La rosa d’inverno (2010)

La rosa d’inverno (2010)

Da Rosa a noi: il personale è politico
di Rosangela Pesenti
in “La rosa d’inverno. Attualità di Rosa Luxemburg”, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2010

(…) E compratemi subito ancora una piccola giacca lilla per 2 marchi e 45 perché è l’indumento più indispensabile che si possa avere.(…)
A Gertrud Zlottko 4 agosto 1913

Qualche tempo dopo la riunione in cui abbiamo pensato a questa iniziativa sono stata ad un convegno su Eraclito organizzato dall’università di Bergamo con la partecipazione di Serge Mouraviev, uno studioso che ha dedicato quarant’anni della sua vita alla ricostruzione del libro di Eraclito, impresa filologica che ha raccontato in una serie di volumi (sedici se non sbaglio). Il suo intervento, molto atteso, è stato semplicemente, e straordinariamente, la lettura del libro di Eraclito secondo la sua ricostruzione sequenziale dei frammenti.
Prima ha letto tutto il testo in greco perché noi potessimo ascoltare il ritmo di Eraclito e poi tutta la traduzione in francese, la sua lingua d’adozione, lasciando i suoi colleghi stupiti e, come tutti noi ascoltatori, emozionati. Così semplicemente e straordinariamente noi abbiamo avuto la sensazione di ascoltare la voce autentica di Eraclito, tanto che alla fine abbiamo perfino ravvisato una somiglianza fisica tra Muraviev e l’immagine che ci è giunta di lui e forse è davvero così, come accade negli amori di lunga durata, quando i due amanti finiscono per assomigliarsi.
Ecco, ho pensato, vorrei un convegno su Rosa costruito così: un gruppo di studiose che sceglie tra i vari testi quello che più sente risuonare nel profondo della sua storia e il pubblico, alla fine della lettura, pone domande, alle quali ogni studiosa risponde facendo emergere la densità di ogni singola frase perché non l’ha semplicemente letta, ma meditata e interiorizzata fino ad avere la capacità di evocare la persona di Rosa per chi ascolta.
Un convegno che metta in gioco non semplicemente le competenze di studiosi e studiose, ma la capacità dei corpi pensanti di ricostituire quella vicinanza, quella contiguità, che consente alle parole di risuonare di nuovo vive tra noi, un corpo a corpo in cui la nostra voce diventa un prestito e un tramite, e il nostro pensiero sul suo lascito l’approssimazione più verosimile e insieme la fioritura dei semi che lei ha tenacemente piantato.
In fondo si definisce interpretazione sia l’analisi esercitata su di un testo, con gli strumenti della critica, sia la capacità di farlo rivivere recitandolo, attraverso l’esercizio del corpo e della voce.
Le parole di Rosa invece, qui in Italia almeno, stanno prevalentemente chiuse dentro i libri, pochi e quasi introvabili nelle librerie, e perfino nelle biblioteche, e quando viene citata il suo nome scivola spesso tra la superficialità della svalutazione politica, l’uso strumentale e l’inconsistenza di un’immaginetta d’altri tempi, degna dell’interesse di minoranze, di “nicchia” come si usa dire.
E questo nonostante l’impegno, la passione, la competenza, dei vari curatori della sua opera, da Lelio Basso fino ad Anna Bisceglie che ha curato l’ultima raccolta tematica di lettere nel 2008.
Rimossa dalla politica, ignorata dall’economia, dimenticata dalle donne stesse: grazie alle filosofe il movimento femminista in Italia ha conosciuto molte donne cancellate dalla storia, ma sono più noti i nomi di mistiche medievali che non quello di una rivoluzionaria geniale, concretamente pacifista, testimone di libertà di vita e originalità di pensiero, come lei.
Non a caso spicca l’eccezione di Rita Levi Montalcini, che l’ha inserita tra le 70 donne eccezionali “pioniere nella società e nella scienza dall’antichità ai giorni nostri”, nel bel libro dedicato alle “antenate”.1
Forse per questo ho amato il film di Margarethe von Trotta (1986), sparito quasi subito dalle sale al tempo della sua uscita in Italia e quasi introvabile in seguito, se non attraverso qualche cinefilo politicamente orientato.
Non entro nel merito di una critica cinematografica, ma certo si trattava di un’impresa veramente difficile, eppure quando l’ho visto ho pensato che era Rosa, una possibile probabile Rosa, non il vero ma il verosimile, come acutamente ha osservato a suo tempo la storica Natalie Zemon Davis a proposito del film prodotto sulla base della sua ricerca su Martin Guerre, dicendo che mentre ascoltava la voce dell’attore le è parso di avere a disposizione “un vero e proprio laboratorio storiografico, un laboratorio in cui l’esperimento non generava irrefutabili prove, bensì possibilità storiche”.2
Il film ha rappresentato un raro tentativo di far conoscere Rosa ad un mondo più grande, quel mondo di gente comune del quale Rosa si sentiva intimamente parte, pur nella sua geniale singolarità, e per la cui dignità ha lottato per tutta la sua breve esistenza.
