di Pechino del 1995 l’evento visibile e significativo di una politica delle donne che si misura con forme e questioni per tanti versi inedite.
Una politica che incrocia necessariamente anche i percorsi di “migranti e native” nella costruzione concreta di nuove condivisioni.
La parola cittadinanza evoca nella storia delle donne questioni di diritto insieme a multiformi esperienze di costruzione d’identità, ma non possiamo dimenticare che nella realtà dei popoli, e quindi delle donne, il diritto di cittadinanza delimita confini, disegna frontiere, sottrae o accresce possibilità e opportunità.
Quale significato di cittadinanza accende i nostri desideri, quale divide i nostri destini?
Guardare il passato a partire dalle domande del presente significa cominciare a definire l’orizzonte che abbraccia il nostro sguardo sapendo come e dove sono radicati i nostri piedi.
Dal mondo al territorio locale: abbiamo voluto concludere il nostro percorso con la presentazione dell’Archivio dell’Udi e dei Collettivi femministi di Bergamo, depositato presso l’ISREC, perché la costruzione di un archivio rappresenta sempre il desiderio di passare da una memoria labile e continuamente esposta a stereotipi e falsificazioni, ad una storia che legittima una memorabilità visibile all’intera collettività.
Si tratta di una scelta di responsabilità nei confronti del passato e del futuro, di riprendere in mano quel felice incontro tra storia, memoria e politica che abbiamo cominciato a vivere negli anni ’70 e di riempirlo di qualche opportunità, perché le giovani generazioni di donne possano essere meno “smemorate”, capaci di riconoscere le radici della propria esperienza e di godere di quell’eredità a cui hanno diritto.
Come recita un vecchio slogan, ripreso nel bel video di una giovane regista bergamasca: ‘Non abbiamo vinto, abbiamo solo iniziato’. (Chiara Cremaschi “Le parole per dirlo”)

DONNE, GUERRA, RESISTENZA
di Rosangela Pesenti
in Storia delle donne: la cittadinanza, I quaderni della Porta/79, Fondazione Serughetti-La Porta, Bergamo, 2002

Il tema di questa sera è particolarmente difficile perché rappresenta una svolta rispetto ai temi che abbiamo affrontato nelle sere precedenti quando abbiamo preso in considerazione il movimento delle donne, quella parte di donne cioè che, in determinate situazioni storiche, si definisce come soggetto politico e opera facendo riferimento ad un proprio progetto.
Non donne in generale quindi, ma donne che fanno riferimento ad un progetto politico e ad una precisa organizzazione, riconoscibile nel tempo storico accanto ad altri soggetti. Questo accade nella rivoluzione francese, perché Olympe de Gouges faceva comunque riferimento al mondo dei club, delle donne organizzate, anche se firma personalmente la sua dichiarazione dei diritti, e lo stesso accade per le emancipazioniste che fanno riferimento a precise e diverse associazioni.
Comunque si collochino sulla scena della storia fra ‘800 e ‘900, quelle di cui abbiamo parlato sono donne che si mettono in associazione fra di loro, si organizzano, e di queste donne noi abbiamo cercato di ricostruire la storia andando a vedere quale significato politico aveva il loro agire.
Il tema “Donne, guerra e resistenza” non si riferisce ad un soggetto politico femminile, ma definisce un contesto in cui si muove l’intero genere femminile. Se anche volessimo, e comunque sarebbe un po’ improprio, costruire un recinto, selezionare un gruppo di donne che diventa un soggetto politico dentro il movimento della Resistenza in Italia non potremmo comunque tacere il nodo della presenza delle donne nella guerra, non fosse altro perché è la guerra che in qualche modo determina anche le forme organizzative.
Contemporaneamente nell’adesione alla Resistenza c’è la questione della scelta che si configura in modo diverso per gli uomini e per le donne.
Dopo la nascita della Repubblica di Salò gli uomini sono costretti a scegliere perché vengono richiamati ufficialmente al servizio militare e per i disertori c’è la pena di morte.
Per le donne è diverso, potrebbero restarsene tranquillamente a casa e invece la loro è una scelta “non prevista” ed è una scelta che si dispiega nelle forme più diverse minando in profondità i rapporti dei fascisti e dei tedeschi con il tessuto della sopravvivenza quotidiana.
Al di là della scelta esplicita della militanza nella Resistenza, con o senza le armi, le donne si mobilitano in quella Resistenza civile che ha reso possibile il mantenimento di un minimo di identità collettiva nella disgregazione generale determinata dalle vicende politiche specificamente italiane.
Se la presenza della donne nella Resistenza è stata studiata solo dalla fine degli anni settanta, ancora non è stata messa del tutto in luce quella presenza minuta fatta di “virtù quotidiane”1 che le protagoniste hanno spesso vissuto come ovvia necessità, lontana da qualsiasi aurea di eroismo, anche se si sono trovate a correre gli stessi rischi degli uomini contravvenendo alle leggi della Repubblica di Salò.
C’è un terzo problema che va posto in premessa riguardo al tema. Se in questo caso il termine Resistenza ci rimanda direttamente all’esperienza della seconda guerra mondiale, il binomio donne-guerra resta come sfondo e si tratta di un binomio poco indagato, sul quale prevalgono immagini stereotipate che si ripetono uguali per tutte le guerre.
C’è quindi anche una questione di rappresentazione tradizionale del rapporto donne-guerra che fa ostacolo alla ricerca, tanto che sappiamo ancora pochissimo del vissuto femminile durante la prima guerra mondiale, rispetto alla quale si è consolidato il luogo comune che abbia contribuito all’emancipazione femminile.
In realtà ci restano nel primo dopoguerra i monumenti che restituiscono ogni sesso al proprio ruolo e la vasta produzione satirica che enfatizza le maschiette e le virago segnalando l’inquietudine dell’immaginario maschile.
Dopo la prima guerra mondiale le donne sono molto presenti nei monumenti che sorgono numerosissimi, (mi pare 30.000 solo in Francia) ricondotte al ruolo di vedova, madre, orfana inconsolabile o alla funzione allegorica di “vittoria”.
Questa è la figura della donna nella statuaria monumentale. Non è molto diverso dopo la seconda guerra mondiale: vengono ripresi e raffigurati temi che alludono ad una relazione tra i sessi assolutamente tradizionale.
Anche il monumento al partigiano, in piazza a Bergamo, ripropone la disperazione impotente della madre che alza le braccia verso il figlio ucciso.
Un modello che riconduce le donne al ruolo, per testimoniare un momento storico in cui le donne agirono invece proprio al di fuori dei ruoli tradizionali, inventando un protagonismo proprio o reinterpretando e modificando gli stessi ruoli tradizionali in funzione di nuove scelte.
Sono pochi i monumenti che raccontano la presenza delle donne, io conosco solo quello alle donne di Carrara che si opposero all’occupazione tedesca e quello alla partigiana uccisa, a Venezia, so che ha cominciato una ricerca in questa direzione una storica, Laura Mariani, ma i risultati non sono confortanti.

Aggiungo un altro problema di “contesto” per quanto riguarda il tema: quando termina la seconda guerra mondiale per le donne?
Ufficialmente sappiamo tutti quando finisce, ma in realtà nel ’95 a Pechino ancora viene posta la questione del risarcimento chiesto dalle donne coreane al Giappone.
Le truppe occupanti di tutti i paesi usavano le donne del paese occupato come prostitute. Il Giappone, durante la seconda guerra mondiale occupa la Corea e costringe molte donne a fare le prostitute per l’esercito giapponese. Le associazioni delle donne coreane hanno fatto una richiesta di risarcimento che è andata avanti per molti anni senza ottenere risultati perché il governo giapponese sosteneva che era stata una scelta volontaria da parte delle donne.
In realtà molte di queste donne andarono a fare le prostitute volontariamente per sostituire le figlie e gestirono questo scambio terribile salvaguardando la vita delle loro giovanissime ragazze.
Il governo giapponese in un primo momento propone di fare una colletta nel paese, le associazioni rifiutano e chiedono che l’intervento di risarcimento provenga direttamente dal bilancio statale, ribadendone quindi il significato politico.
