Donne a Bergamo dalla protostoria al XX secolo (2005)

Donne a Bergamo dalla protostoria al XX secolo (2005)

Protagoniste bergamasche del Movimento delle donne nel Secondo Novecento
In Donne a Bergamo dalla protostoria al XX secolo, Comune di Bergamo, 2009
Atti di quattro cicli di conferenze dal 2003 al 2008

Quasi un decennio ci separa dalla fine del secolo che ha visto in Italia l’affermazione della piena cittadinanza delle donne, ottenuta attraverso la variegata crescita di un movimento che ha conquistato per tutte i diritti civili, politici e sociali, promuovendo in pochi anni un cambiamento epocale delle relazioni tra gli esseri umani.
Di questa rivoluzione, l’unica pacificamente vittoriosa del novecento, la storia è ancora dispersa nelle mille e mille vicende di singole donne e gruppi in tutta Italia.
Dobbiamo a quel desiderio di storia, avvertito profondamente dalla generazione delle ragazze che hanno portato nelle piazze e nelle case il sentimento femminista della politica e della vita, se hanno potuto avere volto e voce le altre, quelle che passo dopo passo, tenaci nonostante i molti ostacoli e le colpevoli cancellazioni, avevano costruito nel nostro paese la possibilità del futuro e la democrazia.
Anche a Bergamo, dentro la drammatica vicenda della seconda guerra mondiale, hanno agito donne e sono cresciute ragazze capaci di proporre quel pieno protagonismo della propria vita che ancora oggi rappresenta l’anello forte di una catena di relazioni tra donne che, pur nell’andamento carsico delle vicende del movimento, riesce a trasmetterci il senso dell’esistere per sé e farsi radice profonda per la vita delle generazioni future.
A me è bastato l’incontro con una storia, con una donna, per avviare una ricerca che muove oggi ancora i suoi primi passi, ma può trovare un sostegno nella presenza, anche a Bergamo, di un consistente fondo archivistico del movimento delle donne.
Mi è stato chiesto di affrontare questo tema perché sono stata, a Bergamo, una delle donne del neofemminismo, segretaria provinciale dell’Unione donne italiane tra la fine degli anni ’70 e fino alla fine degli anni ’80 o, se vogliamo già calarci negli eventi, tra la lotta per la 194, con l’affermazione dell’autodeterminazione delle donne nel referendum, e la denuncia politica della vergogna legislativa riguardante la violenza sessuale, che ha visto un primo successo nella norma che la riconosce come delitto contro la persona e non contro la morale. In mezzo l’XI Congresso dell’Udi che ha segnato l’associazione e il femminismo italiano in modi che ancora non appartengono purtroppo all’indagine storica.
Sono stata poi fino al 2003 una dirigente nazionale dell’Udi, tenacemente convinta che la democrazia ha bisogno di luoghi di dibattito in cui crescere e le donne hanno più che mai bisogno di luoghi politici per riconoscersi come soggetto storico, e nel frattempo mi sono occupata della salvaguardia e conservazione degli archivi del femminismo e dell’Udi a Bergamo.1
Insieme alla politica delle donne mi sono sempre occupata di storia delle donne e in particolare di alcune ricerche sulle donne dell’Udi.2
Sono inoltre un’insegnante di storia nella scuola media superiore.
Ho voluto partire da alcuni elementi della mia biografia perché proprio nella scuola mi sono trovata a fare i conti con una storiografia totalmente o quasi declinata al maschile, ma questo dato non sarebbe stato rilevante senza quel desiderio di essere nella storia e avere una storia,3 che mi sembra oggi il filo profondo che unisce tanti e diversi pezzi della mia vita, che cuce la riflessione su quello che sono a quello che faccio quotidianamente.