Grazie alla potenza dell’immagine, del mezzo, nel film c’è soprattutto il corpo, un corpo di donna che può evocare il suo corpo di donna, esposto nei riti umilianti delle carcerazioni, mortificato dalla violenza ottusa della soldataglia che procede alla cattura e al suo assassinio, ma anche colto nella forza trascinante della sua eloquenza, tenera e ironica, sempre lucida, efficace e rigorosa, in un comizio come nelle relazioni più intime.
Von Trotta cerca di immaginare il muoversi fisico di Rosa dentro il ritmo dei pensieri che conosciamo solo attraverso la scrittura.
Il film infatti è un collage e si avverte che la regista ha utilizzato più la scrittura che le poche fotografie come fonte per immaginare il corpo vivente, perché si sente l’andirivieni di Margarethe stessa che prova a muoversi dentro gli scritti di Rosa, che diviene il suo passo lievemente claudicante ma deciso, l’energia della sua voce, il fascino che si espande dalla sua persona, capace di una seduzione libera ed esplicita, fuori dagli infingimenti mortificanti in cui s’avvolgono ancora oggi molte biografie femminili.
Una vita interamente politica nel senso più etico del termine, non solo per le scelte di militanza o la fondamentale riflessione economica, ma fin dentro le pieghe più intime della sua gioiosa e insieme dolente esistenza.
Negli anni, nei momenti importanti, in cui gli eventi si succedono convulsamente e la sua presenza sarebbe necessaria e forse, chissà, determinante, alla sua voce, alla sua persona, è applicata l’interdizione feroce del carcere, che non è del tutto superabile nemmeno dal suo incessante impegno nel conservare e tessere legami attraverso le lettere.
Il 15 aprile 1917 scrive, dalla prigione di Wronke, all’amica Louise:
“ (…) puoi immaginare quale formicolio avverta in tutte le membra e come ogni novità della Russia mi si propaghi fino alla punta delle dita come una scarica elettrica. Ma nondimeno il non partecipare a quei moti non mi rende affatto triste e non mi viene in mente, lamentandomi per ciò che non posso cambiare, di sciupare la gioia che provo nel vedere quanto accade. (…) non predico un qualsiasi ottimismo fatalista e comodo, destinato a mascherare la propria impotenza (…) Ad ogni istante sto al mio posto, e, se me ne sarà offerta la possibilità, mi affretterò a strimpellare con dieci dita sulla tastiera del piano del mondo, cosa che farà un bel baccano! Ma siccome non per colpa mia, ma a causa della costrizione esterna sono stata ‘messa in congedo’ dalla storia mondiale, mi faccio una bella risata, sono felice quando le cose funzionano, anche senza di me”.
Non c’è in queste parole soltanto la capacità di trovare dentro di sé il senso del proprio essere al mondo, presente all’accadere delle cose senza mai essere ‘presenzialista’, che pure sarebbe stato un atteggiamento legittimo e ragionevole proprio per la qualità umana e politica del suo intervento sulla scena politica, ma c’è anche l’indicazione di un modo di essere, di stare e fare, dentro la politica, che non si esaurisce nei luoghi e nei momenti delle grandi vicende, ma vive nella consapevole necessità di un quotidiano esercizio di ricerca della conoscenza di sé, di quella che più volte definisce la parte migliore di sé, per poter comprendere il mondo.
Le lettere sono, ad un tempo, espressione e indicazione di vita perché Rosa parla di sé con gioiosa libertà senza dimenticare mai la responsabilità nei confronti dell’interlocutore, che sia un’amica cara, un conoscente o le masse.
