La stanza dei bambini (2005)

La stanza dei bambini (2005)

Per Alice

di Rosangela Pesentii

in “La stanza dei bambini” a cura di Dolores Munari Poda, Quaderni di Psicologia, Analisi Transazionale e Scienze Umane n. 44 – 2005, Ed. La Vita Felice

Riassunto
Ho incontrato Alice a febbraio, a maggio se n’è andata.
I genitori mi avevano chiesto di accompagnarla per un tratto di strada difficile.
L’articolo racconta, in parte, questo nostro tempo insieme

Abstract
For Alice
I met Alice in February, in May she left.
Her parents asked me to be with her through this difficult stretch.
This article partially narrates our time together.

Eravamo con Dorothy e il suo cane, lo spaventapasseri e l’omino di latta, sulla strada di mattoni gialli. Lì ci siamo lasciate, davanti alla città dello smeraldo.

La prossima volta entriamo nella città, non so se la frase ha trovato la mia voce.
Davanti alla città dello smeraldo ci siamo salutate, io esausta, svuotata di pensieri, lei distaccata, seria. Ha preso la sua matrioska rossa e si è lasciata baciare.
Ho sulle labbra il sapore lieve della sua guancia, provo a escludere i pensieri e ritrovo la percezione della sua presenza, i fili sottili dei capelli, la forma della manina nella mia.
Nel vuoto una domanda risuona a lungo infilandosi nei miei pensieri come in un dedalo di corridoi oscuri.

La prima volta è entrata tranquilla, ha lasciato che la mamma se ne andasse, si è seduta sul divano e si è guardata intorno.
Mi chiede un fazzoletto, le offro quelli con le rose.
Si avvicina alla lavagnetta dove ci sono alcune immagini di gatti.
Tra tanti indica con un dito la fotografia che ho scattato alla mia gattina un giorno che mi guardava seduttiva stiracchiandosi sulla sedia a sdraio, al sole. “Dov’è adesso questo gatto?” mi chiede.
Resto senza fiato, m’imbroglio nelle parole come una bambina in un abito troppo lungo, invento che è stata malata ed ora è da una mia amica. Speedy è finita sotto un’auto qualche mese fa e il rimpianto è ancora vivo.
Lei mi guarda con indulgenza e tace, non sono brava a dire le bugie. Guarda compiaciuta i fazzoletti, mi chiede se so disegnare una rosa mentre si avvicina al tavolo e comincia ad esplorare fogli e pennarelli.
Si siede e mi indica il posto di fronte mentre comincia a tracciare vigorosi segni azzurri lungo il margine alto del foglio, orizzontale davanti a lei.
“Prova a disegnare una rosa e anche un gatto” mi dice.
Non sono tanto brava, avanzo dubbiosa per prendere tempo. Lei sembra correre avanti, decisa, e io posso solo seguirla. “Copialo da quelli là” risponde indicandomi le foto dei gatti. Ho un tuffo al cuore, ma lei pietosa sceglie un gattino rosso sconosciuto elegantemente seduto davanti a una finestra.
Disegniamo in silenzio, io uso i pastelli per camuffare la mia imperizia, lei con i tratti decisi dei pennarelli dipinge la linea del cielo sul margine superiore e un prato su quello inferiore su cui sembrano fiorire insieme una piccola viola e una bella signora con lunghi fluenti capelli rossi.
Questa signora si chiama Stella.
Dai capelli penso a una cometa. Annuncia o guida?
Approva il mio disegno e si dichiara insoddisfatta del suo, chiede aiuto per gli occhi ma poi fa da sé.
Disegna un’altra signora, di nuovo insoddisfatta da qualcosa di invisibile. Ancora gli occhi, c’è qualcosa che riguarda ciò che si vede o non si vede.
La infastidisce il suo occhio che si è spostato e guarda altrove, quando arriva toglie gli occhiali scuri, montatura rosa leziosa, che non la proteggono dai commenti involontariamente crudeli dei compagni d’asilo. Toglie gli occhiali e li lascia sul tavolo dell’ingresso.
Toglie le scarpe e si accomoda tra i cuscini del divano. Ma questo è dopo, quando la stanchezza si fa più forte e a disegnare fa male la testa.

