Soggettività femminili in (un) movimento (1999)

Soggettività femminili in (un) movimento (1999)

Questo convegno nasce da una scoperta e un incontro che ne definiscono l’oggetto centrale d’interesse.
La scoperta che alcune giovani studentesse, in varie città d’Italia, avevano scelto la storia dell’Udi come oggetto di ricerca per la loro tesi e l’incontro, il felice incontro, con queste ragazze, che ha suscitato, risvegliato, sollecitato un rinnovato interesse per questo nostro lungo percorso, che rappresenta certamente uno dei tanti significativi tasselli mancanti alla storia politica delle donne nel nostro paese.
Queste ragazze hanno interrogato soprattutto la storia d’origine dell’Udi, si sono spinte al massimo fino agli anni settanta: per me è stata una lettura molto emozionante perché ripercorrono una storia che è la stessa che io ho scoperto alla loro età, anch’io come loro alla ricerca del passato delle donne che sui libri era muto, una strada comune quindi, che le ha portate fino a noi con i loro sguardi interroganti, le loro giovani, fresche curiosità, come un dono insperato e gradito perché mi sembra che una strada segnata da molti passaggi, da molti piedi, sia più difficile da cancellare.
Oggi perciò siamo qui “convenute” per cominciare un percorso nuovo e vogliamo “mettere in scena” non solo gli esiti delle ricerche, i risultati delle tesi, ma i soggetti stessi, le ragazze che hanno scritto le tesi, quelle soggettività che la tradizione accademica lascia in ombra dietro una scrittura che deve presentarsi secondo i canoni dell’oggettività.
A me e Delfina è stato affidato il compito di presentare l’oggetto appunto di questo convegno e abbiamo pensato che potevamo dividerci il lavoro in sintonia con le nostre “competenze professionali”, lei, una ricercatrice, si sarebbe occupata delle tesi, io, che sono un’insegnante, avrei ascoltato le ragazze.
Credo però, proprio perché parliamo di soggettività, di dover fare una premessa per giustificare la mia presenza qui dato che appunto non sono una ricercatrice, ma semplicemente un’insegnante di storia, e non sono dell’Emilia Romagna, ma vengo da Bergamo.
Prima di tutto sono qui perché vorrei condividere un’emozione che ho vissuto nell’incontro con queste ragazze e con l’Udi di Modena e in particolare con Rosanna Galli che ha tenacemente insistito perché io decidessi di coinvolgermi in questo progetto.
Vorrei che la giornata di oggi non fosse soltanto occasione di ricordo, di elaborazione della memoria, di trasmissione di conoscenze, ma parlo di emozione come di uno strumento conoscitivo forte, nel senso intuito da Bateson e su cui lavora oggi la ricerca sulla comunicazione, emozione come dissonanza, richiamo, squarcio che si apre e produce movimento, scambio, reciprocità, relazione.
Quell’emozione che ognuno di noi definisce col nome più adeguato a individuare il vissuto del momento, ma che rappresenta comunque sempre la spinta a fare, ciò che ci muove verso, quel “prima” difficile da decifrare, spesso dimenticato, censurato dagli esiti, ma che rappresenta l’origine del nostro singolo agire.
Sono qui perciò solo per rendere visibile un’emozione.
Questo non basta però a spiegare, a me stessa prima che a voi, perché sono stata così insistentemente richiesta.
Non basterebbe credo dire che sono dell’Udi e perchè, forse conta “come” lo sono.
Sono entrata nell’Udi in occasione del X Congresso, nel 1978, il congresso che aprì al femminismo e io ero appunto femminista, invitata come osservatrice, mandata a nome del mio gruppo col quale ci interrogavamo sull’opportunità o meno di aderire all’Udi.
Il mio gruppo era allora una “forma anomala” costituitasi al confine tra una commissione femminile del P.C.I. e un gruppo di autocoscienza.
Richiesta di raccontare di me al P.C.I. bergamasco, al quale mi era da poco iscritta (un paio di anni prima), dichiarai allegramente che ero femminista, e credo che non mi sia stato mai perdonato, per questo il Partito ci spingeva verso l’Udi, considerata allora un alveo più rassicurante.
Venne al nostro gruppo Ilaria Lasagni, ricordo, allora responsabile regionale, una delle prime donne che ha svolto una tesi di laurea sull’Udi, che ci rassicurò invece in tutt’altra direzione da quella che il Partito auspicava e così andai al congresso e successivamente, sull’onda dell’entusiasmo, un’emozione appunto, aderii, con tutto il mio gruppo, all’Udi.
Al congresso l’emozione fu quella dell’incontro con donne più vecchie di me, era presente più di una generazione prima della mia, quella delle sorelle maggiori, delle madri e anche delle nonne, vidi in quell’occasione Camilla Ravera: c’era dunque una storia di donne prima di me, fuori dalle soffocanti reti familiari, e a questa storia volevo appartenere. Avevo finalmente un luogo in cui riconoscermi.