Scrive infatti più avanti…
Quando si ha la cattiva abitudine di cercare una gocciolina di veleno in ogni fiore schiuso, si trova, fino alla morte, qualche motivo per lamentarsi. Guarda quindi le cose da un angolo diverso e cerca il miele in ogni fiore: troverai sempre qualche motivo di sereno buonumore. Inoltre, credimi, il tempo che – così come altri – attualmente passo sotto chiave, neanche questo tempo è perduto. (…) Sono del parere che si deve semplicemente, senza voler essere troppo cattivi né scervellarsi, condurre la vita che si reputa giusta, senza esigere d’essere pagate subito in moneta sonante per tutto ciò che si fa. Alla fine, tutto sarà ben ricapitolato; e se così non sarà io ‘proprio me ne infischiò, anche senza la vita è per me una tale fonte di gioia: tutte le mattine ispeziono scrupolosamente le gemme di ogni mio arbusto e verifico dove ce ne sono; ogni giorno faccio visita a una coccinella rossa con due puntini neri sul dorso che da una settimana mantengo in vita su un ramo, in un batuffolo di calda ovatta nonostante il vento e il freddo; osservo le nuvole, sempre più belle e senza sosta diverse, e in fondo io non mi considero più importante di quella piccola coccinella e, piena del senso della mia infima piccolezza, mi sento ineffabilmente felice.”3
Non c’è, in questo paragonarsi alla coccinella, nessuna traccia di quella modestia che da sempre viene indicata come virtù alle donne, dalla cui meschinità Rosa era lontanissima, come da ogni costrizione alla subalternità.
Esprime invece il suo amore per la vita che è, prima di tutto, sentirsi parte del vivente, avvertire il senso della propria pochezza di fronte all’esistenza, che non è solo la breve storia umana, ma il mistero di questa nostra storia dentro quella molto più grande della terra e dell’universo.
Le sue lettere sono dense di un’osservazione minuziosa del mondo che le sta intorno; la sua è appunto l’attitudine della scienziata che guarda e vive con la stessa passione le relazioni umane, di cui coglie in ogni momento, e non solo nelle riunioni o nelle manifestazioni, la dimensione politica del vivere insieme, e l’essere creatura umana dentro la concretezza del mondo.
Si intuisce proprio dalle lettere come la ricerca di Rosa spazi in un terreno ben più ampio di quello disegnato dalla politica del suo tempo e come il mondo sia per lei la singolarità di ogni cosa, ogni vivente, ogni essere umano, in tutti i livelli dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, mai indagato in astratto.
Il sentimento che sentiamo vibrare nelle sue parole non è un vago sentimentalismo, ma la percezione del proprio essere vivente tra i viventi e si avverte in lei l’intuizione della necessità di oltrepassare la visione gerarchica degli esseri, anche tra animali e umani, quella visione fondata sulla separazione tra corpo e anima su cui il pensiero religioso ha impiantato i fondamenti del potere in occidente.
La sensibilità, certamente acuita dalla carcerazione, è sempre per lei uno squarcio che si apre ad una nuova conoscenza, ad una più raffinata possibilità di analisi, anche di sé, e la cura per la coccinella non è il passatempo della reclusa, ma la pratica di una cura non dissimile dal modo con cui resta in relazione con i compagni di partito, anche quando prenderanno decisioni che lei, molto più lungimirante, non condivide.
La cura per la coccinella così come le immancabili descrizioni di uccelli e nuvole, fiori e insetti, di cui rende partecipi gli interlocutori con linguaggio poetico, letterario nel senso più alto del termine, rappresentano l’ampiezza del suo instancabile impegno, proprio perché sono il tentativo di trasmettere sentimenti: un modo di sentire il mondo che per lei è tutt’uno con il desiderio di conoscerlo e trasformarlo.
Penso che lo studio delle scienze naturali, dalla botanica alla geologia, di cui richiede l’invio dei testi agli amici, discipline che sembrerebbero lontane dall’economia come dall’impegno politico, non sia stato per Rosa un passatempo carcerario, ma l’avvio di una vera e propria pista di ricerca, nata dalla profondità geniale del suo sentire, che le condizioni, i tempi bui e la morte prematura non le hanno consentito di proseguire.
Scrive a Mathilde Jacob, alla quale ha affidato l’amata gatta Mimì, ringraziandola per i fiori ricevuti:
“Non so se vi ho già mostrato i miei erbari in cui, a partire dal maggio 1913, ho classificato più o meno 250 piante, tutte magnificamente conservate, le ho tutte qui come alcuni atlanti e adesso posso aprire un nuovo quaderno”.4
E più avanti:
“Per distrarmi leggo la storia geologica della Germania. Pensate un po’, nelle placche d’argilla del periodo algonchiano, cioè l’epoca più antica della storia del globo, quando non esisteva ancora la minima traccia di vita organica, quindi milioni e milioni di anni fa, si sono trovati in Svezia, in una di queste placche di argilla i segni delle gocce di un breve acquazzone! Non vi potete immaginare quale effetto magico ha prodotto in me questo buongiorno venuto da epoche lontane. Non leggo nient’altro con altrettanto interesse appassionato come i libri di geologia.”5
L’economista che ha intuito l’inevitabile sbocco colonialista e militarista come dimensione intrinseca e non casuale del capitalismo, avverte certamente il limite di una descrizione scientifica dell’esistenza e del mondo funzionale al modello di dominio del capitalismo stesso. Non lo mette a tema, non ne ha il tempo, ma si butta comunque nello studio.