Mi chiede se ho ancora i genitori, non posso proporle locuzioni vaghe, rispondo che sono morti. “Sono in cielo?”, “Penso di si”. Scelgo la risposta più semplice, si accontenta per ora, ma entrambe sappiamo che la questione della morte è tra noi e non verrà elusa.
Racconta di un cugino del nonno che è morto, un cugino che non parlava, ogni tanto guardo la sua foto e mi scende qualche lacrima.
Tu piangi? Si piange per i morti, è un modo per ricordarli, ma si può anche ridere con loro, ricordandoli.
Si porta a casa il mio disegno, dice che sono stata brava, e mi lascia i suoi.

È il suo compleanno, sei anni, tempera una matita che le ho regalato, ma le piace soprattutto la gomma multicolore.
Disegna tanti cuoricini perché è il giorno di S. Valentino, usa i pastelli e il disegno è scialbo, i cuori sono tracce dal profilo sbiadito. È triste e stanca, si sdraia sul divano, la copro con il mio scialle, mette il broncio perché vuole il maialino rosa ma non lo dice. Insceno una recita in cui io sono Alice che vuole il maialino, scambiamo le parti e io glielo regalo.
Il maialino rosa viaggia avanti e indietro un paio di volte poi me lo restituisce e vuole che io lo rimetta al suo posto.
Le chiedo della festa organizzata per la sera, cita tutte le persone che saranno presenti e mi spiega chi sono. Solo adulti, chiedo, per la prima volta parla di Riccardo “rompicoglioni” che non capisce, non capisce che io sono pesante, più pesante di lui e non possiamo stare in braccio insieme, anche i miei genitori pensano che sono leggera e invece io sono pesante molto pesante.
L’ascensore è rotto e la porto in braccio per una rampa di scale, è davvero molto pesante, sento che la mia schiena è al limite, sorrido, sono molto forte anche se non si vede, si fida.

E’ stanca, di tutto e tutti, lo dichiara a voce alta decisa. Sono stanca dei dottori, non ho voglia di disegnare, sono stanca, faccio un pasticcio, sorride birichina, uno scarabocchio, mi guarda con sfida. Sorrido sollevata allo scarabocchio che mi apre il cuore, penso a Winnicott. Scarabocchia un intero foglio, sorriso dentro sorriso come tenerci per mano, poi respira prende un altro foglio e un pennarello dopo l’altro nascono tanti puntini colorati, una fila che attraversa il foglio orizzontale e alla fine curva verso l’alto. Disegna nel mio respiro sospeso, cerco le parole giuste, lei sta aspettando, accetto il mio limite e vado per tentativi.
Cos’è, sono i bottoni dell’arcobaleno…la strada di Pollicino. S’illumina, è la strada di Pollicino.
Negli incontri successivi leggeremo tutte le storie di Pollicino che trovo nella raccolta di fiabe, c’è anche una Pollicina e una storia la vuole inventata da me.
La strada di Pollicino diventa un disegno ripetuto all’inizio di alcuni incontri successivi, un impegno costante, rassicurante, un dono da portare a casa, una per sé, una per il nonno, una per non so chi. I puntini multicolori attraversano i fogli bianchi perché una strada esiste da qualche parte e noi possiamo sempre trovarla. Puntini multicolori illuminano un sogno oscuro, tengono compagnia in un risveglio notturno, la penso che cammina in una costellazione multicolore.

Le piacciono tutte le cose che ci sono nello studio, vuole la casa delle bambole e la vetrinetta che sta nell’ingresso. Vuole tutti i libri delle fiabe.
Piagnucola, vuole la mamma, la faccio entrare e la tiranneggia, controlla che io non perda niente della scena. Resto in silenzio.
L’incontro successivo leggo ‘mamma nastrino’1, chiacchiera, racconta dell’asilo, dei nonni, descrive tutti con precisione, giudizi concisi, senza finzioni. Chiede ancora dei miei genitori, quando si diventa vecchi poi si muore, piagnucola, prima si cresce, si vive, si imparano tante cose, è un viaggio e la fine è anche una meta, una sorpresa e intanto si lascia il posto ai bimbi che arrivano che imparano a camminare sulle tracce di chi se n’è andato. Uso parole difficili, ascolta, chiede il significato. Anche lei racconta, descrive, giudica.
‘Che dici Alice?’, ‘vero Rosangela?’ abbiamo stabilito il nostro rassicurante intercalare.
Ci basta condividere le domande, le risposte sono vaghe o difficili o non ci sono.

