A come amore (1985)

A come amore (1985)

Introduzione di Rosangela Pesenti

Voglia prepotente di perdere tempo, di buttarlo allegramente dalla finestra aprendo questo vetro che da troppi giorni aspetta di essere pulito, consumarlo senza pensieri, senza pensare che le scorte sono limitate, godermi la mia voglia di vivere e non interrogarla, rifletterla, scriverla, ma goderla semplicemente nel sole di questa primavera reticente, passeggiare coi miei figli nella campagna nuova.

Non è possibile ecco, proprio loro, ricomincia il turbinio di parole amore, arte, realizzazione, mutamento. Ho scelto di vivere dentro le contraddizioni fino in fondo, non mi servono scontate soluzioni, voglio tutto al suo prezzo.

Che senso ha parlare di me?

Ho in testa, precisa, la traccia del discorso da fare; da qualche parte ho una serie di appunti ragionati, so scrivere una relazione. Che vado cercando? Non mi piace come scrivo in questo momento, c’è troppo di me, impastato dentro, della mia vita, del mio corpo, vi si sente il mio odore, tutti i miei umori, soprattutto le contraddizioni, tutte lì. Chiunque potrebbe riconoscermi: una donna.

Non riesco o non voglio mimetizzarmi nell’oggetto scrittura. Cerco una strada. La strada delle donne. Un plurale che mi da la nausea.

Ci sono stata in questo plurale fino infondo, fino a scoprirne ogni unità delle migliaia che lo compongono, che lo disgregano. Eppure esiste, lo sento dentro e fuori nei tentativi maldestri che abbiamo fatto per esprimerlo. Non si dicono pensieri nuovi con parole vecchie.

Anche questo è un tentativo.

Riaffiora la tentazione dell’utopia totalitaria, abbiamo capito, facciamo un progetto e cambiamo, ma noi sappiamo che il mondo non si cambia così, non è questo il modo.

Il tempo è una stanza tutta per me, di questo ho bisogno ma non voglio privilegi e questo è un privilegio.

Lo statuto dell’intellettuale cominciò con Petrarca, dicono, e l’uomo si divise, segmentò la sua vita, le sue possibilità. Si inventarono i ruoli, si separarono le competenze, l’intellettuale, il politico, l’artista, l’operaio, la donna. La massima produttività, il massimo prodotto, la possibilità la voglia inconscia dell’autodistruzione totale. Di colpo ogni ruolo perde di significato, l’artista può dipingere fiori sulle capsule dei missili, può crogiolarsi nell’impotenza della denuncia o tacere. Esiste la possibilità della ricomposizione, una nuova speranza? Esiste (quel punto di domanda mi sembra azzardato, vorrei ridimensionarlo un po’, temperare la speranza col disincanto, ho bisogno di nuovi segni grafici) ma non è facile, detesto il dilettantismo, fare di tutto un po’ e tutto male. Ogni uomo può essere artista, può creare? No, non è questa la strada.

Una stanza tutta per sé, ho letto e riletto le sue parole fino infondo senza capirle mai fino infondo, fino a quel giorno, fino a quel fiume in cui hanno scelto di tacere per sempre.

Una stanza tutta per sé, il privilegio, di questo dunque hanno bisogno le donne per produrre arte, essere uguali agli uomini, le stesse possibilità, l’emancipazione? Ci ho creduto anch’io senza avere mai il coraggio di sceglierlo fino in fondo.

Una stanza, il tempo, il privilegio per poter produrre; la mancanza come alibi. Ho letto e riletto i suoi libri tra gli altri, come gli altri, Woolf, Joyce, Kafka, Roth. Lei come gli altri, intellettuale e artista, e alla fine, inspiegabile, quel fiume. Si dice vi sia discesa dolcemente, vestita di bianco, come incontro alla vita.

La vita, sta qui il nodo, lo sento ma non riesco a dirlo, sento di aver capito, sto sciogliendo il nodo giorno dopo giorno, sto seminando faticosamente quella speranza rassegnandomi all’anonimato del seminatore (qualcuno domani sarà un albero).

Lei era una donna, in lei l’intellettuale non era un segmento, lei era il tutto, il silenzio dell’impotenza non poteva che tradursi nell’impossibilità fisica della parola. Così la morte ha restituito la sua verità alla vita.

Forse la differenza, la novità, sta proprio qui. Mi fanno paura le affermazioni, le certezze, ho dovuto distruggerne troppe per cominciare a vivere e mi sembra di sentirmi in pace solo adesso con questo silenzio in cui ogni cosa ha la sua eco, dove ogni certezza ha legittimato il suo contrario, la coerenza non è più finzione o monumento ma solo la concretezza della ricerca.

Adesso so perché non sceglierò la morte per vivere e neppure il compromesso.

La differenza sta qui ed è banale: vivere interi. Le donne non hanno mai prodotto niente che non le coinvolgesse per intero. Curioso usare una doppia negazione per un’affermazione.

Forse perché questo intero in realtà è stato gestito in uno spazio talmente minuscolo da poter essere considerato una briciola intera; migliaia e migliaia di briciole per migliaia di anni; i resti della tavola sulla quale i padroni si sono spartiti il bottino.