L’Udi era un luogo in cui “esercitare” la mia passione politica, che per me significava anche una trasformazione che sedimentasse memoria, un agire che potesse dichiarare un prima e sperare nel dopo.
Non ho mai smesso, in ogni occasione, in ogni autoconvocazione di battere il tasto della memoria, non solo come necessità di ricordare, ma come ricerca/costruzione di un passato che ci aiutasse a legittimare e sostenere il futuro, una memoria che potesse aprire una porta sul dialogo con le nuove generazioni di donne.
Forse per questo mio “chiodo fisso” qualche anno fa sono stata scelta per rappresentare/esprimere l’Udi di oggi in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione.
Una scelta da parte, ancora una volta, di compagne più grandi di me, per età, esperienza e pratica politica nell’Udi, che ho sentito quasi come investitura/investimento, uno sguardo su di me che diventava un “abito”, un’esperienza di responsabilità che era della mia misura probabilmente, ma che sentivo come non del tutto ben cucita addosso: la proposta mi era stata fatta da Ansalda che mi ‘proibì’ di rifiutare.
Un “vestito” che ho indossato per un giorno e poi accantonato, ed ora in qualche modo sento di dover riprendere in mano.
Abbiamo diviso questo giornata in rappresentazioni al mattino e dialoghi nel pomeriggio, per rendere in qualche modo visibile la natura della scambio, proprio perché la rappresentazione attiene al guardare e guardarsi, e precede la parola.
Che lo vogliamo o no questo è un palcoscenico in cui ci si autorappresenta nella parola nella misura in cui gli altri, le altre, guardano e ascoltano insieme. Si tratta di uno scambio, una complicità che costruisce la parola come terreno comune in modo molto diverso da come si costituisce per la scrittura. E uno degli elementi della diversità di questa esperienza è proprio lo sguardo.
Nella nostra cultura è la parola a dominare come elemento di possibile analisi della comunicazione mentre lo sguardo è sottaciuto, dato per scontato, ignorato o dimenticato e invece spesso non basta la parola a rendere per intero un evento, a dar conto dell’accaduto.
Non sarebbero bastate le parole a trattenermi in questo luogo dopo che ho visto finalmente accolto il mio lungo appello a lavorare sulla storia dell’Udi.
Avevo fatto la mia parte e non serviva la mia presenza, ci sono qui ricercatrici ben più competenti di me.
Mi ha fermata lo sguardo delle ragazze, queste cinque giovani donne mi hanno trattenuta con il loro sguardo carico di domande affettuose ma precise. C’era qualcosa che andava oltre una mera questione di competenze “tecniche”, di professionalità dichiarata o acquisita, qualcosa che riguardava me in prima persona come parte di una generazione, soggetto di una storia vissuta e magari accantonata, qualcosa che riguardava la mia età, il mio modo di essere, i segni lasciati dagli anni che ho attraversato, dalle persone, donne, incontrate.
Mi ha fermato una domanda che nessuno ha formulato con le parole, ma che ora non riesco più ad ignorare.
A che cosa mi sto sottraendo? A che cosa si sta sottraendo la mia generazione? Tutte o alcune? O molte? E io?
Questa è una domanda che resta aperta, e la propongo per i dialoghi di oggi.
Una domanda che mi appartiene, so che mi sto sottraendo a qualcosa e la memoria per me ha senso dentro un’idea di futuro, non mi interessa un deposito erudito da tenere sotto vetro a legittimare un presente magari strettamente individuale.
Mi sono chiesta se ai loro occhi non sembriamo un po’ tutte vestali del passato, non proprio cariatidi che sorreggono un edificio vetusto e ormai inutilizzabile, ma disimpegnate rispetto al presente.
Anche le nostre ricerche e le nostre pubblicazioni sembrano spesso più nella logica della conservazione di una qualche immagine collettiva di noi alla quale non corrisponde poi, se non raramente, un agire pubblico.
E mi viene da aggiungere che le donne che agiscono sulla scena politica spesso sanno poco (nel senso di conoscenza ed esperienza) della storia politica delle donne e questo non è certo senza conseguenze.
Gli sguardi di queste ragazze mi hanno fermata, mi hanno emozionata, e con questa parola voglio significare il disagio di vedermi riflessa nei loro occhi come in uno specchio che mi restituisce un’immagine di me dentro una cornice ignota, tanto che so di essere io, ma stento a riconoscermi, provo un senso di disorientamento.
Per cornice intendo l’intero sistema dei sentimenti, pensieri, convinzioni, credenze, esperienze che costituiscono le loro vite, luogo individuale per storie e collettivo per età, dal quale mi guardano e dentro il quale inscrivono la mia immagine, dalla quale perciò mi sento dissociata, letteralmente io e quella mia immagine non condividiamo la stessa ‘socialità’.
Che cosa mi chiedevano queste ragazze? Che cosa vedevano in me da insistere perché restassi, senza in fondo delle ‘ragionevoli’ ragioni?