Non esiste una Luxemburg economista e dirigente politica separata dal mondo interiore che affiora in tutte le sue lettere, non c’è la leader che mostra in pubblico la forza d’animo e lascia alla dimensione privata le debolezze sentimentali del femminile, come qualcuno ha pensato, ma la complessità di una donna che si misura con un mondo maschile patriarcale e maschilista senza cedere alla tentazione dell’imitazione, conservando in ogni situazione quella coerenza che oggi definiremmo ‘partire da sé’ per disegnare la molteplicità della sua relazione col mondo.
Ci racconta del bufalo che soffre o della cinciallegra che l’accompagna nella passeggiata con un linguaggio poetico e noi sentiamo che nella sua percezione non esiste gerarchia d’importanza e per lei l’essere umano è tale non perché superiore, ma solo nella misura in cui assume, nei confronti della vita che misteriosamente cresce intorno, un atteggiamento di responsabilità e rispetto.
Se il mito della razionalità scientifica ha costruito anche un modello linguistico ‘oggettivo’ dietro il quale nascondere la realtà storica del soggetto che parla, e spesso ipocritamente la realtà ignobile dei suoi fini, Rosa usa sempre la lingua come strumento che può ampliare e non ridurre le possibilità espressive, nelle lettere intime come nei testi teorici, scritti con precisione anche tecnica dei termini, ma sempre con una sintassi chiara, comprensibile, efficace e la limpida esplicitazione della funzione del testo stesso.
Nel marzo 1917 scrive all’amico Hans Diefenbach.
“Io mi sento come un calabrone gelato; non avete mai trovato nel giardino, durante le prime mattinate fredde d’autunno, un calabrone che giaceva sul dorso nell’erba, tutto intontito dal freddo, come morto, le zampette accartocciate, la pelle ricoperta di brina? Solamente quando il sole lo riscalda per bene le zampette cominciano a muoversi lentamente e a stendersi, poi il piccolo corpo si rigira e infine si solleva pesantemente ronzando nell’aria. Io mi sono sempre prefissata di inginocchiarmi vicino ad uno di questi insetti gelati e di infondergli con la bocca il calore della vita.”6
Nell’empatia e rispetto con cui si accosta al calabrone gelato noi possiamo trovare il fondamento etico della relazione di un essere umano con il mondo come luogo di convivenza e di condivisione, relazione che per Rosa non può mai essere fondata sulla legittimazione del dominio.
L’empatia, cioè la forma di conoscenza che consente di oltrepassare le barriere tra me e l’altro, oggi considerata qualità indispensabile per l’esercizio delle professioni fondate sul ‘prendersi cura’, è la qualità specifica che fa di Rosa non solo una brillante economista, ma una scienziata geniale e apre nei suoi testi piste di ricerca che noi possiamo percorrere, oggi che diventa più che mai attuale il suo monito “o socialismo o barbarie”.
Anche questa è la dimensione politica di Rosa, alla ricerca del senso della propria esistenza tra le mura di una prigione come in un comizio di piazza o in un acceso dibattito sul giornale, senza smettere mai di interrogarsi su di sé e sul mondo, impegnata nella minuta pratica politica dell’organizzazione, ma capace di sentire che non bastano le rivendicazioni economiche o la conquista del palazzo d’inverno: per costruire il socialismo serve cambiare lo sguardo sul mondo e il cambiamento più profondo è quello che cresce nel vissuto di ogni singola persona, nel suo modo di essere nel mondo e di spiegarlo a se stessa.
Nel rapporto con il vivente abbatte la categoria della superiorità per assumere quella della responsabilità che resta poi la cifra di ogni sua relazione, dalle più intime alle più formali.
Responsabilità di sé, della propria autonomia e coscienza come del proprio pensare e agire, fondamento di un dialogo sempre autenticamente paritario con il compagno, l’amante, le amiche teneramente amate o con le masse, di cui non dimentica mai la dimensione delle innumerevoli singolarità individuali, la necessità che ognuno si trasformi perché tutto si trasformi.