Desiderio di conoscere quella storia di cui i libri di scuola (anche all’università) erano muti, quella storia che oscilla tra stereotipi “inenarrabili”, le mogli madri figlie sorelle, l’infinita tessitura della vita quotidiana sottratta alle categorie della comprensione e all’elaborazione della conoscenza trasmessa nelle sedi ufficiali, e pochi nomi “eccellenti”, per successo o scandalo, declinate negli aggettivi delle tipologie maschili o nei miti dell’eterno femminino che oscurano la storia delle donne più che renderla accessibile alle giovani generazioni.
Parlare di una storia di donne declinata in un dato tempo e spazio, per noi circoscritti all’area bergamasca e al secondo dopoguerra, è molto più complicato che parlare di quella storia maschile che è ampiamente sedimentata come storia tout court.
Per quanto il racconto del passato sia sempre orientato dalle domande del presente e la storia sia comunque una giovane disciplina, per la cosiddetta storia generale abbiamo una strumentazione di criteri interpretativi che guidano lo storico attraverso la complessità delle vicende umane e consentono di costruire un racconto di ampia condivisione. Le donne, espulse di fatto da questa tipologia di racconto delle vicende storiche, rischiano sempre di essere ingabbiate nelle informazioni aggiuntive, lette attraverso categorie poco significative sul piano dei grandi mutamenti epocali, confuse nell’indistinto del ‘genere’ o assimilate, attraverso l’esercizio di un ruolo, alle comuni categorie di lettura delle biografie maschili.
Non a caso i primi lavori storiograficamente significativi saranno diretti, a partire dagli anni ’70, ad una profonda rivisitazione della presenza e dei ruoli svolti dalle donne durante la seconda guerra mondiale, tradizionalmente letti attraverso le categorie di ‘contributo’ e ‘partecipazione’ francamente insufficienti a rendere visibile l’articolata e diffusa azione femminile, sottovalutata perfino nella dimensione numerica, oltre che nella capacità di segnare e determinare il processo storico nel vivo delle singole vicende.
Ricordo a questo proposito il primo di questi libri, dal titolo significativo “La Resistenza taciuta”, pubblicato nel 1974 e le ricerche di Anna Bravo, che attraverso la ricognizione della molteplici forme di presenza femminile propongono una rilettura di tutto il processo sociale e politico di quegli anni.
Scrive A. Bravo: “(…) Si tratta nell’insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sul piano sia materiale sia spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; (…) Agli occhi dei più, resistente è chi ha combattuto in montagna, si è scontrato con gli ultimi fasciste e tedeschi nei giorni della liberazione, ha sfilato nelle città incarnando anche fisicamente l’irrompere del nuovo. In seconda istanza viene il politico riconosciuto, militante o dirigente che sia. Figure inermi e debolmente organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo. Così le donne. Nello stesso schieramento antifascista si fatica a prendere coscienza di questo dualismo, tanto più a superarlo.”5
E più avanti, dopo aver ironizzato su qualche studioso che parla talvolta di ‘problema delle donne’ quando il problema è in realtà dello storico e della storiografia, pone la questione della costruzione di un’immagine stereotipata della resistenza anche attraverso la costrizione, reale e simbolica, delle donne dentro gli schemi della tradizione.
“La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della liberazione come versione evoluta del velo? Sarebbe un’ironia, se si pensa che nella guerra appena conclusa a garantire la vita sono state donne visibili a livello di massa nella sfera pubblica come mai prima; ma darebbe un elemento in più per comprendere alcuni aspetti che ci sta a cuore sottolineare. In primo luogo l’enorme legittimazione accordata al materno in quei momenti e la sua poca resa in termini di libertà e di potere femminile a emergenza finita; poi la difficoltà della nuova Italia a trovare un fondamento dell’identità nazionale che andasse oltre la figura del maschio combattivo; infine la scarsa propensione dell’oggi a riconoscere il significato di quella scelta e a ridiscuterne lo spirito.”6
Se guardiamo all’anno di pubblicazione di queste ricerche ci accorgiamo che sono anche l’esito della crescita di una generazione di storiche capaci di porre al passato domande significative perché profondamente radicate nella ricerca di senso del proprio individuale presente.