La richiesta è stata poi accettata nel ’95 e a Pechino abbiamo la ricomposizione di questo conflitto fra le donne coreane e il governo giapponese. Quindi abbiamo una “lunga durata” della seconda guerra mondiale se la guardiamo dal punto di vista di queste donne.
A noi donne italiane potrebbero venire in mente le cosiddette “marocchinate” del 1944, le donne stuprate dalle truppe marocchine inquadrate nell’esercito francese sbarcate sul fronte del Garigliano.
Una storia poco conosciuta, probabilmente perché intacca l’immagine dei “liberatori”: le truppe alleate che sbarcano nel sud dell’Italia, nel basso Lazio dove passava la linea Gustav, vengono accolte festosamente dalla popolazione ignara, ma al calare della notte comincia la violenza che continuerà per tre giorni senza risparmiare nessuno, nemmeno il vecchio parroco che tentava di salvare i paramenti sacri.
Pareva allora, adesso se ne ha la certezza, che a queste truppe fosse stata data la possibilità di saccheggio purchè raggiungessero l’obiettivo militare. Sono state stuprate circa 60.000 donne, moltissime sono state uccise, alcune sono state bruciate vive. Di queste 60.000 donne non si è scritto neanche nei libri di storia. Subito dopo la guerra, sotto la spinta dell’UDI del basso Lazio, si fa un convegno al quale la forza pubblica proibisce di intervenire. C’è uno scontro fra forza pubblica e donne che vanno a questo convegno e chiedono il risarcimento. Ovviamente questo risarcimento non verrà mai dato. La cosa particolarmente efferata di questo episodio è che quasi tutte le giovani riescono a salvarsi perché scappano in collina, perché hanno le gambe buone; la maggioranza delle donne che vengono stuprate sono donne di una certa età o addirittura anziane o che in quel momento sono malate o incinte. Quasi tutte contraggono malattie veneree (e molte ne moriranno) per cui ci sarà una questione di ospedalizzazione di queste donne che vivranno la propria situazione come un’infamia.
A questo si aggiungerà, all’interno delle famiglie, la persecuzione dei mariti tornati dal fronte, che vivranno come un attacco al proprio onore l’oltraggio vissuto dalla moglie e resta questo ricordo indelebile nella memoria delle figlie.
Scrive Paola Masino nel 1951 che nei luoghi che videro questo stupro di massa “il governo francese ha messo un cippo commemorativo con la dicitura: ‘Qui era il cimitero della prima divisione libera francese i cui morti sono stati riuniti a Napoli’. A quando un cippo per le donne che i vivi della divisione ‘libera’ hanno ucciso autorizzati dal loro contratto d’ingaggio?”
Di grande interesse, per capire il clima politico dell’epoca, è anche l’intervento alla Camera di Maria Maddalena Rossi, allora deputata del P.C.I. e Presidente dell’Udi.2
Questi sono solo alcuni elementi per ricostruire, fuori dai luoghi comuni, lo scenario nel quale ci muoviamo per quanto riguarda donne-guerra-resistenza.
Uno scenario di per sé complesso, ma ulteriormente complicato, per quanto riguarda le donne, proprio dalla persistenza di stereotipi semplificanti.
Non è possibile scrivere la storia delle donne aggiungendo qualche figura femminile al disegno complessivo, non solo perché sarebbe un’operazione falsificante in termini quantitativi, ma soprattutto perché la questione del rapporto realtà-rappresentazione-narrazione deve spesso fare i conti con la ridondanza di immagini poco sostenuta dalla veridicità delle fonti o con la censura, rimozione, di vicende che modificherebbero il tradizionale racconto storiografico.

A tutti questi problemi ancora aperti si aggiunge il fatto, questa volta positivo, che per la prima volta abbiamo una generazione di storiche che può ricostruire la storia di donne che appartengono ad una generazione vicina, donne che sono ancora vive, che possono essere direttamente ascoltate.
Sottolineo questo fatto perché, per la prima volta, non si ripete quell’interruzione della memoria che è stato il dato costante della storia delle donne.
Le ragazze che si affacciano sulla scena della storia scegliendo la Resistenza non conoscono nulla del movimento emancipazionista, cancellato dalla politica violenta e totalitaria e dai limitati orizzonti culturali del ventennio fascista, ma anche dalla visione miope e sospettosa con cui il movimento operaio spesso guarda a movimenti non inquadrabili nella lotta di classe.
Lo racconta Velia Sacchi, una partigiana bergamasca, che ha cominciato la sua opposizione al regime fondando con un’amica, Mimma Quarti, l’Associazione femminile per la pace e la libertà, e ricorda che prendono ispirazione da Louise Michel, protagonista politica della Comune di Parigi, figura femminile conosciuta attraverso la lettura di un testo preso in biblioteca e sfuggito probabilmente alla censura fascista.3
E lo raccontano molte altre, oggi consapevoli di una smemoratezza che non è stata ininfluente sulle difficoltà, che loro stesse vivranno, di far accettare e rendere visibile la propria esperienza.
Non a caso fin dall’inizio la presenza delle donne nella resistenza al nazifascismo verrà circoscritta dalle parole ‘contributo e partecipazione’ che, come scrive Anna Bravo, “Sono concetti deboli rispetto alla ricchezza dell’esperienza, ma indicatori forti degli orientamenti storiografici. Contribuire o partecipare non equivalgono a fare e a far parte, anzi, marcano il divario fra appartenenza e convergenza momentanea, fra l’azione creativa e il suo contorno o supporto, che restano vaghi. Tanto vaghi che le medesime parole sono spesso usate estensivamente per abbracciare l’insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla resistenza.
Forse è così, le donne contribuiscono e partecipano, non fondano. Ma dipende in primo luogo dai confini e dai contenuti che si danno al termine resistenza.”4
Smemoratezza quindi, che dipende in gran parte dallo sguardo dello storico, dalle categorie utilizzate, dall’interpretazione delle fonti.
E certo non è un caso se questa smemoratezza s’interrompe per lo sguardo reciproco che si scambiano le ragazze della generazione del femminismo e le “ragazze” della resistenza, le prime alla ricerca del proprio diritto “ad essere nella storia e ad avere una storia”5, le seconde impazienti di uscire dalle immaginette agiografiche in cui sono state costrette e rese irriconoscibili.
Dei due libri a cui si fa simbolicamente risalire l’inizio della storia delle donne in Italia, uno è proprio La Resistenza taciuta di Annamaria Bruzzone e Rachele Farina pubblicato nel 19766 che non ci presenta solo la vita di dodici partigiane piemontesi, ma che afferma per la prima volta una verità che oggi a noi sembra ovvia, che le donne nella storia ci sono sempre, basta saperle cercare, basta uscire dai quadri concettuali che ingabbiano la ricerca.
Aveva già cominciato Franca Pieroni Bortolotti con le sue minuziose ricerche sull’associazionismo politico femminile, ma il fatto di precorrere i tempi non ha giocato a suo favore e la sua figura resta ancora oggi poco conosciuta dalle giovani, anche perché i suoi libri, così preziosi per la ricchezza di informazioni e le indicazioni di piste di ricerca, sono praticamente introvabili.
Ho avuto la fortuna di conoscerla a Milano, in occasione dell’inaugurazione del Centro ‘Sibilla Aleramo’, quando ero, ancora giovanissima, segretaria dell’Udi di Bergamo, e non ho mai dimenticato la sua affettuosa e pressante esortazione a studiare, a cercare la storia delle donne, soprattutto la storia politica.
Sui suoi libri ho letto per la prima volta nomi di donne importanti, storie ancora oggi sconosciute, come quella di Bertha von Suttner, scrittrice e conferenziera praghese che ha lottato tutta la vita per la pace ricevendo anche il Nobel nel 1905, o di Inessa Armand, l’intellettuale compagna di Lenin la cui influenza è decisiva per l’inizio della rivoluzione e soprattutto Anna Maria Mozzoni, donna straordinaria e figura fondamentale per la storia politica delle donne italiane, anticipatrice di idee e tematiche che verranno di nuovo alla luce solo con il femminismo degli anni ’70.
Una storia politica tutto sommato ancora sepolta, alla quale solo negli ultimi anni si comincia a rivolgere l’attenzione.