Mi sono chiesta se l’ultima immagine di una passione politica lungamente vissuta è stata così potente da incidere, modellare il mio corpo, dare forma alle mie parole e ai miei gesti, tanto da conservare di me, come in un calco, qualcosa di cui io stessa ho perduto o accantonato la memoria?
Come per molte donne dell’Udi la ‘mappa della militanza’ è la mia stessa vita e forse continua a modellare il mio agire ben oltre le mie scelte.
Ma cos’è una scelta? Di che ‘materia’ è fatta?
Intanto resta l’emozione che continua a turbarmi.
Questa emozione ha prodotto e sostenuto l’ascolto, da parte mia, delle loro storie, qualcosa di più della curiosità e dell’impegno, un ascolto che non fornisce solo informazioni, ma arriva a toccare i “quadri percettivi” di riferimento.
La domanda era semplice in questo caso: come, quando, perché queste ragazze hanno scelto di lavorare sul movimento politico delle donne? Cos’è per loro l’Udi?
Ho scelto, metodologicamente, di intervistarle insieme, di utilizzare cioè lo strumento dell’intervista, che loro conoscono per averlo utilizzato nel percorso di ricerca, che richiede un’esposizione individuale, una scelta narrativa propria, ma di farlo in gruppo, ricostruendo intorno a me quello sguardo collettivo da cui mi sono sentita tanto sollecitata.
Lo spazio del gruppo ha consentito di vivere il dirsi, alle altre e a sé, come emozione di conoscenza e scoperta, rigore e confidenza, distanza e intimità, rendendo consapevolmente esplicita la funzione di questo “spazio narrante” in cui eravamo tutte, contemporaneamente, soggetti e oggetti di ricerca, in un’esperienza di alternarsi imprevisto di conferme e “spiazzamenti”.
Ho poi passato intere giornate a sbobinare ciò che il registratore portava inciso accostandolo alla mia memoria ancora recente ed è questa esperienza d’incontro che vorrei restituirvi intera. Non solo le parole quindi, che loro stesse hanno in parte già ripetute, ma il senso e la modalità di quella narrazione che ci ha per un momento accomunate in una condivisa, e per certi versi opposta, responsabilità.
Narrare come sappiamo è un’attività che conosce una lunga sedimentazione culturale e grandi, autorevoli elaborazioni, ma proprio perché è un’attività frequentata da tutti e a vari livelli risente del permanere di molti stereotipi, soprattutto per quanto riguarda le relazioni tra i sessi e il costituirsi delle caratteristiche dei due generi, maschile e femminile.
La storia politica risente ad esempio delle stereotipie della narrazione quotidiana in cui credo riconosciamo spesso, nella descrizione delle femministe, la riproposizione dei vecchi moduli relativi alle streghe, già ripetuti del resto nel novecento per le suffragiste.
Le nostre vite restano ancora troppo spesso mute dietro l’invasività persistente degli stereotipi narrativi che oggi si esprimono nelle forme semplicistiche, anche se tecnologicamente sofisticate, della fiction mediatica.
Nello stesso modo ricorre per la nostra storia recente una memoria dell’Udi e del femminismo come se fossero due storie lontane, due fiumi che scorrono accanto, incontrandosi talvolta, ma restando due fiumi diversi. Una lettura forse adeguata se le categorie utilizzate attengono all’organizzazione, meno utile forse e distorcente se riguarda le donne concrete, le soggettività politiche, i progetti, i percorsi, gli esiti; se lo sguardo spazia nel tempo intrecciando la storia politica delle donne e quella degli uomini, le biografie individuali e i dati generazionali.
Io stessa in due percorsi così differenziati sarei cancellata, un elemento strano ed estraneo alla storia, e come me molte donne di una “periferia” geografica e quindi politica che hanno praticato nel vivere quel senso comune del femminismo che ha portato i cambiamenti profondi, che ben conosciamo, per tutta la società.
Si era femministe dichiarandolo, e la forza di un dirsi, testimoniato dalla propria vita era tale che non occorreva altro. All’Udi si sceglieva invece, allora, di appartenere sottoscrivendo una tessera e non a caso fu sulla questione tessera che si coagulò il dibattito sul senso e i modi dell’appartenenza ad un’associazione che doveva essere in grado di rispecchiare interamente le nostre vite.
Fu una stagione di grandi cambiamenti nell’Udi, quella cominciata con il X Congresso, e continuo a pensare che è densa di significati politici concreti un’appartenenza testimoniata dalla propria vita e non solo da un cartoncino stampato; da quel dibattito nacque, nel più famoso congresso successivo, l’idea di una Carta degli intenti su cui materialmente s’incontravano, scritti, quelli collettivamente pattuiti e i propri.
Stagione di sperimentazioni politiche, di azzardi vissuti in prima persona, eppure oggi, a volte, mi sembra che quel nostro dibattito si sia depositato poi in forme meno limpide, che quell’accesso all’associazione, che volevamo dichiarato con il massimo di trasparenza, sia più difficile per chi è arrivata dopo e gli strumenti meno chiari, come se a questo punto il tempo della storia, il passato, prevalesse su quello della politica, che è il presente.