Sono gli anni del femminismo diffuso, con l’irruzione sulla scena politica di una nuova generazione di donne che grazie alla scolarizzazione e all’eredità dei diritti, conquistati faticosamente a partire dal dopoguerra, pone domande inedite alla cittadinanza e quindi alla storia.
Ha poco senso a mio avviso raccontare storie di donne dal dopoguerra nel succedersi cronologico delle generazioni, perché in questa storia, e per il presente nostro, sono perfino più significative le censure le rimozioni le distorsioni e manipolazioni operate dalla storiografia ufficiale. Sono più significativi il vuoto e il silenzio che la scuola ha offerto alla prima generazione di ragazze che hanno avuto accesso agli studi superiori a partire dagli anni ’60, perché proprio quella generazione ha saputo interrogare quel vuoto e quel silenzio restituendo non solo verità e visibilità storica a tante donne e vicende, ma in un intreccio fecondo con la memoria ancora viva delle tante protagoniste, riallacciare un rapporto politico che ha consentito il balzo in avanti di tutte nell’affermazione di quella cittadinanza rimasta incompiuta nonostante il dettato costituzionale.
In assenza di studi sistematici e approfonditi, per i quali sarebbe necessario probabilmente un impegno specifico dell’università più che il volontaristico interesse di poche ricercatrici, anche a livello locale, può essere ragionevole cominciare il racconto dalle condizioni e dai soggetti che l’hanno reso possibile.
Nel mio caso questa ragione vale perché ha messo radici nella passione politica di quegli anni un ininterrotto interesse per la generazione precedente, quella delle ragazze uscite dalla guerra e dalla resistenza, delle donne che hanno conquistato anche per noi il diritto di voto, la tutela della maternità, la cancellazione della prostituzione di Stato, la generazione delle madri che hanno investito le figlie del loro desiderio di emancipazione favorendone l’accesso agli studi e al lavoro.
Non si tratta comunque solo di quel ‘partire da sé’ che resta l’elemento di concretezza col quale abbiamo misurato con le nostre vite il mondo che si muoveva intorno, senza distinzioni ipocrite tra privato e pubblico, ma anche dell’affermazione della rilevanza storica dei soggetti stessi che pongono le domande e concorrono alla ricerca e scrittura di un passato che non può diventare memoria senza quel movimento di scelta e responsabilità che ogni generazione successiva ha nei confronti della precedente.
All’inizio degli anni ’70 anche a Bergamo i collettivi femministi sono numerosi, sia in città che in provincia, e rinasce l’Udi, la tradizionale organizzazione delle donne di sinistra, soprattutto comuniste e socialiste, impegnata, a partire dalla battaglia per il divorzio, in forme sempre più autonome dalla politica dei partiti, grazie anche alla creativa invenzione di quella che fu chiamata la doppia militanza.
Bisogna partire da quegli anni se vogliamo capire la storia della multiforme espressione sociale e politica a cui diamo il nome di movimento delle donne perché si trattò di uno sguardo politico rivolto contemporaneamente al futuro, per l’affermazione di una libertà ancora sconosciuta nella costruzione della maggior parte delle biografie femminili, e contemporaneamente rivolto al passato, alla ricerca delle donne concrete grazie alle quali si era costituita quell’eredità giuridica di cui potevamo beneficiare.
Ricordo che quando sono arrivata all’Udi, prima come femminista invitata al X Congresso nazionale nel 1978, poi come membro del comitato provinciale e meno di due anni dopo come segretaria provinciale, interrogavo le compagne più vecchie di me sull’origine dell’associazione, le donne che l’avevano fondata e costruita a Bergamo. Nella sede non c’era documentazione precedente al 1970 e nessuno sembrava conservare memoria di fatti. Noi stesse del resto, prese da una frenetica attività, che intrecciava le grandi battaglie politiche alle pratiche di autocoscienza e alla costruzione delle prime strutture di solidarietà e/o esercizio dei nuovi diritti di informazione e cura di quel corpo sessuato e riproduttivo assunto finalmente nella sua centralità biografica e valore sociale, avevamo poca cura dei nostri “prodotti” politici.
