LA SCUOLA È ANCORA SMEMORATA ?
di Rosangela Pesenti
in Reti di saperi e di luoghi delle donne, (a cura di Marisa Forcina), PANICO, Lecce, 2003
I messaggeri sono partiti al galoppo verso le periferie dell’Impero. Si favoleggia del loro arrivo, inquieti per quel messaggio sconosciuto che viaggia veloce con loro e intanto ci si prepara, ci si organizza, si immagina il contenuto, lo si prefigura in scritti minori che proliferano portando le loro piccole verità cariche d’ansia.
Nella scuola che abito, una delle tante periferie di questo nostro lungo e affollato Paese, così ci si sente, ingrugnati in una disincantata attesa.
Era da fare, la riforma, l’aspettavamo da anni, troppi, per questo forse evoca l’immagine dei messaggeri, che mi viene da un racconto amato in quel tempo adolescente in cui ho cominciato a desiderare una scuola diversa.
Poi, da insegnante, la riforma fai-da-te, vissuta direttamente nelle classi: i cartelloni, il circle-time, il patto formativo, il piano di lavoro costruito insieme, la valutazione secondo criteri condivisi, la trasparenza, il dialogo, l’incontro e lo scontro, corpo a corpo con generazioni di adolescenti, pensando che la storia e la letteratura possono avere senso per le tante e diverse stagioni della vita.
Serate e domeniche di studio, molto più che per gli esami all’università, alla ricerca di un sapere e di un senso dentro cui collocare testi e parole, ma anche la mia vita di donna, la loro in tumultuosa crescita, in un corpo a corpo anche con i libri che ne rivelava l’insufficienza per la persistente cancellazione del genere femminile che strideva ferocemente con l’evidenza dei fatti, che fossero la nostra esistenza o quella delle donne che andavamo scoprendo.
Attualmente sono un’insegnante appassionata e logorata, mi muovo con circospezione tra circolari che prescrivono l’autonomia, con una specie di coazione alla libertà, e infinite griglie dentro cui perdiamo il tempo e il senso del nostro lavoro. Le ore di compilazione, l’attenzione alla “misurazione” delle cosiddette competenze che vanno poi “certificate” sbiadiscono i volti di ragazzi e ragazze, le loro storie, inclinazioni, talenti, i loro desideri, disagi, interrogativi: li perdiamo nelle caselle ordinate dei registri, nelle parole codificate che non dicono più nulla e noi con loro.
Dobbiamo insegnare tutto, per quanto mi riguarda anche teatro, cinema, musica, i programmi si dilatano all’infinito come se la quantità del sapere potesse fare argine a questo nostro tempo smemorato e contemporaneamente si deve semplificare, alla fine di ogni capitolo i libri propongono un bignami utile per la memorizzazione: ci affanniamo intorno ad una specie di macchina per comprimere il tempo, parliamo per acronimi.
Dobbiamo farli scrivere. Bene! Ma io che da tempo sperimentavo con loro scritture molto diverse dal tema ora sono disorientata dalle prescrizioni: articolo, saggio breve, analisi guidate, tipologie praticate da anni che ora mi sono irriconoscibili.
L’ansia della prestazione ci ha presi tutti e tutte e mi sento smarrita, io che portavo certe mattine i girasoli di Montale, le api di Emily o i raccontini di Cortazar come piccoli doni intorno a cui sostare insieme per il puro piacere della parola.
Non metto più in classe i cartelloni bianchi intitolati “spazio libero” perché non c’è più tempo per parole in libertà, i muri si riempiono di tabelle e comunicazioni burocratiche in nome di una trasparenza che rende tutto più opaco.
Intorno a me i colleghi, in maggioranza colleghe, si muovono frenetici tra un concorso riservato e l’altro, cumulando discipline insegnabili alla ricerca di una qualche stabilità di cattedra; ognuno di loro assomma un numero di classi che preclude serie possibilità di approfondimento disciplinare; frenetici e frustrati, come me del resto, per lo stipendio da fame che ti rende a quarant’anni ancora dipendente dalla famiglia d’origine (e questa è già una circostanza fortunata) si muovono nella scuola col disagio di perenni ospiti ai quali ogni cosa è data per gentile concessione e con sospetto: il nostro spazio si riduce a un cassetto, meno dello stipetto che hanno gli operai in certe aziende.
Direi che una delle chiavi di volta che potrebbe sostenere l’edificio scolastico in questo momento di ristrutturazione è la parola riconoscimento: del lavoro, com’è richiesto da tempo, delle competenze e … reciproco.