Ha fame, in frigorifero c’è un avanzo di marmellata di rosa canina che mi aveva regalato una mia bimba grande sempre alla ricerca di pozioni magiche per lenire il dolore di vivere.
Alice l’assaggia, le piace, gliela spalmo sulla fetta di riso soffiato che in casa mia disprezzano sostenendo che sembra polistirolo. Ridiamo del fatto che piace solo a noi due.

Il giorno seguente vado a cercare la marmellata, che non si trova facilmente. Finalmente c’è un negozio dove possono procurarmela, tra quindici giorni, mi dicono, ma è troppo tardi, mi serve subito. Il signore del negozio mi guarda perplesso, anch’io cerco pozioni magiche?
Intanto mi accontento di tutti i tipi di fette di riso soffiato, rotonde quadrate rettangolari, più grosse più sottili.

Mentre lei è in bagno, e la sua stanchezza si fa più evidente, la mamma mi interroga pressante “Ce la farà vero? Anche tu pensi che ce la farà?”
Farfuglio risposte cercando un brandello di fiducia che sia autentico per la sua bella mamma sgualcita come un fiore investito dalla tempesta.
Alice è al fondo di ogni mio pensiero, non mi abbandona, non l’abbandono, la tengo avvolta nei miei pensieri come se potessi preservarla, portarla in salvo attraverso la tempesta che l’assale.

Chi ti ha regalato questo pulcino? Tra decine di oggetti minuscoli nella vetrinetta. “Mia mamma” rispondo. Tace. “A tua mamma dispiacerebbe se tu me lo regalassi”, tono affermativo, “ Mia mamma sarebbe contenta se ti regalassi un pulcino, a pasqua regalava sempre pulcini ai bambini”.
Un pulcino per Alice e uno per il suo fratellino.
Penso a mia madre, mi scriveva i biglietti d’auguri per il compleanno anche se ci vedevamo tutti i giorni, e i pulcini a pasqua. Mi manca.
Dove stanno i morti? Non lo so di preciso ma certo sono nel nostro cuore, è il posto più sicuro e nessuno può mandarli via.
La tua mamma può vederti adesso? Forse sì, mi piacerebbe, amava i bambini e loro stavano bene con lei.

Ma l’oggetto più affascinante è una matrioska scolorita confusa tra i libri sullo scaffale alto. Smontiamo e rimontiamo, fa sempre più fatica ad aprire le bambole, me le porge in silenzio quando serve aiuto. Le matrioske ci sono sempre tutte, l’una dentro l’altra nell’ordine più naturale, ogni piccola dentro la più grande. Ma chi è la matrioska più grande, forse la Rosangela, che dici, sorride e ride l’espressione distesa guardandomi con decisione, seria e complice, non oso abbracciarla.

I genitori sono giovani, due ragazzi appena cresciuti capitati in una storia troppo grande. Si cresce genitori con i propri bambini, si impara insieme giorno dopo giorno, è così che dev’essere. Invece Alice corre avanti, diventa grande in un tempo che non riesce a coincidere col nostro.

Alice è al fondo di ogni mio pensiero, attecchita come una piantina nella terra che dà forma al mio pensiero, una piega della mia vita, un trasalimento, un sussulto, lacrime che scendono in luoghi e tempi che non c’entrano, perché molte cose faticano ad entrare ora che lei c’è. Ora che lei non c’è.

Ho paura che la mamma muoia, la tua mamma è morta, non voglio che le persone muoiano. Ci sono cose che sembrano difficili quando le guardiamo da lontano, ma poi quando siamo vicini riusciamo a trovare la strada, è come imparare a camminare, imparare a scrivere. In autunno quando andrai a scuola e imparerai a leggere ti sembrerà facile e non ricorderai com’eri prima di imparare.
I morti sono davvero in cielo?, tu che dici Alice, forse, si forse ma sono soprattutto nel nostro cuore, per questo possiamo piangerli e ricordarli, li teniamo nel posto più sicuro.
Tu hai paura qualche volta, ti manca la tua mamma, ti senti sola, si mi manca ma se la penso, lei è sempre vicina e poi non sono sola, ci sei tu, i miei bambini, tante persone a cui voler bene, sono diventata anch’io una mamma.
Dipingiamo la paura così cerchiamo di vedere com’è fatta.
Le ho comprato una scatola di acquarelli nuovi. Seduta per terra stende senza esitazione lunghe strisce di azzurro pastoso sul foglio bianco, le pennellate acquose aggiungono luce e spazio, passa e ripassa, nuvole bianche e turchine si stemperano, si sciolgono. Resto in silenzio vicino a lei. La paura è un cielo azzurro troppo grande per i pensieri di una bambina, troppo grande per i miei pensieri. Catturato sul foglio si può tenere in mano e portare a casa.