Non è un caso forse che la generazione del femminismo si sia rivolta inizialmente ad una storia più a carattere “antropologico”, all’indagine su quegli elementi costitutivi dell’identità femminile di cui si volevano scardinare le immagini tradizionali, sottovalutando forse quanto si giochi in termini di costruzione dell’identità proprio nella storia politica.
Ancora oggi, nonostante l’impegno, il rigore e la passione di storiche come Anna Bravo e molte altre, nonostante la fioritura di una memorialistica anche femminile, resta difficile far emergere la complessità del passato dalle narrazioni tradizionali a cui fanno da potente sostegno proprio gli stereotipi di genere.
Nella stessa categoria di ‘partecipazione’ delle donne, se da un lato c’è l’esclusione dal protagonismo, dall’assunzione in prima persona delle scelte, dall’altro c’è anche la persistenza di un’immagine di estraneità delle donne alla guerra che non ha riscontro nella realtà.
Se le donne non diventano nell’età contemporanea “cittadine in armi” per esplicito divieto della legge, pure nella loro maggioranza hanno lavorato per la guerra offrendo sempre il proprio sostegno materiale e morale a mariti, padri, fratelli, tollerandone o perfino incoraggiandone la violenza e proprio l’attribuzione di una sorta di “pacifismo biologico” alle donne contribuisce invece alla cancellazione di tutto l’attivismo pacifista femminile che ha saputo coraggiosamente esprimersi contro il senso comune bellicista anche nei momenti più bui della storia.
E del resto anche la resistenza civile, che certamente è una categoria storiografica in cui rientrano molte delle azioni delle donne, siano esse partigiane combattenti, militanti o donne comuni, non esclude iniziative anche violente.
La resistenza civile,7 intesa come lotta non armata che utilizza le strategie di sopravvivenza del quotidiano, la capacità di mantenere e manipolare i rapporti, le stesse ambiguità legate agli stereotipi del femminile, accanto al coraggio morale, alla creatività, alla forza d’animo, si esprime, da parte delle donne, come un maternage di massa nei confronti degli uomini, soprattutto dopo l’8 settembre, e questo maternage non esclude azioni violente come l’assalto a magazzini di viveri o le aggressioni nei confronti di esponenti fascisti.
Nella seconda edizione di una raccolta di testimonianze curata da Mirella Alloisio, Carla Capponi, Benedetta Galassi Beria e Milla Pastorino, si parla di “35.000 partigiane combattenti, 512 commissarie e comandanti, 4.653 arrestate, torturate e condannate, 623 cadute e fucilate, 2.750 deportate in Germania, 16 decorate di medaglia d’oro (di cui 12 alla memoria), 17 decorate di medaglia d’argento: che cosa aggiungere a queste cifre, così drammatiche e così significative?”8
Ancora molto se vogliamo riempire davvero quelle cifre di significato e per questo preziose sono state proprio le testimonianza, la cui raccolta ancora non è terminata.
A queste cifre, già di per sé eloquenti, dobbiamo poi aggiungere le 70.000 donne aderenti ai Gruppi di difesa della donna che costituiscono durante la Resistenza il primo nucleo di quell’associazione che poi diventerà, dopo la liberazione, l’Unione Donne Italiane, eppure proprio il prevalere di un’immagine della Resistenza come militanza armata, favorisce la cancellazione dell’operato delle donne.
E le stesse partigiane combattenti vengono spesso guardate con diffidenza in alcune formazioni e non vengono fatte sfilare nei cortei che, dopo il 25 aprile, presentano alle città liberate l’immagine gloriosa delle forze della resistenza.
“Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che ‘il vento del Sud’ portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta.
Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne. Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio non potè neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino.
‘Ma tu sei una donna!’ si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano, quando chiede spiegazione dei gradi riconosciuti soltanto ad altri.” leggiamo nell’introduzione del libro La Resistenza taciuta, e più avanti “In fondo anche per molti uomini di sinistra le partigiane combattenti avevano tradito la vocazione domestica. Quindi essi preferivano pensare che le donne avessero agito più per amor loro che per autonoma scelta politica. È certo comunque che gli uomini non erano molto disponibili a concedere alle donne riconoscimenti, cariche e poteri. (…)
Alla fine della lotta armata la stragrande maggioranza delle donne non si fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti. Molte, vedendo come avvenivano le assegnazioni, si astennero deliberatamente dal chiederle per non confondersi con i partigiani del 26 aprile. Anche per questo le statistiche che indicano la partecipazione femminile alla Resistenza sono così poco attendibili.” 9
Si tratta di quella posizione subalterna che già molte avevano colto con fastidio nel nome “Gruppi di difesa della donna e per l’aiuto ai combattenti della libertà” assegnato all’associazione che coordina e potenzia la miriade di attività che svolgono le donne nel tessuto quotidiano.
“Mi sembrava un ruolo da ‘ausiliarie’” mi dice Velia Sacchi10 che vi aderisce con tutta l’Associazione bergamasca convinta della necessità di stare in un’organizzazione più vasta per poter essere più incisiva.
L’insoddisfazione per il nome non impedisce però di fare dei Guppi di difesa un luogo privilegiato per combinare spontaneità e organizzazione politica, sede di mediazioni ancora tutte da indagare e comunque luogo di sperimentazione di un protagonismo politico che non si ferma alla contingenza della guerra, ma prefigura le attività del dopo.
Scrive Anna Bravo nell’introduzione alla raccolta di documenti dei Gruppi di difesa, realizzata per il cinquantenario della nascita dell’Udi: “Per il dopo ci si candida, più che alla grande politica, all’attività negli istituti di ‘democrazia diretta’ che si sperano durevoli, giunte e Cln, comitati di base, libero associazionismo. È un’idea alta e sostanziale della partecipazione, cui si accompagna una sottolineatura decisa delle competenze femminili in campo sociale e assistenziale, secondo una linea che ha radici nobili nell’ottocento, quando l’ingresso delle donne nella sfera pubblica si realizza in nome delle attitudini materne e attraverso l’organizzazione della beneficenza e delle campagne per l’igiene e contro la miseria. Ora si pensa, oltre che all’assistenza, a un impegno nelle commissioni annonarie e nell’epurazione – ancora una volta terreni cruciali per la vita della collettività, per la tenuta del suo sistema di relazioni, per una prospettiva di maggiore giustizia.
Si tratta, implicitamente, di una divisione dei ruoli politici in cui alle donne vengono dati in carica il sociale e la dimensione locale, agli uomini l’esercizio del potere e le strategie per conquistarlo. Ma è anche uno sforzo per trasformare in compito politicamente riconosciuto l’autorità informale nella vita comunitaria che una lunga tradizione attribuiva alle donne; così come la scelta, evidente in questi documenti, di usare definizioni professionali (informatrice, collegatrice, portaordini, infermiera) per i compiti femminili nella Resistenza, aveva corrisposto probabilmente al desiderio di superare l’immagine indistinta della donna che aiuta, dà una mano, si presta, fa – per usare i termini con cui ancora oggi qualcuno parla dell’opera femminile.”11
Se poco spazio ha trovato nella ricostruzione storica questa diffusa presenza femminile è necessario però stare attente a non ricordarla solo per l’oscurità in cui è stata confinata, a non cadere nella trappola di ricostruire questa storia solo a partire dall’emarginazione, dalla cancellazione, dall’oppressione stessa delle donne.
Manca infatti anche una storia delle dirigenti, delle donne che sono state in Parlamento, iscritte a un partito, mantenendo però un legame profondo con le associazioni femminili di cui portano le istanze, facendosi promotrici di proposte di legge e di iniziative istituzionali.
Di molte di queste donne, come di tutte quelle che sfidano le ideologie sul femminile mischiandosi agli uomini nelle formazioni, prendendo le armi, resta una memoria labile quando non fissata nello stereotipo del ‘cattivo carattere’.