Il suo invito costante è quello di stare dentro la storia senza dimenticare di essere parte del mondo: non smettere di guardare le nuvole in tutte le loro mutazioni. “D’altronde bisogna sempre che viva al ritmo della vita che mi circonda.”7 scrive a Sonia Liebknecht, e un mese prima all’amico Hans:
“Avete già notato come è bello e ricco il colore grigio? Ha qualcosa di nobile e di discreto, racchiudendo tante possibilità. E quanto erano mirabili questi toni grigi nel loro contrasto col fondo azzurro pallido del cielo! Proprio come un abito grigio si addice a degli occhi di un blu profondo. Nel frattempo il grande pioppo del mio giardino frusciava, le sue foglie vibravano come in un fremito voluttuoso luccicando al sole. Durante le ore in cui ero totalmente immersa nelle fantasticherie grigie e blu, ho avuto l’impressione di vivere migliaia di anni.”8
Questa parte, che sembra solo intima e poetica, delle sue lettere, per quanto la poesia sia una delle forme più alte di conoscenza, è uno dei lasciti più straordinariamente attuali di Rosa perché ciò che forse i suoi contemporanei non potevano comprendere fino in fondo è come al centro, al cuore della sua rigorosa riflessione economico-politica ci fosse il sentimento profondo di un essere, non a caso una donna, che cerca l’armonia del vivente in ogni frammento infinitamente piccolo dell’esistenza, l’intuizione che è necessario un cambiamento ben più radicale di quello semplicemente economico, che deve investire, insieme alle istituzioni del vivere umano, le forme del pensiero, i modelli della conoscenza, i paradigmi scientifici, i sentimenti.
Non una generica tensione etica alla salvaguardia della vita, ma quasi un abbozzo di un vero e proprio programma di studio.
C’è in Rosa l’intuizione della necessità di capovolgere i paradigmi correnti di definizione della conoscenza che separano rigidamente gli ambiti disciplinari, e lei li va esplorando freneticamente, dalla botanica alla geologia, senza trascurare filosofia, letteratura, arte, e senza dimenticare mai il qui ed ora della storia in cui si trova a vivere, senza dimenticare mai la sua capacità di essere guida per le donne e gli uomini che cercano la giustizia sociale.
Una strada da lei solo intuita, che poi esploreranno, in anni più recenti, altre donne, altre scienziate femministe.9
Il 7 gennaio 1917, dalla fortezza di Wronske in Posnania scrive all’amico Hans Diefenbach:
“Tremo al pensiero che fino alla fine della mia esistenza io debba restare circondata da questa fortezza…’I troni crollano, i regni affondano’, il mondo è capovolto – ed alla fine non esco dal ‘circolo funesto’ di alcune dozzine di persone, sempre le stesse e i cambiamenti apparenti coprono una situazione stagnante. Quindi, aspettatevi di tutto! Non so ancora quello che succederà di me; io stessa sono, come sapete, una terra dalle possibilità inesplorate.”10
Non sentimentalismo quindi e nemmeno un generico umanesimo, ma l’intuizione di un diverso approccio, anche una diversa lingua e sintassi, per il rigore scientifico, e insieme la radice di una vera e propria educazione sentimentale che non trascura nulla dell’essere umano.
Profondamente morale, alla ricerca del bene, senza essere mai moralista o bacchettona: Rosa amava i bei cappelli, i fiori, le ‘giacche lilla’11; ‘morale’ nel senso di quelle che Natalia Ginzburg, in un bel saggio, ha definito le grandi virtù,12 non il risparmio ma la generosità anche con se stessa, prima di tutto con se stessa. C’è una fioraia in una piccola stazione che la conosce bene “perché non passo mai senza comprare un piccolo mazzo di fiori, con i miei ultimi centesimi”13, e compra i fiori con gli ultimi centesimi, ma non i biglietti della lotteria.
E all’amica Sonia, a proposito della protagonista di un romanzo giudicata severamente da Clara Zetkin, scrive (18 febbraio 1917):
“Ma com’è duro e puritano il suo giudizio sulla nostra – la vostra e la mia – Irene, su questa povera e adorabile creatura che è troppo debole per aprirsi un varco nel mondo a forza di pugni e che resta come un fiore schiacciato! Clara pretende di non avere la minima comprensione per queste ‘signore’ che non sono che degli ‘apparati sessuali e digestivi’. Come se ogni donna potesse diventare ‘agitatrice, stenotipista, telefonista o qualsiasi cosa di ‘utile’ del genere! E come se le belle donne – la bellezza non è solamente un viso grazioso, ma anche la delicatezza e la grazia interiori – come se le belle donne non fossero già un regalo del cielo perché sono un piacere per gli occhi! E se Clara si erge come un arcangelo armato di spada fiammeggiante sulla porta dello Stato dell’avvenire per cacciare le Irene, le rivolgerei, a mani giunte, questa preghiera. Lasciaci le dolci Irene, anche se servono solo ad abbellire la terra, come i colibrì e le orchidee. Io sono per il lusso sotto tutte le forme.”14
Nelle sue parole, sottraendosi allegramente alla severità anche di molte femministe del tempo, oltre che delle socialiste impegnate tra le donne, dimostra di essere vicina alle storie reali e non al dover essere che da sempre impone alle donne il disciplinamento del corpo.