Ero femminista e quando entrai nell’Udi sapevo di scegliere una storia da capire, da interrogare e non solo un luogo da abitare ed era proprio questo l’elemento determinante per me.
Era una scelta di “appartenenza” e fu questa la parola chiave che proposi, molti anni dopo, all’autoconvocazione, per leggere la specificità e complessità che si generava dal modo con cui ognuna interpretava la propria presenza nell’associazione.
“Interpretare”, ancora una volta nel senso di attribuire un sistema di significati, una “cornice”, e di “rappresentazione” attraverso i propri atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte, movenze, di quegli stessi, o altri meno consapevoli, significati.
Il percorso che porta ognuna di queste ragazze alla scelta della propria tesi è in qualche modo un percorso di consapevole appartenenza, una ricerca che va di pari passo con la costruzione di una scelta, non di un’associazione, almeno non subito, ma prima di tutto di una storia.
Una storia per sé, in cui ritrovare immagini di un femminile in cui riconoscersi, non la ricerca di un rispecchiamento, un’operazione di appiattimento di sé o del passato, ma una sorta di pratica della “filialità”, non la ricerca di “madri”, per quanto di ambiguo ed enfatico mantiene questo termine nella nostra cultura, ma il movimento inverso di potersi riconoscere figlie, generate da una pluralità di donne diverse e reali, da uno spazio e un tempo finalmente riconoscibili e comprensibili proprio nella loro “materna” distanza.
Un percorso, quello delle ragazze, che colloca di colpo anche me in un archivio, oggetto di uno sguardo attento e competente e insieme soggetto richiesto di parola, animale ibrido, ambiguo, in bilico tra carte ancora da riordinare, memorie un po’ ammaccate, qualche velleità di rinnovata presenza, strabica per dover guardare indietro e avanti, contemporaneamente, figlia e madre, tutto sommato più spaventata che gratificata da questo essere presa “in mezzo”, per età, e dover imparare a fare da cerniera se non voglio che il tempo scavi, con la mia complice acquiescenza, quelle voragini di smemoratezza che riducono le donne a figurine oleografiche.
Per alcune di queste ragazze poi il passaggio dal fascino di una storia alla condivisione, anche faticosa, del presente, il passo è stato facile e quasi scontato.
Comincio dalla testimonianza di Chiara che, per sua stessa dichiarazione, è certamente quella che ha maggiormente lasciato affiorare, anche nella tesi, la propria soggettività, i propri pensieri, desideri, convinzioni, urgenze.
Lei stessa dice “Ho ‘strabordato’ spesso, soprattutto nell’intervista alla Signora Chiurlotto, me ne rendo conto, non lascio dire a lei quello che pensa, ma dico io quello che penso di lei, sovrappongo le mie idee”.
Certo in questo caso, come Chiara riconosce, è saltato il rigore metodologico, ma non è questo che mi colpisce quando l’ascolto e nemmeno leggendo la sua tesi, mi fa ridere invece l’appellativo di ‘Signora Chiurlotto’ per Vania, non riesco a riconoscervi l’immagine che io ho di Vania, e non solo perché l’appellativo tra noi dell’Udi era ‘compagne’ e prima ancora (e forse ‘dopo’) ‘amiche’, e non solo perché lei è stata per me una ‘dirigente’ amata, una donna ammirata (cioè affettuosamente guardata).
In questa ‘signora’ che io non conosco c’è la distanza tra me e Chiara, i nostri due mondi che s’intersecano, l’occasione, la possibilità per me di conoscere il suo mondo e per lei, nella misura in cui mi soffermo sulla risata, la utilizzo come segnale di una differenza, di conoscere il mio.
Questo elemento mi ha rivelato qualcosa del modo in cui Chiara ci guarda.
Le motivazioni profonde della ricerca, del suo accostarsi all’Udi, è poi lei stessa che le racconta: ”Sono cresciuta in una famiglia in assoluta parità, ho anche un fratello maschio e siamo stati educati nello stesso modo, lui non ha goduto di particolari privilegi rispetto a me, eppure ad un certo punto io ho sentito che c’era uno scarto, in quello che leggevo, che studiavo, non c’erano mai le donne, e poi invece la rappresentazione televisiva delle donne è spaventosa. Pur facendo le stesse cose di mio fratello ho sentito uno scarto, ad un certo punto, che comunque io e lui non eravamo uguali, che c’era una storia dietro che ci differenziava, e questa storia dietro pesava, faceva sì che io e lui ci muovessimo con diverse opportunità nella vita e nel mondo”.
Chiara è partita dalla sua insofferenza: da un lato l’assenza delle donne, dall’altro una presenza degradata, offensiva, ha intuito la finzione, la distanza dalle donne reali che siamo, che ci vivono accanto. Si è chiesta “ma non c’è stato il femminismo?”