Volantini senza data, appunti senza nome, intense affollate riunioni senza verbali o registratori, grandi manifestazioni senza fotografie, faticose e significative mediazioni tra gruppi e donne di esperienze e appartenenze diverse che non hanno depositato nessuna memoria politica.
A nostra giustificazione posso dire solo che eravamo troppo occupate a gestire un presente in cui ci sentivamo chiamate ad essere con la nostra vita testimoni della solidità dell’emancipazione e contemporaneamente ad occupare il terreno della politica con quelle pratiche di democrazia diretta che sembravano prefigurare tra noi il vago mito della liberazione.
Non è un caso che il dibattito politico tra donne girasse spesso intorno a questi due termini, poco indagati all’inizio dal punto di vista storico, ma che segnavano nel nostro immaginario due tappe storicamente successive per cui conquistata l’uguaglianza avremmo affermato quella nostra specificità che negli anni ’80 si sarebbe definita come differenza.
Non sapevamo quasi nulla dell’elaborazione politica delle donne che ci avevano precedute. Nelle vicende che studiamo come storicamente rilevanti le donne invece ci sono, ovviamente direi, e non solo come quella metà della popolazione che tiene in mano la sopravvivenza attraverso la cura delle relazioni concrete tra individui e tra individui e risorse, ma anche nel vivo delle azioni e nell’elaborazione teorica. Abbiamo scoperto con amarezza che ad ogni “tornata storica” le donne vengono cancellate e con più violenza e acrimonia proprio quelle che hanno portato elementi significativi non solo alla causa delle donne ma per il miglioramento della vita di tutti.
Resta la domanda sul come questa cancellazione avvenga, con quali forme azioni parole gesti degli uomini, con quali collusioni e complicità delle donne.
Quella domanda che non formulavamo compiutamente, ci incalzava comunque.
In quegli anni tenevamo insieme tutto: studio, lavoro, bambini, incontri tra donne, militanza nei partiti o nelle formazioni della sinistra cosiddetta extraparlamentare, associazioni culturali e religiose, sperimentazioni di consultori e assistenza legale per le separazioni, primi studi e convegni di storia delle donne, con un corto circuito fecondo tra un privato, in cui si trasformavano rapidamente le relazioni tra uomini e donne e tra genitori e figli, e un pubblico in cui cercavamo di affermare insieme al diritto all’autodeterminazione una presenza che cambiasse le forme della politica in senso che definirei, per brevità, più democratico. Ovviamente anche questa parola richiederebbe una più accurata discussione col sostegno di una storia fatta di uomini e di donne.
Di quegli anni a Bergamo non c’è ancora una storia scritta e anche a livello nazionale non si è andate molto oltre la raccolta della documentazione e la costruzione degli archivi di cui abbiamo alcune pregevoli descrizioni con accurato commento da parte delle curatrici.
Manca soprattutto un’interpretazione storica dell’emergere negli anni ’70 di un grande movimento capillarmente esteso in tutte le regioni italiane, che ha segnato un’intera stagione politica dentro e fuori dei partiti, con quella straordinaria capacità propositiva che ha modificato l’assetto legislativo portando a compimento il dettato costituzionale. Il divorzio, la cancellazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore e soprattutto la 194, con l’affermazione del valore sociale della maternità e l’autodeterminazione della donna in ordine alla procreazione, aprono la strada alla riforma del diritto di famiglia, con l’equiparazione dei diritti e doveri dei coniugi e dei figli nati dentro e fuori del matrimonio, e alla legge di parità con il corollario della azioni positive e infine la legge contro la violenza sessuale.