E se in quel tempo la lotta delle donne socialiste è stata sconfitta e messa nell’ombra, insieme all’area che si definiva femminista, e quella storia è rimasta sepolta per quarant’anni, è per lo stesso motivo per il quale è stato sepolto il pacifismo delle tante associazioni nate dopo la guerra franco-prussiana del 1870 e la repressione della Comune di Parigi, fiorite nelle speranze della Belle Époque all’inizio del Novecento e cancellate dalla furia della Prima guerra mondiale. Come ha osservato acutamente la storica Franca Pieroni Bortolotti, “restò una zona di diffidenze, di malintesi, di disaccordi, tra il mondo di Bertha Von Suttner da un lato e quello di Rosa Luxemburg dall’altro. Furono due mondi che non riuscirono a congiungersi, e da quel varco passarono le forze della guerra.”15
Rosa è pienamente consapevole dei caratteri del momento storico in cui si trova a vivere.
Già due anni prima, il 31 agosto del 1915 scriveva dal carcere a Franz Mehring a proposito del cattivo tempo e del pessimo umore, contestandogli affettuosamente che dipendesse dall’età:
“(…) anch’io sono dipendente dal tempo come una rana e una pioggia d’autunno mi fa, a volte, sembrare tutta la mia esistenza come una messinscena sinistra e noiosa. E che cos’è quindi la giovinezza se non quest’inalterabile passione al lavoro, quest’umore combattivo, questo gusto di ridere?”
E più avanti:
“E’ vero che la situazione nel suo insieme, è così confusa che non esiste neanche spazio per una vera passione per la lotta, tutto è ancora in movimento, il grande terremoto sembra non voler finire mai. E’ terribilmente difficile determinare la strategia e ordinare la lotta su di un piano così instabile e così devastato. (…) La catastrofe ha acquisito una tale ampiezza che i normali criteri di colpevolezza e di sofferenza umane non sono più applicabili.”16
L’invito a ritrovare il gusto di ridere dentro la consapevolezza di una tragedia dalla quale sente talvolta di essere sopraffatta, così devastante da travolgere il significato stesso delle parole, esprime la sua capacità di leggerezza, di guardare lucidamente alla catastrofe senza abbandonarsi alle iperboli del catastrofismo, cercando in ogni circostanza la misura della propria possibilità di agire, anche solo sul proprio umore.
Scrive con quella leggerezza che Calvino ritrova nei versi di Montale quando mette in primo piano le minime tracce luminose contrapposte alla buia catastrofe.17
Non c’è separazione tra i sentimenti, il suo sentire il mondo, esserne parte viva, e trovare le parole per raccontarlo nella dimensione della storia umana a lei accessibile, quel pezzo di passato e futuro che s’incardinano nell’inspiegabile attimo del presente. In questo senso per lei vale la frase ‘il personale è politico’, molto prima che diventasse la consapevolezza del femminismo.
L’ho scelta per il titolo perché è stata tra gli slogan più declamati e meno spiegati del movimento femminista, eppure sempre straordinariamente attuale.
In un libro del 1978, che affronta per primo il tema, leggiamo
“Chi provasse a dare una spiegazione letterale dello slogan ‘il personale è politico’ probabilmente si troverebbe, suo malgrado, ad affermare delle banalità che non renderebbero giustizia della densità del problema. Al di là del suo presentarsi come una formula buona per tutte le occasioni, questa frase rappresenta invece il punto d’intersezione di una serie di problemi che non trovano una spiegazione lineare e tantomeno una connessione gerarchica tra di loro.”18
In realtà è semplice come l’uovo di Colombo: il punto d’intersezione è l’essere umano e dal significato che diamo a questo termine discende la dimensione della politica, lo spazio-tempo in cui gli esseri che rientrano nella categoria umana, donne e uomini quindi, costruiscono lo stare insieme, secondo abitudini e regole, desideri e necessità, memori o smemorati del passato e in ascolto o sordi del futuro.
A lungo non considerate esseri umani a pieno titolo, le donne hanno rivendicato questa semplice verità facendo saltare ogni artificiosa divisione fra la politica, come sistema di consuetudini, leggi e procedure che legittimano l’economia del dominio e dello sfruttamento, e “personale” come luogo privato in cui si strutturano le relazioni tra i sessi e le generazioni, luogo di un’economia della riproduzione19 come spazio separato, domestico, escluso da qualsiasi attribuzione di valore, in cui una parte della popolazione, generalmente le donne, eroga servizi a puro titolo di sostegno dell’ideologia dominante che prevede il predominio del maschile.
Per Rosa così come c’è differenza, ma non gerarchia, tra un insetto e un umano, allo stesso modo il dominio e lo sfruttamento tra umani non appartengono alla politica ma alla barbarie.