Le ho comprato un vassoio di legno piccolo su cui appoggiare la merenda e i bicchieri con le mele.
La tosse è un tormento che la scuote, la ignora impugnando il pennello, tenace.
Le passo i fazzoletti in cui sputare, quelli bianchi, usuali, perché quelli con le rose vuole conservarli.
Ci vuole l’acqua di maggio per questa tosse, diceva la nonna di una mia amica. Arriverà la primavera e si porterà via la tosse, poi l’estate e il mare…Mi guarda seria e indulgente, fermo i pensieri, prendi anche tu un pennello, mi dice. Resta qui con me, adesso, segui i miei passi, sei grande ma non abbastanza da sapere. Ci parliamo in silenzio, lavoriamo operose come api.

Sono arrabbiata, arrabbiata, arrabbiata, sono arrabbiata con tutti i dottori, non ne posso più, devi avere pazienza dicono, non voglio più avere pazienza. Hai ragione ma che possiamo fare. Devi guarire. I dottori fanno quello che possono, che sanno fare, che dici Alice. Si ma sono arrabbiata.
Dipingiamo la rabbia. Sceglie un blu denso, cupo, si arrabbia quando il pennello si esaurisce in una tonalità più dolce. Ripassa il colore con forza, mi chiede di aiutarla, ma poi ripassa anche dove io ho già steso il colore. Il cielo vago e lontano che suscita paura è invaso da una bufera cupa, una rabbia blu che circoscrive un tempo, uno spazio, diventa un evento vissuto che ha un inizio e una fine. Dipinge con il viso concentrato e il polso fermo, gocce di blu schizzano sul pavimento oltre il grande foglio che funge da tappeto. Il mio silenzio è gradito, respiro sul ritmo del suo. Quando si alza da terra il foglio è intriso di blu. Schegge di lapislazzuli, guado, indaco, la rabbia è un processo alchemico complesso, sintesi di molti sentimenti, passaggio, trasformazione. Guardo il foglio che lasciamo ad asciugare mentre ci immergiamo nelle fiabe.

Vuole tante fiabe, sceglie nella collezione di libri formato tascabile con la copertina gialla2, senza figure, libri da grande. Ogni libro raccoglie le fiabe di un paese, lo illustro brevemente come se fossi a scuola, poi leggo l’elenco dell’indice e lei sceglie.
Quando sono al momento culminante della fiaba mi ferma, leggine un’altra. Tante storie sospese, è possibile fermare il tempo. Solo se le invento lascia che arrivi la fine. Vuole una fiaba con Pollicino, poi una fiaba con la matrioska.
Mi addentro in boschi remoti, le betulle d’argento della mia infanzia e il lago che si apre come un fiordo quando arrivo in cima. Col fiatone, mentre lei mangia tranquilla le fette di riso soffiato su cui spalmo la marmellata di rose.

Voglio dipingere la felicità, entra decisa e si mette al lavoro. L’acquarello sul foglio trasuda luce verde, la felicità è un prato di erba nuova, la primavera che aspettiamo, l’acqua di maggio che porta via la tosse, i vestiti leggeri. La speranza che coltiviamo insieme.
Ricordo un temporale estivo che ci ha sorpresi in un prato, noi piccoli, io e i cugini, con la nonna. E l’erba dopo si era ricomposta, lucida di pioggia, noi ridevamo contro lo spavento dei grandi.
Un prato verde per Alice e tutte le stagioni, voglio essere vecchia come la nonna. Non riesco a varcare il presente, i pensieri vagano in un labirinto con le pareti sempre uguali e io mi ritrovo nello stesso punto. Confusa. Mi prende per mano, mettiti lì e leggi, io mi siedo al tuo posto. Si accomoda sulla mia poltrona, i piedini penzoloni e le braccia allargate sui braccioli, io sono l’allieva che si esercita nella lettura. Penso al piccolo principe e alla volpe, mi sta addomesticando con pazienza. Niente sarà più come prima.