Lei è figlia, come tutta la sua generazione, di quel percorso ormai compiuto di emancipazione, di richiesta di parità giuridica, che abbiamo conquistato, la battaglia per l’emancipazione è stata vinta, ci siamo dette, e le ragazze cominceranno da lì.
E’ vero, ma le ragazze non sanno come, quando, da chi, attraverso quali scelte individuali, conoscono il risultato, e spesso lo percepiscono come ‘dato’, ma non sanno niente del ‘come’ ed è questo invece l’apprendimento significativo che si può trasmettere. Non sanno nulla di una donna, una ragazza, come Franca Viola, la prima a ribellarsi al matrimonio riparatore, ho fatto scrivere il suo nome alle mie allieve stupite, quest’anno in classe, e l’anno, 1969. Nomi dimenticati che fanno parte della nostra storia, del nostro processo di crescita e di ‘liberazione’.
Forse non basta crescere nella parità, resta il bisogno di sapere ‘come’, un desiderio che guida lo sguardo di queste ragazze fuori dai confini dei diritti tranquillamente esercitati.
E’ significativa la testimonianza di Micaela, inizialmente la più reticente a raccontare, per timidezza, per un eccesso di autocritica, che le ha certo giovato nel percorrere con grande rigore metodologico le fasi della sua ricerca fino alla stesura della tesi, ma talvolta lascia in ombra la sua immediatezza intuitiva, il suo sguardo sicuro e diretto.
“Mi avevano proposto di fare la tesi su un altro argomento, di storia urbana, ma non me ne venivo fuori” racconta “e allora ho deciso di mollarla e ho cominciato a cercare gli archivi delle associazioni femminili perché la storia delle donne non l’avevo mai frequentata, ma c’era come un richiamo dentro di me”.
Un richiamo che è tutt’uno con la passione per la storia: “Ho scelto la facoltà di storia per passione intellettuale, perché mi appassionava la capacità di questa disciplina di smascherare il presente, i meccanismi profondi delle cose” e forse non è un caso se il momento della tesi coincide con “un brutto momento” e una ricerca di storia ti appassiona se è anche, in parte, ricerca di te.
Forse per questo, mentre cerca gli archivi, risale alla memoria una tessera dell’Udi trovata in casa di una prozia, sorella del nonno, alla sua morte, di cui chiede spiegazione alla madre: “Avevo dodici anni, e non l’ho mai dimenticata”.
E racconta, lei così legata al rigore della ragione, dichiarando una qualche ‘vergogna’, un sogno fatto qualche mese prima di conoscere l’Udi: “Andavo in un posto e mi apriva la porta una bella signora con i capelli bianchi e c’era un grande archivio tutto azzurro e quando poi sono andata all’Udi ed è stato esattamente così, Sandra con i capelli bianchi e l’archivio azzurro e mi sembrava incredibile. Poi ho conosciuto Ansalda e le altre, ho cominciato a collaborare, ma questo è successo dopo la tesi”.
C’è una scelta quindi, quasi uno scatto di vita in un momento difficile, la ricerca sulle donne comuniste ferraresi che viene felicemente compiuta e l’Udi che resta sullo sfondo, ma non nella vita di Micaela che vi si affaccia all’inizio come gradita ‘ospite’ ed ora dice “l’Udi è la mia casa”.
C’è un percorso di scoperte e scelte, in un intreccio continuo con la ricerca, che nella tesi resta muto, ma dà conto della ragione più profonda della ricerca stessa, una capacità di lasciarsi guidare dal proprio sentimento della vita tenendo insieme necessità e desideri.
La tesi di Micaela rispetta completamente il rigore metodologico richiesto, ma la conoscenza segue strade più tortuose e noi sappiamo ancora poco perfino di noi stessi, per questo credo ci sia un ‘rigore dei sogni’ che può aprirci strade anche nella luce del giorno.
Intanto per Micaela, come per Alessandra di Torino, anche se in modo diverso, è importante ‘l’elenco del telefono’, la ‘registrazione’ del presente. A Ferrara c’è un’Udi che esiste, con sede, archivio, attività nelle quali Micaela potrà poi ‘inserirsi’, un luogo che potrà ‘abitare’.
C’è un prima e un dopo in questo racconto e la tesi, più che momento di chiusura dell’esperienza universitaria, diventa un passaggio, una soglia tra momenti diversi della vita, assume significati reali e simbolici che non riguardano, se non in piccola parte, il percorso di studi, l’ambiente universitario che anzi, tranne che per qualche felice incontro, viene sentito come estraneo non solo alla propria vita ma anche ad una propria ricerca culturale.
Per Micaela come per Chiara che dice “la tesi è stata il punto di partenza per poter continuare a studiare il mio presente e non avrei potuto continuare sulla mia strada se non avessi incontrato questa storia”.
Avventurosa la storia che racconta Alessandra, comincia con una scelta “la facoltà di scienze politiche anche se non dà sbocchi per il lavoro, perché c’era la storia e c’era la politica” e una passione “per le donne, il mondo femminile, femminista”.