È il caso di Teresa Noce, di cui si dimentica la coraggiosa militanza antifascista, la deportazione, l’impegno parlamentare,12 di Elsa Oliva che viene ricordata come una donna fin troppo energica: nel suo primo libro racconta con naturalezza la scelta della resistenza ‘armata’,13 e sarà ancora lei, solo alla fine della sua vita, a consegnarci un’immagine di una femminilità più complessa, di un’identità che cerca spazi di crescita, certamente meno facilmente catalogabile.14
Ed è così per molte altre, tanto che, sia nella finzione narrativa che in quella cinematografica, è difficile incontrare quella figura di partigiana giovane, alla ricerca della libertà e di se stessa, capace di un esercizio della cittadinanza che prefigura diritti che saranno acquisiti solo più tardi, che possiamo riconoscere nei numerosi racconti autobiografici.
Quelle ‘Volontarie della libertà’ di cui raccontano Mirella Alloisio e Giuliana Beltrami, che pure sarebbero soggetti interessanti per qualche bel film d’azione, continuano a restare sconosciute, escluse dall’immaginario collettivo, inaccessibili per la memoria delle giovani generazioni di donne.
Continua ad agire invece, anche se meno esplicitamente di un tempo, l’immaginario che dipinge le partigiane come donne equivoche, sessualmente libere, immaginario presente nel contesto stesso della resistenza come leggiamo nella testimonianza di Alba Dell’Acqua, raccolta da Alloisio e Beltrami, che dopo aver raccontato le peripezie tra un rastrellamento e l’altro arriva finalmente con i suoi compagni ad una formazione partigiana e si sente interrogare a bruciapelo dal comandante che le chiede: “Ma tu sei qui per fare la partigiana o per fare la puttana?”15
Un immaginario che segna dolorosamente anche l’esperienza delle donne deportate, che al ritorno dai campi di concentramento e di sterminio trovano generalmente indifferenza e incomprensione, a cui spesso si aggiungono diffidenza e forme varie di emarginazione e persecuzione.
La visione eroica e guerriera con cui viene accreditata nel dopoguerra l’immagine della resistenza favorirà la messa in secondo piano, sullo sfondo, quando non la dimenticanza, dei deportati e degli internati militari, figure inermi a cui si uniscono le donne, quasi a prosecuzione di quella politica di femminilizzazione del nemico che fu propria della propaganda fascista e nazista.
Le donne deportate, le politiche come le ebree, patiranno al ritorno gli stessi oltraggiosi sospetti come raccontano Settimia Spizzichino, unica donna dei 17 ebrei romani sopravvissuti dei 1041 deportati ad Auschwitz, che solo poco prima di morire scriverà la sua esperienza terribile di sopravvissuta agli esperimenti di Mengele; Elsa Levi 16, Lidia Beccaria Rolfi che scrive la sua testimonianza sul ritorno dalla Germania17 quasi vent’anni dopo la pubblicazione di quel suo primo libro, fondamentale per cominciare lo studio della deportazione politica femminile, che è ‘Le donne di Ravensbrück’18, Liana Millu che nello straordinario romanzo ‘I ponti di Schwerin’19, ancora pochissimo conosciuto, riesce a restituirci i nessi che legano il prima e dopo Auschwitz al tessuto quotidiano delle ipocrisie piccole e grandi, delle piccole-grandi connivenze e complicità, aiutandoci a capire come il lager non sia prodotto estraneo e incomprensibile, ma frutto di quella diffusa “banalità del male”20 che ha segnato, e forse ancora segna, il senso comune e le forme della convivenza.
L’orgoglio militare, l’enfasi posta sulle azioni di combattimento, l’autocelebrazione che segneranno purtroppo l’immagine della resistenza nel dopoguerra trovano nelle memorie della deportazione una critica radicale che mette in discussione non solo il senso della storia, i rischi connessi ad una ricostruzione storica che guarda solo agli eserciti e sul modello armato costruisce la figura dell’eroe, ma con il loro racconto piano, scabro, senza enfasi, intaccano il fondamento stesso della cittadinanza ereditato dalla rivoluzione francese.
Se le armi sono il fondamento della cittadinanza infatti, la convivenza è sempre in pericolo.
Nella deportazione l’eroismo è sopravvivere, conservare la propria dignita, ma anche saper raccontare dove, come, quando e perché si perde questa dignità, il senso del proprio essere umani e come faticosamente si riacquista e ci si interroga e si trovano poi i fondamenti più veri del vivere civile.
C’è in questi racconti un modello di opposizione che non si esprime in gesti eclatanti, ma prima di tutto nel coraggio morale che sgretola fino in fondo quel modo di essere, di esistere, proposto dalla cultura nazifascista che ha avvelenato le radici stesse della convivenza in Europa.
Ci sono voluti cinquant’anni per dire che la guerra non si combatte solo con le armi, ma ancora poco si è discusso sul modello di cittadinanza uscito dalla resistenza e proprio l’esperienza della deportazione in generale e della deportazione femminile possono darci indicazioni preziose per il nostro futuro.
Concludendo il primo convegno sulla deportazione femminile, nel 1994, (e l’anno è eloquente di per sé) Lidia Beccaria Rolfi ricorda l’attesa della realizzazione di un convegno come quello: “(…) l’ho sperato fin dal mio ritorno, quando la gente mi guardava con sospetto (…)Erano anni tremendi, quando bastava cercare di raccontare qualcosa, squarciare il velo dell’oblio sui massacri dei fascisti e dei nazisti, per sentirsi rispondere, soprattutto nella scuola, che non era vero niente, che era tutta propaganda comunista”, e più avanti ricorda il primo libro dell’Aned “Donne e bambini nei lager tedeschi, di Giorgina Bellak e Gianni Melodia: un libro che non arrivò mai nelle librerie, ma che ancora oggi costituisce una testimonianza importante delle donne italiane deportate. Quel libro costituì per anni l’unica voce al femminile, nell’abbondante produzione letteraria maschile che poteva contare su scrittori di straordinario talento come Primo Levi, o sulle storie autobiografiche di Caleffi, Fergnani, De Martino, Bizzarri, Valenzano. Dei libri di Giuliana Tedeschi, di Luciana Nissim, di Teresa Noce non si parlò: caddero nel più totale silenzio. Erano libri di donne.”21
Credo che se anche volessimo distinguere, e non è sempre facile né legittimo, la memorialistica pura da testi con un autonomo valore anche letterario, troveremmo che le donne ci sono, valga per tutte Liana Millu, una grande scrittrice, le cui opere sono edite in molti paesi, ma che resta sconosciuta ai più in Italia e mai citata nei testi scolastici (almeno quelli che io conosco).
Credo sia la prima scrittrice in Italia a parlare di stupro associandolo non solo alla guerra, ma anche al modello vigente di sessualità maschile, ma i suoi testi richiederebbero da soli più di una lezione.
E sempre alla fine del convegno in coda ai ringraziamenti con la limpida coscienza che l’ha caratterizzata per tutta la vita Lidia Beccaria Rolfi dice: “Non posso dire grazie ai giornalisti, perché in questi due giorni non ce ne sono stati, o se c’erano non hanno ritenuto l’argomento sufficientemente interessante da essere ripreso e commentato sui loro giornali. Avrebbero raccontato solo la storia delle donne deportate, di neonati e di bambini e, si sa, la storia vera la fanno gli uomini, è destinata agli uomini. Donne e bambini sono soltanto un incidente di percorso, non hanno volto e non hanno nomi, vanno bene solo a completare i quadri dell’orrore con le loro manine alzate, il numero sul braccio e gli occhi da animali feriti.”
E conclude invitando a continuare la ricerca, a portare alla luce questa parte di storia sconosciuta. Storia sconosciuta delle deportate, delle resistenti, delle donne più in generale.
Se non si hanno in Italia dissociazioni ufficiali dalla politica razzista e nessuna istituzione si oppone alla deportazione degli ebrei, fatto che di per sé contesta profondamente il mito nazionale degli ‘italiani brava gente’, abbiamo però prese di posizione individuali, reti di solidarietà che si attivano testimoniando una capacità di opposizione non violenta ma concretamente fattiva che raggiunge l’obiettivo della salvezza di vite umane.
Sono comportamenti estranei alla lotta armata, ma che non possono essere spiegati solo con la pietà che diventa una categoria riduttiva e fuorviante soprattutto applicata alle donne.