Un cambiamento che non investe solo il campo legislativo, grazie anche alla costruzione di sapienti alleanze con e tra parlamentari donne, ma che il movimento porta dentro le relazioni e le coscienze cambiando in modo irreversibile la società italiana. La debolezza sarà proprio nel rapporto con le istituzioni: l’arretratezza della struttura partitica, oltre che più in generale dei vari centri di potere della società italiana, non consentirà al movimento delle donne di esprimere una presenza politica adeguata proprio nelle più alte istituzioni dello Stato e renderà poco significativa sul piano del cambiamento quella diffusa sul territorio.
Le donne, la cui presenza cresce per un certo periodo nelle amministrazioni locali non riusciranno ad ottenere un’adeguata rappresentanza in Parlamento e a partire dalla fine degli anni ’80 comincerà quella sconfitta che dal campo politico vedrà un arretramento anche sul terreno sociale fino all’attuale situazione con il riemergere del patriarcato nelle sue forme più paternalistiche e violente e la diffusione di un’immagine femminile tradizionale e subalterna lontanissima dalla concretezza dei vissuti di milioni di donne e ragazze.
Se vogliamo capire il movimento delle donne nel secondo dopoguerra non possiamo non interrogarci su quella prima grande cancellazione che attraverso gli anni ’50 riduce e mortifica l’immagine di quelle che forse dovremmo cominciare a definire ‘le madri’ della Repubblica, senza le quali si deforma il senso per il quale ricordiamo i padri.
Ho cominciato a pormi domande sull’Udi e sulle donne dell’Udi di cui avevo letto i nomi nei verbali dei C.L.N.: Lina Dasso, Velia Sacchi, Lavinia Guastalla, socialista la prima, comuniste le altre.
La percezione di una precarietà politica che vivevo nella fatica quotidiana di trovare sedi adeguate per le nostre iniziative e risorse per la sopravvivenza minima delle nostre sedi, oltre che nei difficili equilibri delle nostre vite, mi spingeva a cercare di capire come e perché si era creato un vuoto di iniziativa e presenza tra noi e le ragazze della Resistenza anche a Bergamo.
Mi chiedevo quali meccanismi sociali e politici avessero cancellato o circoscritto la voce di donne che, incontrate poi personalmente, mi avrebbero affascinata per la lucidità politica con cui rileggevano la propria stessa esperienza giovanile offrendomi quello spessore storico senza il quale la mia stessa esperienza diventava trasparente come carta velina.
Non racconto qui una ricerca lineare, un impegno definito e costruito con il supporto di una strumentazione disciplinare adeguata. Si è trattato di un percorso ad ostacoli, portato avanti per vie traverse, mentre la vita correva convulsamente negli impegni di lavoro, famigliari, politici; un percorso che niente e nessuno incoraggiava e nemmeno chiedeva conto.
Di questo percorso tortuoso hanno trovato per ora forma compiuta l’archivio di cui accennavo all’inizio e la storia di Velia Sacchi.
Avevo cominciato incontrando Lina Dasso, la professoressa come la chiamavano tutti, una signora arguta e garbata di salda convinzione socialista, poi Lavinia Guastalla, comunista, una donna fisicamente provata dalle malattie e da un dolore ‘politico’ che nascondeva con grande dignità.
Di lei ricordavano il cattivo carattere, lo stesso di Teresa Noce, perché questa è la definizione con cui si emargina una donna che pensa con la propria testa e non accetta compromessi.
Di lei Velia poi mi dirà che era una donna bellissima, molto intelligente e di grande capacità oratoria, una donna libera e questo non le veniva perdonato anche all’interno del partito.
Comunque entrambe, Lina e Lavinia, mi esortarono a cercare Velia, che ricordavano come una donna ‘diversa’, più libera, più intelligente e soprattutto che credeva davvero nelle donne.
Ho incontrato Velia a Roma, dove abita dal dopoguerra, molte e molte volte, per intervistarla, ma anche per il piacere dello scambio con lei, rimasta davvero come la descrivevano le sue compagne di un tempo.