Il mondo mi preme addosso, mi soffoca questo mondo costruito dai maschi, dimensionato sulle loro paure.
Con quanta pazienza potremo costruire pezzetta per pezzetta la nostra storia. La storia: hanno messo insieme un puzzle credibile dimenticando nella scatola la maggior parte delle tessere, non è così facile romperlo e ricomporlo. Con pochi elementi il gioco è più semplice e quadra facilmente.

Per la verità ci vuole troppa pazienza.
Improvvisamente la fretta. L’altra metà dell’avanguardia, le tele di Penelope, Michelangelo non era una donna, non ci sono state grandi artiste donne. Spiegatemi che così l’arte e io farò il resto.

Di nuovo lei ritorna, un’ombra amica, sorella.

La sua ragione lucida, la sua follia è la nostra.

Lo scrittore, l’artista è sempre il prodotto della sua situazione storica, delle condizioni materiali della sua vita. Non basta una stanza, non bastano le briciole della vita.

Se l’arte è un’ aspetto della capacità umana di esprimersi nell’oggetto, il problema sta tutto nella possibilità e nella motivazione. Sono queste le coordinate sulle quali incontriamo l’oggetto-arte.

Arte, amore, realizzazione, tutto al fine si muove sulle stesse coordinate.

La possibilità di vivere interi senza rinnegare, senza tacere, senza fingere.

Ancora la negazione, sappiamo ciò che non vogliamo essere.
Amore, la penna si ferma, si sospende la vita, potrei descriverne minutamente la fenomenologia, altri l’hanno già fatto, potrei aggiungere qualcosa o farlo in modo diverso.

Amore, arte, vi posso dire come vivo la mia battaglia quotidiana per la possibilità.

Mentre scrivevo (mentre stiravo, davo da mangiare ai bambini, seguivo la lavatrice, innaffiavo i fiori, mi preparavo per un corso, andavo a scuola) ho letto “Cassandra”. Ormai accumulo libri senza trovare il tempo per leggerli.

Questo è stato un incontro felice. Quasi non credo a ciò che leggo. Da piccola, alle medie, giocavamo alla caduta di Troia, ricordo un’enorme catasta di legna nel giardino della mia amica e io ero Cassandra, la veggente. Così ritrovo Christa, lo stesso modo di percorrere la vita, la stessa sensazione di vedere trop¬po e troppo avanti, al di là.

Cosi, io piccola donna sconosciuta in questo paese affondato nella pianura silenziosa, in questo mondo di vinti, mi sento in armonia con la storia.

Amore, forse non so cos’è. Ho sentito a volte il mio corpo, l’ho dimenticato in sintonia con un altro, l’ho sentito esaltarsi fino allo spasimo nel parto, ma più spesso sento il gelo dell’angoscia, il brivido della necessità.

Sto sempre tesa ad ascoltare notizie di morte.

Ho scoperto fra i miei alunni rapporti violenti. Ho provato rabbia, la voglia di schiaffeggiarli. Sono cresciuti insieme nella stessa classe, ragazzi e ragazze ed ora non sanno trovare un ‘identità se non nei ruoli stereotipati della violenza maschile (le ragazze non sono più le stesse, non sono subalterne).

Ho parlato, credo d’aver suggerito loro di cercarsi attraverso l’amore per sé e per gli altri. L’amore come conoscenza, una possibilità di conoscenza che non tarpa le ali. Vivere interi.
Non so se l’hanno capito.

La gente intorno a me non s’interroga, appartengono alla specie dei vinti, eppure anche in loro è penetrata l’inquietudine, fiutano il pericolo, lo vedo dal modo in cui ostentano le loro certezze, dal modo in cui si attaccano ad ogni più piccolo prodotto. Hanno riesumato tutti i riti, la loro vita è di nuovo scandita dalla tradizione, dall’evento ma dietro gli abiti bianchi delle spose non c’è più l’ingenuità del boom economico, la forzatura della recita traspare troppo spesso dalle sfilacciature del copione. Io non riesco più a parlare, anche la “politica” anche la “politica delle donne” odora di recita e non voglio semplicemente un nuovo copione.

Riflusso nel privato, balle, non sono mai stata tanto attiva, tanto attenta, tanto “sociale”, sto solo cercando di vivere.
Vivere intera a tutti i costi. Una battaglia politica non un’affermazione individuale.

La prima possibilità per la quale lottare è la vita stessa.
Se il giorno posso talvolta ridere, la notte si popola di fantasmi. Lo stesso percorso. Anch’io, come Christa ha già detto qualche anno fa, voglio capire ciò che mi rende complice dell’autodistruzione; ritrovare la strada dell’opposizione concreta fuori da ogni ambiguità.

La produzione artistica femminile; in che senso è diversa l’arte delle donne? Nel senso che è diversa la vita delle donne, il modo in cui la realtà si incontra-scontra con la loro possibilità-capacità d’esperienza.

Autonomia è stata la parola d’ordine, l’ho tradotta con “vivere intere”. Sono sempre più convinta che possa essere la strada sulla quale incontrarsi, sulla quale il mondo ridiventa umano: dell’uomo, della donna e della loro possibilità.

Amore, la possibilità di essere.

Arte, la possibilità dì essere nelle cose, interi, senza rinunciare alla storia e senza soccombere ad essa.