In realtà nella guerra donne e uomini sperimentano comportamenti, modi di essere, che mescolano e confondono i caratteri tradizionalmente attribuiti ai due sessi, i ragazzi e le ragazze che vivono le stesse esperienze si scoprono più uguali che diversi e saranno proprio le donne ad utilizzare ampiamente gli stereotipi sul femminile come arma contro il nemico, utilizzando la propria supposta fragilità, i ruoli tradizionali di madre o figlia, la seduzione, la tenerezza, la pietà per mettere a punto azioni pericolose, trasportare armi e informazioni, preparare agguati, proteggere persone.
L’uso di un doppio registro di comunicazione ci parla di una consapevolezza già acquisita che nel frangente della guerra trova modo di esprimersi compiutamente.
Nell’immaginario costruito dal cinema e dalla letteratura nel dopoguerra, di tutte queste ragazze restano poche icone che non le rappresentano appieno, l’indimenticabile Anna Magnani in Roma città aperta22, che ricorda l’episodio realmente accaduto dell’uccisione di Teresa Gullace; una ragazza ebrea che tradisce e si riscatta alla fine attraverso l’amore per un uomo, nel film Kapò23; una donna senza attrattive, già vecchia, senza cultura, materna è la partigiana ideale, protagonista dell’Agnese va a morire,24 male restituita, tra l’altro, nel film omonimo, da un’attrice come Ingrid Thulin che poco assomiglia ad una contadina (e inviterei a rivedere la morte di Agnese nel film che sembra una brutta citazione della morte di Anna Magnani, che ha invece almeno tutta l’intensità di un neorealismo costruito a ridosso degli avvenimenti stessi).
A fronte di una vasta produzione letteraria maschile che si misura, anche in forma autobiografica, con i temi della guerra e della resistenza e raggiunge notorietà presso il grande pubblico, gli scritti delle donne sono relegati nella categoria della memorialistica minore, rifiutati dalle case editrici, come accade in generale anche agli scritti sulla deportazione (non possiamo dimenticare Primo Levi), e non è certo un caso che venga legittimato da un grande successo proprio L’Agnese va a morire, il libro che presenta un’immagine della partigiana che non mette in discussione i ruoli tradizionali che vogliono ben saldi quegli uomini che pure dichiarano di volere edificare una nuova Italia.
A questo proposito credo non abbia bisogno di commento la presentazione di Vassalli all’edizione Einaudi dell’88: “Agnese quanto più si annulla come personaggio per accumulazione di virtù negative, semplicità, umiltà, abnegazione, ecc. vive in un grande fatto storico, annullandosi come donna, diventando donna senza qualità, Agnese esce in pratica dalla realtà per diventare incarnazione di un mito destinato a compiersi con la sua morte…” e poi più avanti parla di “una consapevolezza maturata da Agnese per un processo più biologico che logico”. E più avanti ancora “Agnese non è quasi nulla, è una pura forma sacrale è la costruzione di un mito, è una grande madre in qualche modo”.25
E forse non è un caso che siano meno conosciuti altri scritti di Renata Viganò, come ad esempio il bel racconto26 in cui contesta con bonaria ironia il valore simbolico delle gerarchie militari che invece non dispiacciono a molti uomini della resistenza.
Non è facile narrare e certo il racconto e la scrittura mantengono una continua tensione tra gli eventi del passato e le forme del presente.
Non sono ininfluenti i modelli narrativi in cui s’incrociano repertori popolari, famigliari, locali, politici, di propaganda e in cui persistono stereotipi di vario tipo soprattutto sessisti.
La memoria biografica spesso non ha una lingua adeguata a disposizione per raccontarsi, spesso avverte che il pubblico non è in grado di accogliere certe verità, così ad esempio abbiamo nel racconto del rapporto con le armi, da parte delle donne, tranne pochi casi, come quello di Elsa Oliva, una sorta di camuffamento, di presa di distanza, non sappiamo quanto reale.27
Le armi nascoste spesso nella borsa della spesa, nella carrozzina di un bimbo, richiamano comunque alla realtà dell’uccisione, della violenza, temi che le donne sembrano affrontare con difficoltà perché propongono una sorta di “snaturamento” dell’immagine femminile, una trasgressione che potrebbe non essere perdonata.
Sono memorie difficili da raccontare, ma anche difficili da ascoltare. Ho intervistato recentemente Mirka Polizzi che nella resistenza ha il grado di capitano ed è una figura leggendaria in Emilia Romagna, ed anche lei dice: ”si, avevo una pistola, ma non sapevo sparare ed è l’unica cosa di cui si lamentavano perché poi mi consideravano bravissima in tutto”.
Quello di cui un uomo può vantarsi come atto eroico determina diffidenza nei confronti di una donna ed è solo la scrittrice Marguerite Duras ad affrontare coraggiosamente il racconto, in forma autobiografica, di una tortura inflitta da una donna ad un fascista, racconto non a caso pubblicato accanto all’esperienza di massima cura nei confronti del corpo inerme e devastato del proprio compagno tornato dal campo di prigionia.28
Restano vincenti a lungo invece le immagini della donna inerme e sottomessa e in questo senso andrebbe analizzato il successo di un libro come ‘La storia’ di Elsa Morante29, in cui l’immagine femminile di Ida Ramundo è il simbolo stesso della vittima assoluta.
E non è forse un caso che rimanga in ombra il libro ‘Dalla parte di lei’ di una scrittrice di successo come Alba De Céspedes30, ripubblicato alcuni anni fa su sollecitazione di alcune scrittrici.
La protagonista si accorge dopo la resistenza di qualcosa che la separa dai compagni, dal proprio compagno di vita: “Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di una lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati.
Così intimidita spesso rimanevo in un canto, tacendo. Francesco, preso nei suoi discorsi e nel circolo di simpatia che si formava intorno a lui, talvolta, durante tutta la serata mi si rivolgeva soltanto per chiedere: ‘Vuoi darci un po’ di limonata, cara, per piacere?’”.31
Così attraverso la dissociazione tra realtà vissuta e possibilità di saperla reale nella narrazione collettiva, la protagonista scivola verso una sorta di follia lucida che le farà compiere un gesto irreparabile.
Un romanzo in cui c’è troppo, e forse questo presenta qualche problema sul piano letterario, ma questo ‘troppo’ è proprio il vissuto che non riesce a trovare parola, delle donne nel dopoguerra.
C’è nel romanzo il rapporto con le generazioni precedenti, la madre e la nonna che sono modelli tradizionali, da cui la protagonista si separa mettendo in scena anche quel mito dell’autogenerazione, dell’essere figlie di se stesse e delle proprie scelte che percorre spesso le culture ed esperienze giovanili e che nel caso delle donne ha però contribuito anche a rendere invisibile il patrimonio trasmesso tra le generazioni, interrompendo la memoria e soprattutto la memoria politica.
Anche nel racconto tradizionale della resistenza le donne sono madri, mogli, figlie, sorelle di uomini, viene sottolineata la mediazione maschile come facilitatore per l’ingresso nella lotta di liberazione, restano in ombra le genealogie femminili, il valore di un certo modello materno, il fascino di figure femminili più grandi e autorevoli.
Sempre Mirka Polizzi racconta che, pur essendo di famiglia antifascista si avvicina alla militanza per il fascino che esercita su di lei Lucia Sarzi (la leggendaria staffetta dei fratelli Cervi) una donna libera, un’attrice, che parla di politica alla pari con gli uomini della sua famiglia.
Anche Lidia Menapace, che fa la staffetta a Novara e frequenta l’Università Cattolica, ricorderà molti anni più tardi quanto abbia contato nella sua formazione l’insegnamento materno e affermerà di aver capito solo con il femminismo il significato della definizione che sua madre dava di sé dicendo ‘ero una ragazza emancipata’. Tra la madre ‘emancipata’ e Lidia che si dichiara una ‘ragazza antifascista’ c’è la perdita di una storia politica cancellata dagli anni del regime che solo più tardi ritroverà visibilità di parola, ma che da subito si traduce in quel passaggio muto ma eloquente dei gesti che è stata la forma più tenace di trasmissione tra donne.