Ti devo dire una cosa di cui mi vergogno, sono stanca, non voglio più venire, la strada è troppo lunga, vieni tu da me. Hai ragione, la strada è davvero troppo lunga, quando sei stanca devi solo dire alla mamma che non vuoi venire, qui puoi fare quello che vuoi, anche i capricci, qui puoi dire tutti i no che vuoi, quasi tutti. Sorride. Vieni tu da me, ma come faccio a portare anche lo studio. Si guarda intorno e sospira.
Vieni quando vuoi abbiamo tanto tempo, ci vedremo in autunno quando andrai a scuola e poi verrai a trovarmi quando sarai all’università e poi mi porterai i tuoi bambini e io sarò una vecchietta.
Il mio tono cerca la sintonia del suo sguardo per non sbagliare rigo, lei mi guarda con fiducia, respiriamo insieme. Cambia discorso.

Mio fratello non si decide a crescere sai, fammi un disegno per il suo compleanno, ha già tre anni e non cresce, non cresce, continua a fare il piccolo. Ne parla con piglio materno, adulto, insofferente e sbrigativa, lui è troppo piccolo, lei troppo grande, lui può crescere con lentezza la sua infanzia, lei ha poco tempo e un’intera vita da vivere. Mi guida mentre disegno, suggerisce le parole, penso al piccolo che rallenta il tempo, cerca di fermare questa sorella che cresce troppo in fretta. Lei è un turbine che li travolge.

Vogliono uscire da soli, i genitori, tu che dici Rosangela. E tu che dici Alice, forse dovresti farli uscire, i grandi hanno bisogno dei loro tempi altrimenti non si capiscono più. Ne parliamo in bagno mentre fa la pipì, l’aiuto a lavarsi le mani, c’è una saponetta rosa, piccola, solo per lei, e una salvietta rosa con l’orlo a gigliuccio, l’unico lavoro portato a termine alla scuola media, ma non credo di averne fatto più di metà. Non ricordo chi l’ha finito. Ci sono cose che si perdono irrimediabilmente o vengono dimenticate nei cassetti più remoti della memoria.
Ho deciso di lasciarli uscire da soli ogni tanto. Sono d’accordo. Hanno bisogno, vero Rosangela. Penso proprio di sì.

Entra, toglie gli occhiali, si guarda intorno, è tutto in ordine. Ha l’aria affaticata, respira, mi guarda, possiamo dipingere la pazienza, aiutami anche tu. Fa davvero fatica a stendere il colore, si appoggia con una mano sul pavimento, le propongo di mettere il foglio sul tavolo, rifiuta, dobbiamo finire. Faccio fatica anch’io, riempiamo il foglio di un bel giallo solare, i pennelli si affiancano, s’incontrano, le lunghe strisce di colore s’intrecciano senza sbavature. Lasciamo il foglio ad asciugare sul pavimento, si allunga sul divano e toglie le scarpe, prendi le fiabe e leggi. Leggo e spalmo fette di riso soffiato, lentamente, anche il tempo sembra allungarsi, è il nostro piccolo infinito.

Sono brutta, si guarda allo specchio mentre lava le mani dopo la pipì, non è vero dico incauta, è vero, è così, mi guarda severa, a me comunque piaci molto, moltissimo, anche questo è vero, ti sembro una che dice le bugie, no ma comunque sono brutta, possiamo avere opinioni diverse, che dici. Accetta. Ho visto le sue fotografie di ‘prima’ ma non le ricordo, mi piace davvero così paffuta, anche se so che si tratta del cortisone e mi piace il suo occhietto storto tondo e azzurro come l’altro e i capelli sottili sempre sparsi in cerca di una direzione. Mi piace davvero Alice così cicciottella, la pelle candida e le guance rosate, come in una prima infanzia prolungata che non esiste più nei suoi discorsi.

È in ospedale, le telefono una sera, me la passa il papà, la voce trepidante, lei parla piano, a fatica, monosillabi, mi diranno che è stata contenta, che ha fatto presente ai medici che il mercoledì lei deve venire da me, le mando una fatina, nell’ora vuota sistemo lo studio, metto un chiodo per una fatina con le ali di seta rosa.
Manca un’altra volta dopo l’ospedale perché sta ancora male.
Riempio le giornate di tutto il lavoro possibile, un’ora dopo l’altra in ordine, prima dell’alba e dentro la notte oltre la soglia del sonno, chiudo ogni pertugio per non sentire il turbine dei pensieri.
La realtà esiste solo pensata, cerco di sperimentare l’inverso e sono esausta.
La domenica mattina vado a un mercatino in cerca di una matrioska. La trovo quando ormai disperavo, ne scelgo una piccola, dipinta di un bel rosso sfavillante.