Incontra la parola Udi in un libro “ed era la prima volta che la storia, con la Resistenza, fa comparire le donne”. “Dopo le prime tre pagine l’Udi sparisce” e Alessandra comincia il suo lavoro di detective: il professore è disponibile, fornisce qualche indicazione, all’Archivio Gramsci ci sono i documenti, ma solo fino al ’64, ci sono dei nomi e Alessandra cerca con l’elenco del telefono (ma il telefono è spesso quello del marito). Finalmente una donna dell’Udi, Marilla, le consegna le chiavi, non dell’archivio, ma della cantina, che aveva subito anche un allagamento.
La tesi di Alessandra comincia con “tutti i documenti stesi in casa e un odore di muffa pazzesco ovunque”.
Dai documenti Alessandra è passata alle donne reali, interviste alle dirigenti, “che raccontavano una storia ufficiale, più distaccata, meno personale” e alle donne ‘di base’ “che raccontavano una storia bellissima, di grande attività e vivacità a Torino”. Una storia di cui non c’è traccia nell’oggi.
E poi le fotografie “ingiallite, umide, ammuffite” che richiedono un lavoro ulteriore sui documenti per essere decifrate.
“Chi non è storico” dice Alessandra “non si rende conto del lavoro e della gioia di ritrovare un pezzetto e riuscire a metterlo insieme, dopo aver lavorato su una mole di materiale trovi finalmente un pezzo che funziona!”.
L’entusiasmo degli incontri è tale che il professore deve ricordare ad Alessandra di tener conto dei legami con il P.C.I., dei condizionamenti presenti in molti passaggi della storia dell’Udi.
C’è una tale forza della passione nella ricerca e un entusiasmo, soprattutto negli incontri con le ‘testimoni’, che tutte, e lo ripetono più volte, si sentono impegnate a “contenere la propria soggettività”.
Esordisce così anche Myriam, che ricostruisce la storia dell’Udi e del Cif tra guerra e ricostruzione, e deve fare i conti con le proprie emozioni, diverse nei due contesti.
“L’idea è partita da una mia domanda sulla Resistenza e poi è venuto il ‘dopo’, perché l’apparente quiete del dopo richiedeva un’attenzione diversa ai gesti, al modo di vivere, di muoversi delle persone, anche per capire i gesti stessi, quali rappresentassero una continuità e quali una rottura, frutto della stessa scelta resistenziale.
C’erano tante attività di queste donne che potevano assomigliare alla tradizionale beneficenza, ma la motivazione che le spingeva era molto diversa”.
Se l’Udi apre gli archivi, e non solo, a Myriam, le donne del Cif appaiono più diffidenti, preoccupate di un uso strumentale dei documenti, nonostante ci siano sulle vicende pubbliche di queste associazioni e sui loro rapporti con il mondo politico pochi segreti.
Sono donne “segnate ancora profondamente dall’esperienza vissuta” dice Myriam con grande rispetto e una rara capacità di equilibrio, pur senza negare il coinvolgimento che prova nei confronti delle altre, quelle che non sapevano parlare, non sapevano leggere.
“Mi viene ancora la pelle d’oca” dice, perché la differenza tra le due associazione, che pure vivranno molte esperienze di collaborazione, è anche una differenza di classe e l’Udi per queste donne è un luogo di protagonismo, di socializzazione, è un’occasione di riscatto sociale, di crescita, di alfabetizzazione.
E mentre racconta di queste donne che “si organizzavano, partivano, aiutavano le altre e questo aiuto non era beneficenza, erano gesti che restituivano dignità”, c’è il sovrapporsi, per Myriam, dei bisogni delle giovani donne di oggi, perché ancora i problemi sono quelli del lavoro, dei servizi sociali inadeguati, di una società avanzata e paritaria, ma che non si può certo definire ‘a misura’ di donna.
Un oscillare tra presente e passato, invisibile nella tesi nella quale sa dimostrare tutto il rigore scientifico necessario, che ora, tra noi, può esprimersi appieno rievocando anche quei frammenti di passato familiare dentro cui riconduce il nascere del suo interesse per le donne.
“Lavorando alla tesi mi veniva in mente mia nonna che è stata la prima donna in Emilia Romagna a prendere la patente, una contadina che aveva fatto la terza elementare. L’ha fatto per necessità, perché era rimasta vedova a ventotto anni con sette figli e ha cominciato a lavorare come tassista. Nata nel 1906, si chiamava Tersilla.” racconta Myriam, e a tutte viene ‘la pelle d’oca’.
“Mi interessava la storia delle donne a scuola, ma dai libri non si capisce mai dove sono queste donne, poi all’Università frequentavo tutti i seminari possibili, ma sono frammenti, manca il senso di una storia completa”.
Forse si tratta proprio di aggiungere pazientemente tasselli ad un mosaico del quale non si vede ancora il disegno, ma bisogna essere in tante perché anche la pazienza abbia senso.