Si tratta di tre forme del riconoscimento per cui non è facile approntare percorsi ma che non sono eludibili.
Tralascio il riconoscimento del lavoro (preparazione delle lezioni, correzione verifiche ed esercitazioni…) perché, a lungo dibattuto in campo sindacale, non trova soluzione oltre che per il problema, banalmente consistente, delle risorse, anche per il suo stretto legame con le altre forme di riconoscimento.
Si riconosce l’altro prima di tutto come persona e una persona ha un’età, un sesso, una storia professionale e personale. La scuola è costruita sui ruoli e poco tiene conto delle persone.
Il ruolo è un abito che indossiamo e se è troppo rigido o di una taglia diversa dalla nostra, produce disagio, ci sta stretto o largo, finisce con il camuffarci, nasconderci, renderci impermeabili o vulnerabili, coperti o scoperti in modo sempre inadeguato.
La scuola è l’unico luogo in cui i generi e le generazioni possono rigiocarsi la propria storia sperimentando la dimensione educativa della crescita.
Sembra ovvio dire che un insegnante non è lo stesso all’inizio e alla fine della carriera, ma di questa ovvietà non vi è traccia nell’organizzazione scolastica.
Così ognuno gestisce come può l’inesperienza o la lunga esperienza, la paura di essere inadeguato o la paura di essere antiquato, l’entusiasmo del neofita e la consapevolezza raggiunta con la fatica e la passione degli anni.
Lo scambio, qualche riconoscimento, avvengono “sotto” il metaforico banco che arreda l’immaginario di tutta la popolazione scolastica, più a livello di rapporti informali quindi che strutturali.
Risorse di saperi, competenze disciplinari e relazionali, come si recita nei documenti ufficiali, non riescono ancora ad entrare nel circuito dei nuovi processi che appaiono più simili ai vecchi percorsi obbligati quando non riproducono insensate gerarchie fondate su risibili criteri burocratici.
Il vincolo della classe, gli orari, le regole identiche dalla prima elementare alla quinta superiore diventano perciò oggetto di piccole/grandi trasgressioni e/o resistenza passiva attraverso una microcontrattazione lasciata all’arbitrio e al buon senso di ogni insegnante.
Disagi grandi e piccoli di allievi e insegnanti restano muti mentre il tempo è interamente colonizzato da oggetti culturali spesso vissuti come lontani e inutili (e non solo dagli studenti).
Esagero? Forse, perché certo poi noi umani ci diamo anche da fare per dare a questo pezzo importante della nostra vita qualche scorrimento sereno e perfino insperate epifanie.
Per fortuna entro in classe, mi dico, e lì sto bene perché posso vivere ogni anno una nuova appassionante (e molto faticosa) avventura.
Qualche volta penso che in qualche scuola al “centro”, dove i ragazzi e le ragazze sanno intervenire in pubblico, hanno i genitori laureati e gli insegnanti sono “stabili”, sanno che fare, forse è da lì che sono partiti i messaggeri, ma qui non so proprio quando arriveranno.
Nel frattempo l’ansia contagia anche me: non so se ho ottemperato agli adempimenti dovuti e allora i programmi diventano il centro, ragazzi e ragazze una lontana periferia e scruto anch’io i colleghi per capire cosa fanno e come fanno.
Da tre anni insegno in classi totalmente femminili di un liceo psicopedagogico, dopo undici anni in classi miste di un istituto tecnico dello stesso paese della provincia di Bergamo, in mezzo l’interruzione di tre anni per un comando presso l’ufficio educazione alla salute del provveditorato, dove ho potuto capire e verificare la fondatezza delle mie intuizioni.
Qualche volta penso che oggi le ragazze sono le uniche a credere davvero ancora che la scuola consenta di ottenere un’identità sociale e l’uguaglianza delle opportunità. In questo senso il loro impegno è commovente e io non riesco a disilluderle perché è esattamente speculare al mio e insieme garantiamo la sopravvivenza di un’istituzione che non è stata pensata per noi, né come allieve, né come docenti, e di questo “non pensiero” porta tuttora segni evidenti.
Quasi dieci anni fa in un Convegno intitolato “La scuola smemorata” il Gruppo nazionale dell’Udi, Scienza della vita quotidiana, si interrogava, con l’aiuto di docenti di vari ordini di scuola, dalle Elementari all’Università, su quanto l’elaborazione delle donne e la loro presenza consapevole avessero intaccato luoghi e modi della trasmissione del sapere.
L’attribuzione alla scuola di una smemoratezza congenita faceva riferimento alla sua origine, fosse quella dei collegi militari o della ratio studiorum dei Gesuiti, come un luogo pensato e organizzato per la formazione delle classi dirigenti maschili.