Se nel racconto della resistenza abbiamo una ridondanza del codice materno della cura, della protezione, per quanto riguarda le donne, che mette in ombra la dimensione propria di ricerca, di crescita, di affermazione di sé e dei propri diritti da parte delle giovani, proprio questo tipo di narrazione tende ad enfatizzare l’eccezionalità del momento che determina comportamenti eccezionali, l’uscita dalla normalità, che riguarda invece il prima e soprattutto il dopo quando il ritorno alla pace e alla normalità vuole essere per molti anche il ritorno a quella cultura tradizionale, soprattutto nelle relazioni tra i sessi e nel modo di vivere delle donne, che è stata in sintonia con il nazifascismo.
Se è vero che, soprattutto le donne italiane, dopo l’8 settembre, praticarono un “maternage” di massa proteggendo i ‘poveri soldatini’ in fuga, rivestendoli, nascondendoli, accompagnandoli in montagna o al confine, che furono soprattutto le donne ad occuparsi del reperimento dei viveri, scarsi, del riadattamento degli abiti, del mantenimento delle relazioni famigliari e amicali, fecero spesso tutto questo con una crescente consapevolezza politica, andando contro le leggi vigenti, facendo appello a codici morali e ad un senso della propria responsabilità che portano impliciti riferimenti ad un’idea della cittadinanza che ancora non è stata scritta proprio a causa della loro esclusione.
Un’azione di così vasta portata non può certo essere ascritta solo alla contingenza del momento.
Viene spesso accreditata l’immagine della guerra come momento a sé, che non ha legami col tempo di pace, che non ha precedenti, come se i comportamenti fossero dettati sempre e solo dall’emergenza, come se non ci fosse stato, prima, un lungo ventennio fascista che ha visto anche una coraggiosa opposizione e non solo maschile.
Sono invece tante le ‘donne in oggetto’32 inquisite, denunciate, arrestate, processate, incarcerate, finite davanti al Tribunale speciale, di cui ci parla Giovanni De Luna, donne il cui antifascismo non ha sempre e necessariamente una matrice o un’ascendenza politica, ma nasce spesso dall’insofferenza esistenziale per la realtà ipocrita, gretta, meschina in cui il conformismo e l’opportunismo della maggioranza rappresentano il sostegno più forte al regime.
Ci sono storie di famiglie comuni come quella dei Marturano33 in cui la figura della madre, condannata al confino, fa da guida ideale a tutti i figli, o di donne come Maria Massariello Arata,34 insegnante del Liceo Carducci di Milano, deportata a Ravensbrück, che scrive le sue memorie solo prima di morire per un male incurabile, e molte altre di cui varrebbe la pena seguire passo passo la vicenda biografica perché forse l’unico modo che abbiamo per capire davvero la Storia è quello di ascoltare le storie nella loro semplicità e singolarità, di seguire le fonti per la loro specificità rinunciando, almeno per qualche tempo, alle grandi sintesi storiografiche, “considerando come una straordinaria opportunità conoscitiva la contradditorietà delle vicende individuali” cercando, sempre come dice De Luna “di coglierne la ‘risultante’ ultima; ed è proprio questa ‘risultante’ nel senso attribuitole dalla fisica quella che alla fine ci restituisce le identità collettive”. 35
Noi questa sera abbiamo in realtà solo accennato a qualche storia particolare, tracciando alcune piste per cominciare a porre “le domande giuste”, per capire le donne che ancora stanno ingabbiate in un’ìdentità collettiva costruita su pochi tratti stereotipati.
Ma per capire il rapporto donne-guerra-resistenza non possiamo dimenticare le donne di Salò, le cosiddette ausiliarie.
Anche qui solo alcuni cenni, una pista di ricerca, perché sappiamo poco delle donne del regime, di come sono finite le fasciste della prima ora, delle motivazioni che spingono una donna a sostenere un regime così visibilmente maschilista.
Chi sono queste queste 6.000 donne, che si arruolano come volontarie nella repubblica di Salò? 300 verranno poi uccise e faranno una fine orrenda.
Sappiamo poco di queste donne, sappiamo che nel dopoguerra il trattamento loro riservato conosce un di più di violenza che attiene proprio al loro essere donne.
Quando non vengono torturate, violentate, trucidate, queste donne vengono rasate, marchiate fatte sfilare, messe alla gogna, indicate al pubblico disprezzo. Spesso, come nel caso di molte ‘german girls’ in Danimarca, per il solo fatto di aver amoreggiato con qualche tedesco. E inviterei a vedere il film di Alain Resnais ‘Hiroshima mon amour’36 che affronta bene i nodi della guerra e del dopoguerra da questo punto di vista, così come aveva fatto per i campi di sterminio con ‘Notte e nebbia’37
Ragazze che hanno avuto a che fare con il regime, qualche volta anche solo perché erano impiegate comunali, spesso nel dopoguerra hanno subito un’ingiuria che andava oltre la loro idea politica, che magari non avevano nemmeno. Conosco una donna che era semplicemente un’impiegata brusca, probabilmente antipatica a molti, che fu raggiunta nella casa dove si era rifugiata per essere rasata, da uomini che forse non avevano molto a che fare con la lotta di liberazione.
Cosa c’è in comune fra donne che scelgono la resistenza e donne che scelgono la repubblica di Salò? Pochissimo, eppure, spesso, in comune c’è la sorte a cui queste donne vanno incontro ad opera del nemico. Le partigiane se sono prese dai tedeschi o dai repubblichini vengono oltraggiate, subiscono violenza sessuale. Marisa Ombra che è una delle fondatrici dell’Udi ed era staffetta partigiana dice: “noi sapevamo, non ce lo dicevamo fra di noi, ma sapevamo che se venivamo prese correvamo quel rischio”. La stessa cosa però è per le donne di Salò.
Questo ci dice qualcosa sul di più e sul diverso che comunque costruisce ancora l’immaginario maschile rispetto alle donne, immaginario e pratiche conseguenti che sembrano trasversali alle ideologie, agli schieramenti. Al nemico viene fatto pagare un prezzo, alla donna nemica il prezzo viene raddoppiato perché in qualche modo attraverso il suo corpo si procura un’offesa al patrimonio del nemico.
L’idea di fondo è quella delle donne come proprietà ed è un’idea che abbiamo visto purtroppo ampiamente praticata anche nelle guerre più recenti.
C’è un bel racconto di Sandra Petrignani38 che parla della storia di una donne che vende i partigiani ai tedeschi, compreso il fratello e il padre, per vendicarsi delle tante angherie subite dalla famiglia e della maldicenza dell’intero paese.
Non lo racconto, è una di quelle storie difficili, forse una storia vera, che vale la pena conoscere per ampliare quelle piste di ricerca che ci permettono di capire, perché il passato soprattutto quando è stato dimenticato, non è mai del tutto confinato nel ‘là e allora’, ma c’è sempre una parte ancora presente e operante nel ‘qui ed ora’.
Claudia Koonz scrive, sulle donne del Terzo Reich, un libro39 che viene tradotto in Italia nel 1994 di cui vi invito a leggere la prefazione. Sostiene che le donne italiane non vennero mai completamente mobilitate dal fascismo, le donne italiane furono mobilitate molto più dalla chiesa, mentre le donne tedesche sono state mobilitate dal regime e spesso hanno fatto anche carriera in prima persona. Sono donne, dice Koonz, che non vogliono avere nulla a che fare con il movimento emancipazionista, ma approfittano delle conquiste delle donne per avere una posizione. Claudia Koonz le paragona alle donne della destra italiana che si presentano sulla scena politica nel ’94. Non so se il suo sia un paragone troppo azzardato ma certo fa riflettere. Una donna come Leni Riefenstahl, una delle grandi registe del ‘900, dichiarerà di aver lavorato per il regime semplicemente perché Hitler le ha offerto la possibilità di lavorare e questo non ha niente a che fare con la politica.
Io mi chiedo: quanto ha contribuito un film straordinario come ‘Il trionfo della volontà’40 ad accreditare l’immagine di Hitler come salvatore della patria, l’uomo giusto per guidare la nazione tedesca?
Penso che senza il consenso e la complicità di molti non sarebbero praticabili i crimini di pochi e la parola innocenza va usata con molta attenzione.