Se per queste giovani donne misurarsi con la ricerca ha significato “contenere la soggettività”, io direi invece che l’hanno ‘governata’, affinando lo sguardo, imparando a riconoscere la complessità dei significati in tracce e parole apparentemente semplici, ascoltando, facendo i conti con le proprie emozioni usandole per capire sé oltre che gli “oggetti” di ricerca.
Ed è questa loro soggettività che comincia a rendere visibili alcuni elementi, occasioni, possibilità di quel complesso percorso di trasmissione tra donne che riguarda appieno la storia, come tessuto narrativo da costruire e condividere in cui il rigore è strettamente legato alle domande, alle premesse, ai criteri di lettura della realtà e più di tutto al nostro desiderio di sapere.
Se in alcune tesi prevale il lavoro sulle fonti documentarie, per tutte sono decisivi gli incontri, le interviste, perfino quando “ci sono arrivata solo alla fine e non ho potuto utilizzarle appieno” come dice con rammarico Ornella di Ravenna.
Incontri determinanti perché sono le donne che queste ragazze cercano e mi sembra illuminante il caso di Roberta, che mi ha gentilmente inviato la sua tesi, che ricostruisce la storia dell’Udi di Genova attraverso la vita di Margherita Ferro, scomparsa da alcuni anni, ma rimasta viva nell’affettuosa memoria di quante l’hanno conosciuta, nel suo ultimo diario, nel suo stesso ricco archivio, depositato all’Udi.
Le donne e la politica, anche per Ornella sono questi gli interessi centrali “Mi sono iscritta a storia contemporanea e immaginavo di studiare la Resistenza, il Vietnam, il ’68, il femminismo, invece…”.
Ma non demorde Ornella, nonostante l’Università, e l’occasione è una mostra “Realizzata per i cinquant’anni dell’Udi, manifesti, fotografie, alcuni scritti: entro e rimango entusiasta, vedo quest’associazione e m’incuriosiscono queste donne, così decido di studiarne la storia”.
Una scelta, come quella della storia, che nasce anche dentro i legami con la memoria familiare, un racconto intenso: “ Vicino a Imola, a Sassoleone, c’è stata una rappresaglia fascista, un eccidio, e sono morti la nonna di mio babbo e sua zia e in questo gruppo c’era anche la mamma di mio babbo, mia nonna, e suo fratello piccolino. Ne hanno scelto alcuni e li hanno uccisi, nel ’44, perciò per me la seconda guerra mondiale è stata sempre presente. Mia nonna che mi racconta di questi momenti durissimi, di quando erano sfollati, praticamente nomadi tra le colline, senza sapere dov’era mio nonno, con questo bambino piccolo e poi mio babbo che è nato praticamente in seguito ad uno spavento da bombardamento che mia nonna ha avuto, sbalzata nel corridoio della caserma, perché mio nonno era carabiniere. Insomma tutta sta cosa della guerra in qualche modo mi ha fatto nascere questa spinta a conoscere e in più io ho sempre avuto questa visione eroica dei partigiani e di queste donne che andavano, si spendevano per la causa giusta.
Mi sono sempre appassionata alle figure di rivoluzionarie e rivoluzionari.”
Un mito, lo definisce in seguito, con cui sa di dover fare i conti, ma non è proprio con il mito che comincia la storia?
Ma c’è anche una storia più vicina, quotidiana, una madre maestra d’asilo e la consapevolezza che si tratta di un servizio ‘conquistato’ e non dato.
Ornella è una ragazza determinata, la tesi è solo l’inizio “mi sono resa conto che per la storia delle donne le fonti orali sono determinanti perché nella vita delle donne il privato s’intreccia con la politica e questo nei documenti non si trova”.
Anche lei incontra l’Udi e vi resta: una scelta, analoga a quella che la porta a Bergamo, a farsi intervistare da me perché era assente alla riunione del gruppo.
Un gesto politico quello di Ornella che segnala una capacità di mettersi sulla scena della propria vita, quella soggettività di cui tanto abbiamo parlato per la storia e che ognuna di noi ha imparato a giocare nelle mille scelte della quotidianità.
Cinque ragazze diverse, Chiara, Micaela, Alessandra, Myriam e Ornella e anche per noi riunirle è stato un gesto politico, un pomeriggio con molti ‘brividi’ che ancora devo decifrare.
Per tutte l’esperienza della tesi ha rappresentato un passaggio, da un sogno, un mito, una curiosità, all’incontro con donne reali, con una storia più complicata, con nuove domande. Hanno attraversato una soglia che forse è anche quella della maturità, da ragazze a donne, perché se, come dicevamo un tempo, non si nasce ma si diventa, determinante diventa il modo con il quale ti racconti a te stessa, quale luogo d’origine ti costruisci e per questa complessa operazione proprio gli incontri sono determinanti.