Oggi ancora si moltiplicano gli esempi della barbarie, nella legittimazione della disuguaglianza, nell’esaltazione del privilegio, nel sessismo e razzismo che tornano ad abitare i comportamenti minuti della normalità quotidiana, ma sembra persa la speranza del socialismo, quella speranza che Rosa ci invita a coltivare con pazienza e passione.
Si racconta che la Politica ai suoi albori è stata inventata come patto tra uomini, maschi, bianchi, ricchi, sani, autoctoni, che hanno definito sé come persone e la politica di conseguenza come ciò che era di loro personale attribuzione e proprietà, escludendo le donne, tutte, di qualsiasi ceto, e poi stranieri e straniere, handicappati/e, maschi e femmine con caratteristiche differenti, lavoratori e lavoratrici, inventando le parole dell’inferiorità, della schiavitù, della servitù, del razzismo.
Un patto tra uomini che chiama sempre e comunque in causa le donne perché senza il precedente contratto sessuale,20 senza cioè l’accondiscendere, da parte delle donne, alla riproduzione della specie, non esisterebbe nessuna politica.
Rosa pensa e vive la politica come il partire da sé e verificare sé in tutte le relazioni
“Sforzati di restare un essere umano. E’ veramente questo l’essenziale. (…) Restare un essere umano, cioè gettare, se necessario, gioiosamente tutta la propria vita ‘sulla grande bilancia del destino’ ma allo stesso tempo rallegrarsi per ogni giornata di sole, per ogni bella nuvola. Ahimè! Non conosco la ricetta che permetterebbe di comportarsi come un essere umano, so solo come lo si è (…)”21
Ciò che siamo lo testimoniamo con la vita.
La necessità della lotta politica è per lei radicata nella consapevolezza che anche il dolore è parte dell’esistenza, ma non cercare di lenirlo o, peggio, aggravarlo in qualsiasi modo nella vita di chiunque, è un atto criminale.
Lo stesso sentimento dell’essere partecipe in quanto ‘parte’, che esprime anche quando racconta a Clara Zetkin della folla di donne che l’accoglie e la festeggia all’uscita dalla prigione e scrive:
“io non sono altro che l’asta alla quale hanno legato la bandiera del proprio entusiasmo in generale per la lotta”22
Il sentimento con il quale accoglie il dolore di Sonia: non le scrive solo per dare conforto, ma per aiutarla ad uscire da una lettura avvilente della propria debolezza.
“Non parlatemi delle ‘donnicciole isteriche’ uccellino mio. Non capite, non avete notato che le donne migliori soffrono lo stesso vostro male? Guardate gli occhi della povera Marta, dove c’è una sofferenza indicibile e una paura inesprimibile, la paura che le porte della vita si siano già chiuse e di non aver saggiato, gustato la vita reale. (…) Non ve ne parlo per darvi una consolazione insipida che vi farebbe dimenticare la vostra sofferenza perché altre la condividono. So che per ogni essere umano, per ogni creatura, la propria vita è il solo bene, l’unico bene di cui dispone e ogni moscerino che si calpesta senza accorgersene è ogni volta la fine del mondo; per gli occhi di questo moscerino che si spengono è come se la fine del mondo annientasse ogni forma di vita. No, vi parlo delle altre donne affinché non sottovalutiate il vostro dolore, non lo denigriate, affinché non capiate male voi stessa e non deformiate l’immagine che avete di voi stessa. (…) Abbiamo alcuni maledetti anni davanti a noi, ma dopo tutto dovrà, deve cambiare, in una maniera o nell’altra. Non dovete, non avete il diritto di chiudere i conti fin d’ora, è ridicolo. Vorrei ancora immergervi in tutta l’ebbrezza della felicità di vivere e difenderò fermamente il vostro diritto a tutto ciò.”23
Rosa resta sempre autenticamente se stessa, donna, senza finzioni e camuffamenti; non alimenta il mito dell’eroe perché sa che l’esaltazione della forza e della durezza appartengono alla cultura della guerra, ad un modello gerarchico dell’essere umano che radica lo scontro nell’individuo stesso e ne fa un corpo armato, sempre potenzialmente pronto ad uccidere o morire.24
I libri, la scrittura, sono il mezzo, certamente il più economico, con cui trasmettiamo l’eco dei nostri pensieri, la sintesi di qualche frammento della nostra esistenza, ma ciò che siamo e ciò che diventiamo passa dal misterioso corpo a corpo delle relazioni umane, quelle che Rosa cerca di trasmetterci in ogni momento della sua breve esistenza, consapevole della potenzialità insita nel mostrare il dolore, vicina ad una donna come ad un moscerino perché vicina a sé.