Dalla fine della guerra alla diffusione dei primi testi sull’esperienza della resistenza e della deportazione femminile, passano vent’anni, e altri vent’anni prima che appaiano ricerche approfondite in più direzioni e una nuova ricchezza memorialistica e ancora dieci prima che se ne parli finalmente a scuola e non solo da parte di pochi e poche ‘resistenti’.
La strada da fare è ancora molta e noi l’abbiamo solo cominciata.
Dobbiamo però sapere che se non c’è una domanda del presente è difficile che il passato venga conosciuto. Il passato di per sé non può trasmettere memoria e questo le donne della resistenza lo hanno vissuto e questo credo è un vissuto anche della mia generazione rispetto alla memoria del femminismo. Se non c’è una domanda delle giovani generazioni la memoria è muta, non può esprimersi. E’ muta sia perché senza la domanda molte donne non trovano la motivazione a raccontare la propria storia, ma anche perché quando le donne raccontano, se non c’è un terreno accogliente è una parola al vento, una parola scritta sulla sabbia.
Vale anche per questa storia quello che dice Riane Eisler riferendosi all’autorevolezza delle nuove ricerche archologiche: “questa mole davvero ingente di nuove conoscenze su millenni di storia umana contraddice a tal punto tutto quanto ci è stato insegnato, che nelle nostre menti essa s’imprime come un Messaggio scritto sulla sabbia. La nuova conoscenza può resistere un giorno, o forse per una settimana. Ma implacabilmente la forza di un insegnamento di secoli lavora per scalzarla, finchè quel che rimane è soltanto la fugace impressione di un’epoca di grande eccitazione e speranza.”41
Pur sapendo che la storia, ogni storia, si costruisce necessariamente sul rapporto tra memoria e oblio, dobbiamo sapere che questo rapporto non è mai neutro e il sapere non è mai innocente.
Se la storia è in fondo un modo per mantenere aperto il dialogo con i morti, con chi è venuto prima di noi, con un’eredità che noi possiamo accogliere o rifiutare, oggi noi viviamo l’esperienza di una storia che è anche rapporto con i ‘vivi’, l’uso della fonte orale introdotta proprio dalla storia del ‘900 e resa possibile anche da tutti i nuovi mezzi tecnologici, richiede nuove inedite attenzioni etiche e storiografiche.
Nessuna fonte è tale finchè non la si interroga, come ci hanno insegnato tutti i grandi storici, neanche le fonti documentarie sono fonti finché non le si interroga e la stessa fonte documentaria può essere interrogata in modo diverso e dire cose diverse a storici diversi.
Però certamente la fonte orale è una fonte che si costruisce solo nel rapporto con chi interroga: non esiste la possibilità di fare una intervista neutra ed è importante il come e il quando e il perché ci si rivolge a un testimone, ma soprattutto è importante quale testimone.
Anche rispetto a questo voglio ripetere un’ovvietà: le donne ci sono sempre, basta saperle vedere, basta saperle ascoltare.
La storia delle donne che hanno vissuto la seconda guerra mondiale, che hanno scelto la Resistenza non arriva sui libri di storia, eppure da tutto quell’insieme di esperienze, pur così diverse, pur nel clima di chiusura, e quasi di ritorno indietro, del primo dopoguerra fino agli anni ’50, si forma comunque una generazione di madri che spingono le figlie a studiare, a raggiungere una carriera lavorativa, a rendersi autonome ed è questo il nesso che andrebbe studiato quando si parla del femminismo, la cui origine viene troppo facilmente e superficialmente ascritta alla rivolta giovanile del ’68.
Io sono convinta invece che la mia generazione debba proprio a quel tipo di madre, con cui abbiamo litigato, con cui ci siamo scontrate, se ha potuto avere gli strumenti per guardare dietro di sé e cercare anche nel passato le tracce di percorsi che potevano essere aperti nel futuro.
Facendo tesoro di quell’esprienza, spero che la mia generazione di donne possa fare di più e di meglio per le generazioni di ragazze e ragazzi che cominciano ora a progettare il futuro.

Domanda:
Perché non hai citato una grande come Ada Gobetti?
Risposta:
Perché il tempo a disposizione è poco e Ada Gobetti merita un’intera serata per il suo ‘Diario partigiano’, per le sue lettere, ma soprattutto per l’originalità della sua attività politica intrisa di profonda cultura, di coraggio morale e anche di gioia di vivere.
Non possiamo dimenticare il suo Giornale dei genitori, la sua esperienza nell’Udi, nell’organizzazione delle colonie per i bambini, nell’antifascismo, nella resistenza e poi come vicesindaco nella Torino dell’immediato dopoguerra…
Davvero lei, come molte delle donne che ho semplicemente citato, meriterebbero un’attenzione più approfondita da parte di tutti, e soprattutto della scuola.
In fondo questa sera non ho potuto parlare che per cenni, evocazioni, forse emozioni, ma il lavoro da fare resta ancora molto.

 

DONNE, GUERRA, RESISTENZA

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CARTE PER LA MEMORIA: L’UDI E IL MOVIMENTO FEMMINISTA A BERGAMO NELLE CARTE DELL’ISREC

Archivio dell’UDI e Fondo Lastrea
Come nasce un archivio?
Quelli delle donne hanno storie molto diverse dagli archivi tradizionali e molto diverse tra loro, anche se possiamo rintracciare alcune caratteristiche comuni per “generazioni politiche”.
Ptremmo perciò parlare davvero di “storie d’archivio” prendendo a prestito il titolo di un bel saggio di Natalie Zemon Davis.42
La presentazione dell’Archivio dell’Udi e dei collettivi di Bergamo chiude una storia cominciata per me vent’anni fa, che quindi in parte è anche la mia storia e forse proprio per questo tra la fine del riordino dell’archivio e la sua presentazione pubblica oggi sono trascorsi ancora molti anni.
Ho cominciato a pensare a un archivio quando sono entrata la prima volta all’Udi: la sede provinciale di Bergamo consisteva in due microstanze dentro la sede dell’Arci, di cui potevamo usufruire, per le riunioni, anche di una sala discretamente grande.
Ero tornata, carica d’entusiasmo, dal X Congresso nazionale al quale ero stata invitata come femminista, ‘non iscritta’, perché quello fu appunto il Congresso dell’apertura al femminismo e della sperimentazione di parole e forme politiche nuove.
Di quell’esperienza ricordo lo slogan “La mia coscienza di donna in un grande movimento organizzato per cambiare la nostra vita”; i gruppi di discussione tumultuosi, in cui si parlava e si ascoltava mescolando, più o meno creativamente, autocoscienza, analisi politica, racconto autobiografico e cronaca; l’arrivo di Camilla Ravera, piccola, vecchissima (così mi sembrò) che passava solenne tra due ali di giovani donne festanti, la presenza di donne più vecchie di me, della generazione di mia madre, tra cui alcune di cui avevo letto su libri e giornali; il grande girotondo finale che non si sarebbe mai più ripetuto nella mia vita così spensierato e incosciente.
La sede di Bergamo non corrispondeva certo all’immagine del Congresso, ma la delusione maggiore fu proprio la mancanza di un archivio. Dov’erano le donne che avevano costruito l’Udi a Bergamo?
L’attività frenetica dei quattro anni successivi che ci portarono a quell’XI Congresso che segnò la svolta politica dell’Udi, accantonò la questione archivio: mi limitavo a riempire casa mia di cartelline ordinate, ma in sede non c’era tempo nemmeno per tenere un archivio corrente, figuriamoci una ricerca sulla storia precedente.
Nel frattempo ero diventata anche segretaria provinciale e l’attività politica mi assorbiva completamente, attività in cui non mancava l’attenzione alla storia delle donne, allora agli inizi in Italia, ma eravamo così occupate ad ‘essere nella storia’ che la percezione del tempo era interamente sul presente, tanto che molti volantini portano la data senza citare l’anno.
Riordinare era difficile: nella primavera del 1981, in piena campagna referendaria per la difesa della 194, ho partorito il mio primo figlio, mentre alcune compagne facevano il trasloco dell’Udi in una sede autonoma; scrivevo lettere e volantini a casa mia e andavo a “tenere dibattiti” prima con la pancia e poi con il bambino nella cesta, mentre la sede dell’Udi era il centro di smistamento delle iniziative e della stampa; era appena finito il referendum e cominciavamo la mobilitazione per il Congresso che si tenne nella primavera del 1982.