Ad un ordine del mondo rigidamente gerarchico, nella struttura sociale come nell’articolazione dei saperi, corrispondeva un ordine scolastico che ne garantiva la riproduzione.
I cambiamenti della modernità, l’emergere di nuovi soggetti sulla scena della storia, quel nostro mondo che non riusciamo ad inscrivere in un ordine che non sia sotto la cifra della complessità quanto hanno intaccato la scuola?
Non mi sembra che abbiamo ancora seriamente ripensato la scuola a partire dalla democrazia come forma e fondamento del patto sociale tra cittadini e cittadine.
Persistono nella nostra scuola qualcosa di più delle semplici scorie o avanzi di una forma totalitaria o comunque illiberale e antidemocratica dello Stato e molto del disagio che produce viene forse anche dalla quotidiana frizione dei corpi e dei pensieri, cresciuti nel dopoguerra democratico, con gabbie, lacci, vincoli e regolamenti che ne mortificano la crescita e ne feriscono la maturità.
Qualche volta ho la sensazione che il mutamento sia solo quantitativo: più aule e più insegnanti per rispondere a quella scolarizzazione di massa che comincia in Italia con la riforma della scuola media unificata e il conseguente innalzamento dell’obbligo scolastico.
Si potrebbe definire un inizio di riforma che non ha mai trovato il suo completamento, ma ha rappresentato l’inizio di quel cambiamento dei destini femminili cominciato proprio con la possibilità di andare a scuola.
Conosciamo tutte i dati sulla scolarizzazione e su quello che oggi si definisce ‘successo formativo’ femminile che hanno ribaltato e ridicolizzato nei fatti la persistente convinzione di una minorità intellettuale delle donne, che non era mai stata modificata dalle figure femminili eccezionali che erano riuscite a ‘bucare’ il silenzio della storia.
La scuola sembra oggi un luogo di protagonismo sociale femminile, sono donne in maggioranza le docenti, sono ragazze a tenere alti i livelli del successo scolastico, ma l’insegnante è tra i lavori intellettuali peggio pagati e i risultati scolastici non trovano un andamento corrispondente nell’accesso al lavoro e nelle carriere.
Ora poi, in nome dell’efficienza, si considera spreco il livello con fatica raggiunto e si promuovono tagli del personale e delle risorse.
La scuola quindi sembra un luogo del disvalore sociale femminile se la confrontiamo con altri settori attraverso indicatori oggettivi come il rapporto tempo-professionalità-retribuzione-carriera o livelli di scolarità-occupazione.
La passione per il proprio lavoro, che la stragrande maggioranza delle insegnanti professa, va di pari passo con l’altissima incidenza del disagio che si esprime anche attraverso una diffusa abitudine alla lamentazione.
Passione e lamentazione segnalano un vissuto del corpo che rievoca un antico stereotipo femminile sedimentato in tempi di reale subalternità e fissità del ruolo sociale che dovrebbero sembrare molto lontani dalle nostre biografie.
Eppure la passione e il malessere, ciò che si esprime con il sentire immediato del corpo, segnalano anche una forma di resistenza e di non adattamento al luogo che varrebbe la pena di far emergere e tradurre nel codice verbale e nella comunicazione collettiva, rispettandone la vitale carica interrogativa nei confronti dell’istituzione.
Intanto si peggiora la qualità della scuola pubblica appena le donne hanno raggiunto la soglia della parità d’accesso, togliendo, oltre che finanziamenti, valore sociale all’unico luogo dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze possono crescere nelle pari opportunità e sperimentare una ricerca d’identità meno vincolata dagli stereotipi dell’appartenenza di genere.
La progressiva dissoluzione dell’idea di scuola pubblica non deriva solo dai vari provvedimenti legislativi, di cui non è questa la sede per indagare la storia, ma anche dall’enfasi posta sulla necessità che la scuola risponda alle scelte educative della famiglia, sbandierata come nuova e più ampia interpretazione della libertà.
Questa enfasi non crea soltanto spiacevoli confusioni sul senso della partecipazione democratica dei genitori, ma delegittima la soggettività di bambini e bambine, ragazzi e ragazze che non nascono solo come figli e figlie, ma anche come cittadini e cittadine di cui l’intera colledività di adulti e adulte deve promuovere il benessere e la libera crescita.
I figli ti attaversano ma non ti appartengono, forse tu come madre e padre appartieni a loro per sempre, ma loro appartengono a se stessi, alla propria vita, a quel futuro che, proprio come genitore, vuoi immaginare ben oltre il tuo.