Non l’aspettavo, anche se tutto è sempre pronto per lei. Cammina a fatica, piccoli passi barcollanti, mi sembra cresciuta di statura, diventata più grande, ha voluto venire a tutti i costi, dice la mamma.
Passa dal suo braccio al mio, appoggia quello giusto per sostenersi, l’altro fa male.
Si siede sul divano, cerco di sollevarla per aiutarla a sistemarsi meglio, è ancora più pesante, si abbandona alle mie braccia, le tolgo le scarpe e lascia fare.
Le metto in mano la matrioska che ho comprato, mi guarda, affondo nei suoi occhi come in una nebbia opalescente, l’aiuto ad aprire le bambole, l’ultima è piccolissima, sorride, l’aiuto a chiuderle, mi passa i pezzi.
Resto accanto a lei, misuro il mio passo col suo, cresciamo insieme velocemente, imparo a fermare i pensieri e le parole nascono dalle mani, gli oggetti, il respiro di questa stanza che pensa per me.
Preparo il vassoio, scelgo io la fiaba e lei approva, è un libro con le figure. Camminiamo passo dopo passo sulla strada di mattoni gialli fino alla fine dell’ora, fino alla città dello smeraldo3.
Mi interrompe solo all’inizio, dopo il tornado. Non ha la mamma questa bambina? Le fiabe non raccontano la realtà, rappresentano in modo fantastico e simbolico il percorso della vita, le tappe importanti, sono sintetica e difficile ma non me ne accorgo, nelle fiabe le bambine imparano a crescere, un’impresa, un viaggio che ognuno deve fare da solo, le persone che ami vengono con te perché sono nel tuo cuore. Una metafora arcaica eppure sono proprio lì i sentimenti, nel cuore, dove pulsa la vita.
Dopo il tornado la piccola Dorothy parte con la sua piccola speranza alla ricerca di una strada per il ritorno.
Leggo lentamente, il libro sulle ginocchia mentre preparo fette di riso soffiato con la marmellata di rose, ascolta e mangia, la casa di Dorothy turbina nel tornado e plana sulla perfida strega dell’est, attraversiamo un bosco, un fiume, si uniscono a noi l’omino di latta alla ricerca del cuore e lo spaventapasseri che vuole il cervello, poi un leone che cerca il coraggio, siamo una compagnia strampalata e affiatata, seguo il ritmo del suo respiro faticoso, camminiamo sulla strada di mattoni gialli, il colore della pazienza, finalmente appare la città dello smeraldo, verde come la felicità, i prati, la speranza.
La prossima volta entriamo, insieme, la prossima volta.

È arrivata la mamma, andiamo in bagno per la pipì, laviamo le mani, la mamma lava la manina sinistra, io la destra, ci guardiamo sopra la sua testa, cerchiamo di sorridere, la teniamo insieme, lei più piccola, in mezzo a noi, le braccia allargate, le mani nelle nostre mani, guarda davanti a sé, nello specchio. Come in un rito iniziatico, ho il cuore in gola e non so perché.
Scrivo appunti professionali, asettici, poi la sera mi fermo in studio e apro il mio diario, sono stremata. Sento la sua manina liscia di sapone tra le mie mani grandi sotto l’acqua che scorre.

Chiudo gli occhi e mi siedo sul divano, sento la sua spalla contro la mia, il rumore delle fette di riso sgranocchiate, il respiro faticoso, i capelli sottili contro la mia guancia, le nostre mani allacciate intorno alla matrioska nuova da smontare e rimontare.
Per un momento gli occhi persi dentro gli occhi, per un momento.

È la piccola regina di un paese del nord, verranno a prenderla gli gnomi e la porteranno nel suo regno di ghiaccio, tra pinnacoli d’argento e lunghe ombre azzurre, assomiglia alla matrioska che tiene in mano, rosso e giallo del sole, del tuorlo d’uovo, del fiore di tarassaco che mi ha portato un giorno, becco e piume del pulcino di pasqua, immensa e piccola, infilo la mia mano nella sua che mi trattiene, se richiudo le mie dita sento ancora le sue, lisce piccole e paffute. Per quanto?
Ci allontaniamo su strade diverse, la cerco nel posto più sicuro. Respiro.