Lo affermano tutte con convinzione, “l’incontro con le donne dell’Udi mi ha formata” dice Micaela, e le altre annuiscono con forza. Le sue parole mi portano l’emozione della mia stessa esperienza quando dico che l’Udi è stata la mia vera Università, il luogo dove ho imparato quello che oggi sono. Voglio ricordare qui una donna che resta fondamentale per la storia politica delle donne italiane, Franca Pieroni Bortolotti, che ho avuto la fortuna di incontrare a Milano, con Antonia Maggioni e Ilaria Lasagni in occasione dell’inaugurazione del Centro Sibilla Aleramo: non ho mai dimenticato la sua affettuosa e preoccupata sollecitazione a studiare la storia per ‘capire’.
Il suo appello è stato raccolto soprattutto da Annarita Buttafuoco, della cui perdita non abbiamo ancora elaborato il lutto.
Desiderio di storia, desiderio di politica, di esserci oggi nella polis, come soggetti riconoscibili di un agire che trovi nelle nostre vite le sue ragioni.
In questo c’è da parte delle ragazze un richiamo forte alle nostre responsabilità e non solo nei confronti della storia e il loro richiamo, così come il loro sguardo, ci ‘spiazza’.
Frequentano i nostri luoghi e ci osservano ribaltando magari completamente le nostre consolidate immagini, come Chiara che trova più ‘moderne’ le donne dell’Udi, rispetto alle ‘femministe’:”Le donne dell’Udi mi sono sembrate più aperte,” dice “più interessate alle giovani, contente della mia presenza, mentre le altre sembravano disponibili ma in realtà erano chiuse nel loro tempo, nel loro passato”.
Riporto le sue parole perché mi hanno lasciata sbalordita e ho dovuto farmele ripetere e rispiegare: come, noi dell’Udi che siamo sempre state guardate come le parenti povere del femminismo, come donne ‘antiquate’, un’associazione obsoleta, donne del ‘fare e non del ‘pensare’, dilemma che ci tormentò in più di un’autoconvocazione, ora di colpo siamo più ‘moderne’?
Sono stupita eppure Chiara dice una cosa che io conosco molto bene.
Nell’Udi sono presenti più generazioni di donne, più storie, spesso diverse e perfino opposte, ma legate dal desiderio di mantenere in vita questo strano soggetto politico che non sappiamo bene come definire se non con il suo nome proprio: ‘Udi’.
Un luogo che resta aperto al futuro quindi, con mille contraddizioni e difficoltà, ma aperto.
Poteva arrivare all’autoconvocazione nazionale una donna qualsiasi, dal più sperduto paese d’Italia, senza conoscere nessuna, con un legame ormai labile con la politica locale, senza nessuna relazione significativa e dopo pochi anni autoproporsi come responsabile della sede nazionale. E’ accaduto a me e non c’è altro luogo, nemmeno di donne, in cui sarebbe potuto accadere.
Ancora racconto di me. Ancora il ‘partire da sé’?
Lo faccio oggi non per la ripetizione stereotipata di una pratica che fu feconda per la nostra vita e per la politica, perché sarebbe un’operazione di nostalgia fuori luogo e fuori tempo, ma perché cerco di indagare attraverso le mie emozioni, di trovare, provandoli sulla mia pelle, quei criteri di lettura che facciano emergere le domande giuste, quelle che consentono di svelare anche il finire delle cose, dei movimenti, delle relazioni, il mutare dei luoghi e delle persone.
Si raccontano prevalentemente i momenti ‘alti’, l’entusiasmo, l’orgoglio, il protagonismo, più difficile interrogare i gesti, gli scarti, le ferite, i silenzi che concludono un’esperienza, spesso senza possibilità di lasciare strade aperte per il futuro.
Oggi abbiamo tanti centri culturali, riviste, associazioni, che hanno magari un rapporto ben più pragmatico con le risorse che provengono dalle istituzioni rispetto a tutti i dubbi che hanno lacerato l’Udi nei confronti dell’oggetto ‘finanziamento’, ma sono spesso luoghi definiti da reti di relazioni informali che non rendono facile l’accesso.
I canali di comunicazione restano troppo spesso ancora quelli tradizionali, amicali, perfino familiari, strategie e sistemi elaborati in tempi precedenti la cittadinanza, forse utili ma certo poco adeguati alle richieste di tutte.
Siamo ancora sulla soglia della cittadinanza? E come vogliamo ridefinirla?
Il mio personale desiderio di storia è anche il bisogno di salvaguardare questa tradizione politica di ‘accesso’, costruita con fatica, con molte luci e molte ombre, ma che ancora può aprire spazi alle giovani generazioni di donne.
Sono molte le domande che io, figura ibrida, quasi una viaggiatrice dei confini, terre ricche e desolate senza governo e senza eredità, vorrei porre a queste giovani ricercatrici, ricche dell’entusiasmo dell’età e di una precoce competenza frutto di fatiche consapevolmente scelte.
Le esperienze sedimentano la storia, ma sono necessari luoghi per consentirci la politica. Ma questa è appunto tutta un’altra storia, forse la parte ancora in ombra di quell’emozione con cui gli sguardi di queste ragazze mi hanno fermata su una soglia imprevista della mia vita.