Del resto non potevamo pensare alle carte, proprio perché il nostro tempo era occupato dalla politica e ogni tanto penso che l’interesse attuale per gli archivi nasce anche dalla difficoltà di ritrovare nelle nostre vite il senso della politica.
Dopo l’XI Congresso tutto era da reinventare, in un clima che cominciava ad essere quello pesante degli anni ’80, votati al rampantismo sociale, che vendeva alle giovani donne un’immagine di noi, allora poco più che trentenni, ridicolmente ‘vetero’, favorendo quell’interruzione di memoria che cominciavamo a studiare nel passato.
Si tratta di una storia ancora tutta da scrivere, che non si può quindi ancora sintetizzare a scopo divulgativo, ma proprio la sensazione che venissero messe in atto operazioni insieme sofisticate e visibili (almeno per molte di noi) finalizzate a cancellare la realtà di un ‘appena ieri’ che cominciava a sembrare lontanissimo, mi spinse a cercare di salvare le ‘carte’, perché un archivio è prima di tutto la testimonianza di un’esistenza.
Cominciai dalla Resistenza, indagando la presenza dell’Udi nei verbali del C.L.N. presso l’I.S.R.E.C.: non conoscevo le donne di cui si riportavano gli interventi, ma potevo rintracciarle, intervistarle. Andai a trovare Lavinia Guastalla, Lina Dasso e, più avanti, a Roma, Velia Sacchi, ma anche questa è un’altra storia che ho portato a compimento, in parte, solo di recente.
Allora la mia voglia di ricerca si scontrava con le esigenze del lavoro, di due bambini piccoli, dell’abitare in provincia e forse soprattutto della solitudine politica che avvertivo e pativo come incapacità personale.
Quando, insieme a donne che provenivano dall’esperienza dei collettivi, fondammo il Centro Culturale Lastrea e cominciammo a raccogliere i documenti di quella che era stata l’esperienza, ormai quasi definitivamente chiusa nel 1983, dei collettivi femministi bergamaschi, sembrò naturale, alle compagne dell’Udi rimaste, affidarmi l’archivio provinciale.
Mi portai a casa due scatoloni, pieni di volantini avanzati, qualche quaderno con i conti scritti a mano, come si usava allora, e qualche cartelletta piena di fatture e ricevute: i cambiamenti rapidi, nei pochi anni dopo l’XI Congresso, avevano rimescolato quel poco ordine che avevamo cercato di fare negli anni precedenti.
I primi tempi mi dedicai a raccogliere quello che restava dei vari circoli Udi o in casa di singole compagne e voglio ricordare che il materiale oggi in archivio proviene, oltre che dal mio fondo personale, dai Circoli di Calusco, Cortenuova, Romano L. (che era il mio gruppo d’appartenenza) e dalle carte date con generosità dalle compagne Luciana Pecchi di Bergamo e Tina Filippi di Rogno che avevano conservato anche molti materiali precedenti il 1978.
Così cominciai l’operazione, non facile, di riordino, avvalendomi della preziosa consulenza di Giuliana Bertacchi dell’ISREC.
Scatoloni, cartellette, fasci di manifesti e di mostre occuparono il mio garage e le mie estati per qualche anno; non era facile venirne a capo, non solo perché si trattava spesso di dare una collocazione cronologica alle carte, pescando nella memoria, ma soprattutto perché molte di quelle carte riguardavano direttamente la mia storia, c’era la mia calligrafia su volantini e manifesti, le mie parole, rigorosamente a firma collettiva, gli errori dovuti alla mia imperizia con la macchina da scrivere: ricordo la parola “divisamente” invece che “visivamente” nella lettera che richiamava ad una manifestazione collettiva in occasione della mostra “La città della pace” per l’8 marzo 1982; correggerla o no? Per noi le lettere erano una sorta di adempimento burocratico, poco curato, perché la comunicazione passava con l’informalità di quello che chiamavamo “tam-tam”, ma per una futura storica quella parola sarebbe stata un rompicapo?. Problemi di collocazione delle carte e problemi futili come il colore dei faldoni: entrai in crisi quando dovetti aggiungerne alcuni blu, perché non erano sufficienti quelli verdi che avevo acquistato tutti insieme.
Spesso invece dovevo sospendere il lavoro perché m’invadeva la tristezza per qualcosa di finito, per un tempo passato per sempre, ma ancora così vicino che non mi consentiva di guardare al futuro.
Mi interrogavo anche sulla legittimità del mio gesto: assumevo singolarmente la responsabilità di costruire l’archivio di un soggetto che era stato collettivo e che ora, proprio in quelle carte, mi appariva muto.
Le lettere, tenute insieme con spilli da sarta invece che da più “nobili” graffette, erano scritte in un politichese burocratico che maneggiavamo con qualche difficoltà, lontanissimo dal nostro modo di parlare, fitto e di tutto.
Era un’operazione, questa, la mia, che metteva in gioco la possibilità del permanere di una storia, ma anche il suo silenzio: gli archivi infatti sono muti se non c’è uno sguardo che li interroga, se qualcuno non restituisce voce alle parole. Mi sembrava di chiudere anche me stessa in quei faldoni, muta, in attesa di voci che non potevano essere la mia.
Pensavo al testo di Olympe De Gouges sepolto, credo, per quasi duecento anni nella Biblioteca Nazionale di Parigi, o al volantino di un’Associazione femminile per la pace e la libertà, fondata a Bergamo nel 1943, scoperto all’ISREC, che mi ha condotta a Velia Sacchi.
Nel frattempo avevamo chiuso di comune accordo l’esperienza del Centro Lastrea per la difficoltà di incontrarci, ormai prese tutte da altre storie, lavorative, familiari o sociali che fossero; nell’ultimo incontro, al quale non ero presente, le compagne decisero di affidarmi l’archivio, che avevamo raccolto e riordinato, dei collettivi bergamaschi.
Me lo comunicò Carmen Plebani e credo di aver provato un momento di emozione e di spavento: si trattava di un riconoscimento e di una responsabilità insieme.
Ero grata alle compagne per la fiducia, ma sentivo che il lavoro ora non poteva più essere dilazionato.
Completai quindi il lavoro di riordino e nell’ottobre del 1995 chiesi al direttore dell’ISREC, Angelo Bendotti, di depositare l’intero archivio presso l’istituto stesso, non essendoci a Bergamo un’istituzione archivistica delle donne.
Mancavano alcune carte del mio archivio personale (soprattutto fonti a stampa, che avevo lasciato al Circolo Udi di Romano, a quel tempo ancora esistente, che sono state recentemente depositate e integrate nell’archivio), ma il mio lavoro mi sembrava sostanzialmente compiuto.
Depositare l’archivio era un gesto che liberava la mia casa e i miei pensieri, non sentivo il bisogno di altro, anche se sapevo che sarebbe stata necessaria una qualche presentazione pubblica, almeno per correttezza d’informazione.
Solo recentemente, proprio l’eperienza di un interesse per la storia dell’Udi da parte di giovani ricercatrici, che ne hanno fatto oggetto della loro tesi di laurea in alcune città italiane, e l’opportunità di riprendere in mano la nostra storia, insieme alle donne della mia generazione e con le più giovani, che si è aperta con questo ciclo d’incontri promossi dalla Fondazione Serughetti – La Porta e dalla Convenzione delle donne di Bergamo, mi hanno fatto pensare che era il tempo giusto per portare a termine questo lavoro, presentando pubblicamente l’Archivio dell’Udi e dei Collettivi di Bergamo.
Ho raccontato, per brevi cenni, la storia dell’archivio, non la storia, o meglio le storie, che stanno dentro l’archivio.
Vent’anni sono molti per concretizzare un piccolo sogno, ma sono il tempo giusto per lasciare che cresca una nuova generazione alla quale consegnare un archivio e una certezza: nel passato delle donne non ci sono solo parole scritte nel vento, ma anche qualche “carta” da decifrare, per trovare le tracce di una storia che solo loro potranno raccontare.