“Sono nata a Bergamo da una famiglia che vi si era trasferita per lavoro negli anni venti, dopo la prima guerra mondiale, e qui ho vissuto per vent’anni” dice Velia di sé. Il padre è Pietro Sacchi, uno dei primi fotografi, conosciuto a livello nazionale come ha ricordato L’Eco di Bergamo in un bel servizio per il centenario della nascita; la madre è Corsiera Cavallina, una pittrice di notevole talento se le viene affidato il compito di ritrarre personalità ecclesiastiche e dipingere soggetti sacri, che troviamo ancora in numerose chiese di Bergamo e provincia.
In questa famiglia, che definirei tranquillamente anticonformista, Velia ha la possibilità di iscriversi, dopo il liceo, all’Accademia Carrara per diventare scultrice, una delle prime allieve insieme alla sua grande amica Alda Ghisleni.
“Ho cominciato ad interessarmi di politica quando ho conosciuto alcuni esponenti del Partito d’Azione, negli anni immediatamente precedenti la lotta di liberazione, tra il ‘41 e il ‘42: avevo vent’anni.
Mimma Quarti, che è stata mia compagna di scuola, era già un membro del Partito d’Azione per tradizione familiare, apparteneva infatti ad una famiglia antifascista da tempo.
A Bergamo la casa dei Quarti era diventata un centro della Resistenza, vi arrivavano inglesi, americani; dopo il 25 luglio, con la caduta del fascismo, Ernesto Rossi è tornato a Bergamo dal confino e ci si è riuniti intorno a lui e alla moglie, Ada Rossi.” continua Velia nella sua testimonianza.
Amiche, compagne di scuola, insegnanti: comincia in questa cerchia affettiva la necessità di impegnarsi, di fare qualcosa per arginare i danni della guerra. L’antifascismo è l’aspirazione ad una libertà sconosciuta per queste giovani donne cresciute nel clima asfittico del regime, ma è anche la voglia di esistere nella concretezza dell’azione, di misurare se stesse con la realtà.
Tra amiche fondano un’Associazione per la pace e la libertà, che confluirà successivamente nei Gruppi di difesa della donna, poi, nell’accelerazione degli eventi, soprattutto a partire dal 1943, ognuna sceglierà la propria strada anche dentro partiti diversi e Velia la ritroveremo a Milano, redattrice insieme ad Amendola e Curiel dell’Unità clandestina.
Si avverte nelle sue parole, come in quelle delle altre testimoni di quel tempo, il senso di un discorso corale, di uno stare tra donne che, se non ha ancora parole per dirsi, sa utilizzare a favore della lotta di liberazione tutta la tradizionale sapienza femminile, le strategie di sopravvivenza e la rete di relazioni del quotidiano, più difficili da individuare per i nazifascisti.
La rete del quotidiano è la grande forza che consente di fruire di livelli diversi di solidarietà, così ad esempio Velia può lasciare la sua bambina in custodia alla madre ed entrare in clandestinità, dove è accolta e nascosta dalle donne dentro una piccola comunità operaia di Alzano Lombardo.
Proprio lì scopre scelte politiche che non si dichiarano a parole, ma vivono nell’intreccio dei gesti quotidiani: il brodo di pollo che le fanno bere quando si ammala, e a quei tempi trovare un pollo era più che un miracolo, le cure che hanno per lei senza mai fare domande.
Velia ricorderà le donne di questo primo periodo clandestino con gratitudine e tenerezza, ma soprattutto con ammirazione: scopre tra loro quella condizione operaia di cui lei, signorina di buona famiglia, non conosceva l’esistenza, ma soprattutto ne scopre la coscienza e il coraggio antifascista.