Viviamo oggi in una babele di linguaggi, le parole sembrano diventate puri segni, anzi segnali di riconoscimento in codice dentro circoli ristretti, tra persone che si confermano nelle complicità, senza rapporto con le cose, la realtà, lo scorrere della vita e anche per questo è così pericoloso l’aver trasformato uno straordinario strumento di comunicazione come la TV in un surrogato di mondo in cui i nostri corpi virtuali si aggirano senza toccarsi mentre i corpi reali ammutoliscono e muoiono.
La borghesia ha vinto anche dentro le coscienze arrivando a manipolare l’immaginario fino a determinare una sorta di mutazione antropologica, ma da questo punto noi possiamo ricominciare, dall’interrogarci, donne e uomini, su ciò che è umano senza mai perdere di vista la condizione materiale dentro cui nascono e crescono gli umani e le umane.
La crisi del capitalismo, di cui Rosa intuì la mondializzazione colonialista e la deriva militarista, ha reso più visibili le strutture di dominio patriarcale da anni denunciate dalle donne; anche dentro le catastrofi ambientali determinate dall’economia di mercato, possiamo cominciare a vedere nuove risorse, non nell’invenzione di marchingegni tecnologicamente più avanzati per lo sfruttamento, ma proprio nelle potenzialità inespresse di nuove relazioni tra umane/i, uomini e donne che rileggono le proprie storie e sperimentano inedite possibilità nella gestione della vita.
Dagli scritti di Rosa possiamo trarre preziose indicazioni economiche e politiche, ma anche l’insegnamento di come dignità e responsabilità, senso del limite e coraggio dell’azione costruiscano la dimensione etica delle relazioni.
Non una pacificata serenità, ma la capacità di agire il conflitto sociale e politico rifiutando la logica guerresca della cancellazione del nemico, che nella sua vita è stata la capacità di cercare nell’esistente, nella situazione più oscura, il seme da coltivare per una rinnovata speranza.
In questi tempi bui in cui le religioni ridiventano l’oppio dei popoli e di nuovo appare legittimo somministrarlo ai bambini e alle bambine perché imparino fin da piccoli l’ipocrisia, vorrei che utilizzassimo gli scritti di Rosa per imparare la profonda spiritualità di quella cultura che è stata con disprezzo definita materialista, la cultura di chi non dimentica mai che il mistero più profondo vive nell’alto dei cieli come nell’energia delle nostre cellule, dove nascono la fame e la sete di cibo e di bellezza, di casa e sapienza, di lavoro e contemplazione; bisogni, non vaghi desideri, soprattutto di futuro, che non può essere trovato fuori dall’armonia con il mondo in cui viviamo e senza la pace tra esseri umani.
Scrive a Sonia il 2 maggio 1917, a proposito dei suoi studi di scienze naturali:
“Proprio ieri ho letto un libro sulla causa della scomparsa degli uccelli canori in Germania: la manutenzione razionale delle foreste sempre più estesa, la coltivazione dei giardini e l’agricoltura fanno sparire una ad una tutte le loro naturali possibilità di nidificare e di trovare nutrimento: alberi cavi, terreni incolti, sterpaglie, foglie morte nei giardini. Stavo così male leggendo tutto questo. Non mi preoccupo del canto degli uccelli per gli uomini, ma è la rappresentazione della scomparsa silenziosa ed irresistibile di questi piccoli esseri senza difesa che mi ha addolorata al punto tale che non ho potuto trattenere le lacrime. (…) [anche i pellerossa] come gli uccelli sono stati cacciati a poco a poco dai loro territori dagli uomini civilizzati e destinati ad una scomparsa silenziosa e crudele. (…) Talvolta ho la sensazione di non essere un vero essere umano, bensì un uccello o qualche altro animale che ha preso una forma umana: nel profondo, mi sento molto più a casa mia in un piccolo angolo di giardino come qui o in campagna, tra l’erba, circondata dai calabroni che…in un congresso di partito. A voi posso dire tutto ciò: non sospetterete subito un tradimento del socialismo. Voi lo sapete, malgrado tutto spero di morire al mio posto, in una battaglia di strada o in prigione. Ma nel mio cuore appartengo più alla mie cinciallegre che ai ‘compagni’. E non perché nella natura trovo un rifugio, un luogo di riposo, come tanti uomini politici che non hanno più nulla nel cuore.”25
In poche righe la storia e il partito, l’impegno e la polemica, l’ironia e il sogno, le ragioni del cuore al cuore della ragione di un desiderio che, lo sappiamo, era un presagio. A noi resta l’eredità di costruire un mondo in cui ci sia posto per le cinciallegre.