C’è stato un tempo in cui abbiamo pensato la scuola pubblica come lo spazio dell’uguaglianza delle opportunità e della feconda mescolanza delle storie, dove il sapere critico fosse il terreno condiviso su cui muoversi, l’apprendimento il tempo giusto per la scoperta di sé e del mondo, lo spazio materiale il confine dentro cui proteggere e accogliere la difficile mutazione del diventare grandi insieme.
Con questo sogno ognuna di noi ha introdotto, spesso in solitudine, talvolta attraverso un progetto condiviso e riconosciuto, lodevoli iniziative per elevare il tasso di benessere o almeno abbassare quello del disagio, ma pratiche cooperative, l’assunzione e diffusione di un linguaggio rispettoso della realtà dei generi, nella vita come nella storia, non sono riuscite a scalfire il più complessivo ordinamento scolastico: abbiamo semplicemente introdotto quelle quotidiane migliorie o tappato quei buchi che ne hanno consentito una dignitosa sopravvivenza.
Abbiamo portato nella scuola come donne quell’attitudine al casalingato sociale attraverso la quale ci prendiamo cura, ognuna a modo suo, del piccolo collettivo e spazio che ci sono affidati, così come facciamo nelle nostre vite private.
Si tratta di un’attitudine positiva, non legata alla “natura femminile” ma prodotta dalla consuetudine sedimentata nel tempo, che può essere appresa facilmente anche dagli uomini. Questa attitudine però lasciata alla pratica individuale non esprime un’acquisizione consapevole degli strumenti di governo del contesto e non rappresenta né un’istanza di modifica, né una critica argomentata, ma semplicemente un costante sostegno che puntella le innumerevoli carenze e quindi, indirettamente, una conferma dell’esistente.
La politica delle Pari Opportunità nella scuola penso si sia attestata in questa faticosa pratica ed è in una condizione anche peggiore se consideriamo la sufficienza spocchiosa con cui viene, quasi ovunque, considerata, chi se ne occupa esplicitamente, con una svalorizzazione da parte delle donne stesse di una legge che, nel bene e nel male della sua applicazione, ha rappresentato un primo punto d’arrivo nella costruzione della cittadinanza femminile nel nostro paese.
Senza ripensare la vita concreta delle donne e l’apporto di sapere pratico e teorico rispetto al governo del tempo, alla gestione degli spazi, alla costruzione e salvaguardia delle relazioni di cui quotidianamente usufruiamo, non possiamo avere a disposizione un nuovo adeguato modello per la scuola che ancora si fonda su una concezione del tempo, dello spazio e delle relazioni tra i soggetti che prescinde dalla dimensione quotidiana della vita e dalla dimensione storica dell’esistenza.
La scuola è l’istituzione che esplicita alle giovani generazioni l’idea che abbiamo della cittadinanza e dentro questa dell’esistenza concreta di uomini e donne, grandi e piccoli nella collettività organizzata dallo Stato.
Vorrei, mentre si parla di riforma, poter proporre un rallentamento dei ritmi e una dilatazione dei tempi d’apprendimento a misura del piacere, del pensare, dello sperimentarsi e sperimentare, un ripensamento delle discipline e dei ruoli come occasione di crescita delle relazioni umane e dentro queste la costruzione della democrazia come insieme di pratiche su cui si fondano regole condivise di convivenza.
Non esiste democrazia se non cresce ogni volta e si rinnova, come l’erba ad ogni stagione, nella libera esperienza delle nuove generazioni.
Questo è il terreno sul quale va ripensata la scuola, a partire dalla vita concreta e dal come, da chi, da quali pratiche, esperienze, azioni, questa vita viene resa possibile, alimentata, cresciuta.
In questo senso ci aspetta un grosso lavoro come donne e insegnanti che mi sento di proporre anche agli uomini, e non solo come colleghi, se siamo tra quelle e quelli che non considerano la cittadinanza femminile, e quindi la cittadinanza di tutti, realizzata con la parità e soddisfacente nelle forme date.
Quel lavoro che ognuna di noi ha imparato a fare nella sua vita, di ridefinizione o distruzione dei ruoli, spostamento o mutamento delle relazioni con l’altro sesso, tra pari e con le altre generazioni, più piccole o più grandi che fossero, ora va pensato e portato direttamente nelle istituzioni e tra queste prima tra tutte la scuola che della democrazia è il cuore.
Relazione tenuta al Convegno “Reti di saperi, reti di luoghi delle donne. Scuola, Ricerca, Associazionismo” organizzato dall’Università di Lecce il 3 maggio 2002