“La condizione delle donne non è cambiata come ci aspettavamo dopo la Liberazione” dice Velia “Mi piacerebbe ricordare tutte queste donne che ho conosciuto, soprattutto Dorina di Alzano Lombardo che mi ha ospitata nella sua casa (…) Quando sono tornata a Bergamo dopo la Liberazione ho pensato tanto a tutte queste donne che mi avevano aiutata. C’era un ufficio a Porta Nuova che rilasciava i certificati per il riconoscimento dei partigiani, io non cercavo un riconoscimento per me – a me l’ha dato Spadolini trent’anni dopo – ma lo volevo per queste donne. Dorina, Adriana Locatelli che faceva la parrucchiera, una certa Piera, operaia, Assunta Bonaita che mi aveva ospitata per tanto tempo e lavorava alla cartiera Honegger di Alzano Lombardo, tutte donne che a me allora sembravano vecchie e che avevano diritto ad essere riconosciute per quello che avevano fatto.
Bisognava vedere come mi ha trattato il funzionario addetto, mi ha gridato: ‘ma cosa crede…che appena una alza un dito…?! Mi ha trattata malissimo. Quindi sono andata dal Segretario della Federazione Comunista, ma non ha fatto niente perché in quel periodo non volevano inimicarsi nessuno, soprattutto se si trattava di fare qualcosa per gli altri. Per sé l’hanno chiesto il riconoscimento.
Poi i riconoscimenti sono arrivati, hanno fatto delle ‘infornate’, ma i primi hanno avuto anche un riconoscimento economico e per questo sarebbe stato giusto darlo a queste donne che erano povere.”7
La storia di Velia è un frammento di un mosaico ben più vasto di lavoro politico delle donne che è stato ignorato o minimizzato dalla storiografia ufficiale e se è stato possibile cominciare almeno in parte il recupero del patrimonio di memoria scritta e orale grazie al lavoro di alcune storiche, non è semplice riparare all’interruzione di trasmissione della memoria politica.
Una memoria politica che anche oggi sembra interrompersi tra le giovani generazioni e le donne del femminismo.
Ricordando gli anni ’80 mi sembra che l’Italia di oggi si potrebbe capire anche interrogando quella muta diaspora che portava ogni donna fuori dai luoghi e dalle manifestazioni che avevano reso visibili un’inedita soggettività politica, lungo le strade di una personale faticosa realizzazione, alle prese con la concretezza di un’emancipazione che era conquistata sulla carta, ma non nelle relazioni sociali e nel sistema economico del Paese.
A Bergamo basterebbe la storia delle singole donne che costituivano la segreteria provinciale dell’Udi per capire questi trent’anni, ma è una storia sigillata dal silenzio del presente, dall’assenza di domande più che dalla reticenza delle persone.8
Quando Velia torna a Bergamo, dopo la Liberazione, si occupa del Lavoratore Bergamasco, organo della Federazione Comunista, di fatto è la direttrice e redattrice ma non può dichiararlo ufficialmente perché è una donna; così noi ricordiamo i nomi degli uomini ma non il suo così come non la ricordiamo come redattrice dell’Unità clandestina.
Che cosa significa la parola ‘protagonista’ applicata alla storia di una donna quando la sua voce è stata smarrita, il suo agire cancellato?
E a noi basta ricordarla in un libro poco conosciuto, in una conferenza con scarso pubblico?
Non so se la storia delle donne aspetta ancora che siano poste delle buone domande, certo è che le risposte dovrebbero essere più largamente conosciute, e non solo dalle donne.
La resistenza della comunità degli storici a modificare il senso comune storiografico non è certo estranea a quella rigidità della vita politica che tiene ancora lontane le donne, e con le donne tutta la dimensione della vita e della società che definiamo civile.

BIBLIOGRAFIA

Solo alcune indicazioni utili per comprendere lo “sfondo” sul quale ho tratteggiato il mio intervento:

Unione Donne Italiane (oggi Unione Donne in Italia), I gruppi di difesa della donna 1943-1945, Archivio Centrale, Roma 1995

Maria Michetti, Margherita Repetto, Luciana Viviani, Udi: Laboratorio di politica delle donne, Rubbettino, 1985, 2° ed. 1998

Dianella Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica. Storie di donne, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2006